“La polvere e i testimoni” (4)
seminario di Lonigo, 20-21 ottobre 1990
Vorrei con questo intervento riproporre e rilanciare alcuni interrogativi, alcune piste, che le relazioni di Caccairi e di Bodrato hanno presentato e che anche il confronto e il dibattito hanno alimentato e allargato, favorendo la circolazione delle diversità che sono al nostro interno e che vanno accolte, valorizzate.
Prima di far questo, comunque, vorrei ricordare sostanzialmente una cosa: questo seminario nasce dal vissuto dei pretioperai del Veneto. Nasce dal fatto di poter dire che cosa il preteoperaio vede, a partire dall’angolazione della sua quotidiana condivisione di vita con quanti vivono con il lavoro delle loro mani; che cosa, cioè, il preteoperaio vede dall’angolazione del suo non essere funzionale all’organizzazione ecclesiastica.
Egli vede e condivide, con i compagni di lavoro, l’insignificanza della fede. Spesso, infatti, la fede è ridotta a gestione del sacro, è ridotta a bene sociale. È una fede usata politicamente per il consenso, è una fede ridotta a catechismo o indottrinamento, una fede che alcuni hanno e che altri devono ricevere.
Questo è ciò che il preteoperaio vede dall’angolazione della sua quotidianità di vita, stando nella compagnia degli uomini del lavoro. E vede anche un’altra cosa: vede come la durezza delle basi materiali della vita (che significa: tempi di lavoro, ritmi, esigenze di produttività, di competizione, etc.) svuota e scolorisce non solo la fede, ma il senso stesso della vita; e cioè vede e condivide con i compagni di lavoro questa espropriazione. Questa scarnificazione però mette in condizione, forse, di formulare con verità una domanda: “È ancora possibile, e come, la fede, nel restare in compagnia con gli altri? Nell’ostinazione di restare insieme con gli altri, quale fede è ancora possibile?”.
Nessuno di noi si rassegna al fatto che la fede venga ridotta a dimensione privata, individuale, ma quale fede è ancora possibile all’interno del fare compagnia in una situazione di espropriazione? Proprio perchè non legato alla professione ed alla gestione della vita religiosa, proprio perché vive di una sua professione, il preteoperaio, che può essere metalmeccanico, chimico, operaio del legno, operatore sociale etc., si chiede e chiede: “Quale testimonianza oggi è possibile?” e poi, il problema della qualità in questa testimonianza: “Testimoni di quale Dio?”.
Allora questo seminario non nasce a caso, né nasce improvvisamente, ma si colloca all’interno di un cammino, di una scelta di vita.
E molto brevemente, allora,vorrei ricordare la parabola dei pretioperai veneti. È utile fare memoria dei passaggi intervenuti in questi anni di condizione, di condivisione operaia.
L’evangelizzazione, questo tema così centrale, che sempre accompagna la vita del credente, da punto di partenza, quasi uno zaino che ci accompagnava nel nostro andare a lavorare, è diventata esigenza di ascolto dell’evangelo, cioè di non darlo per acquisito. Alla fin fine ci siamo scoperti ingombranti, poco trasparenti alla forza dell’evangelo di salvezza. È stato il passaggio da annunciatori dell’evangelo ad ascoltatori.
Questo non perchè è venuto meno il riferimento forte alla radice dell’Evangelo, ma perché è venuta meno la presunzione di sapere e di poter dire: “Questo è evangelo”. Invece si è fatta strada l’esigenza di stare alla scuola della Parola e di lasciarla nella sua libertà.
Un altro passaggio intervenuto è certamente questo: dalla speranza di contare, di essere testa di ponte della Chiesa, dentro il lavoro – come erano le motivazioni iniziali – alla scelta della compagnia, della condivisione, dello stare accanto, vivendo la stessa condizione.
In fondo l’intuizione dello stare nella compagnia di tutti, conoscendo la fatica sotto il sole esperimentata da quanti vivono del lavoro manuale e dipendente, ci ha condotto sulla strada della progressiva scoperta dell’essenziale.
Gli interventi di Cacciari e di Bodrato ci hanno fortemente provocato: credevamo dati per acquisiti alcuni punti e ci ritroviamo volentieri a navigare ancora per altre acque; in fondo, quello che Roberto Berton ricordava: “Attenzione a non confondere il dito con la luna” è un fatto che constatiamo importante e presente in questa fase della nostra vita.
Cacciari e Bodrato mi sembra abbiano fortemente sottolineato l’importanza di superare alcune separatezze, di fare lo sforzo di andare verso una sintesi di ciò che ci viene presentato come separato anche nella vita.
1. Comunemente pensiamo, e ci è stato detto, che chi ha fede può parlare e chi non ha fede deve tacere. Invece, soprattutto Aldo Bodrato, ci ha ricordato che è importante parlare nella coscienza della propria infedeltà e cioè nella coscienza della propria non fede, nella coscienza della propria non piena rispondenza. C’è un rapporto stretto tra la parola ed il silenzio, perché il dire deve nascere dal tacere, dall’ascoltare; perché solo un lungo ascolto consente di dire non banalità, ma di essere indicazione di una ricerca, di una silenziosa compagnia, quella di Dio e degli uomini, delle donne.
2. Siamo stati invitati a fare attenzione che alcune separatezze sono diventate ormai uno stato di vita ed allora vi sono alcuni eternamente maestri ed altri eternamente discepoli. Vi sono i contemplativi, quelli che si occupano delle cose di Dio, e gli attivi, quelli che si occupano della costruzione della città dell’uomo. Vi sono i produttori dei beni religiosi – i preti – e vi sono i consumatori di questi beni – i laici -. Invece, opportunamente ci è stato ricordato, che c’è un Unico Maestro e che tutti siamo discepoli; che il Dio da adorare sta dentro la vita, sta dentro la storia, sta dentro il quotidiano dell’esistenza.
3. Una terza separatezza riguardava questo rapporto sempre così difficile tra la chiesa reale e la chiesa ideale, tra la fragilità e la perfezione. Questa separatezza, questa frattura, ci è stata presentata come tentazione, come fuga, come paura di restare dentro ciò che è complesso, ciò che è ambiguo, ciò che è peccaminoso. In altre parole ci hanno detto: non esiste il bene ed il male, ma esiste la mescolanza, l’impatto, l’impasto, esiste l’ambiguità, esiste la vita personale e comunitaria che è insieme fragile e proprio per questo tende alla perfezione. Non esiste una chiesa che abbia consumato la sua perfezione, ma esiste una chiesa che è casta e meretrice, insieme. È proprio l’atteggiamento, quello di Pietro e di Giovanni: tensione e dialettica, non uno senza l’altro, non uno che blocchi e uccida l’altro. Di qui la non paura del conflitto, della denuncia, del ricordare che si è in viaggio, che si è in cammino, che non si è arrivati.
4. Un quarto ambito di separatezza: è stata ricordata l’importanza del tenere aperto il rapporto tra l’essere singolo e l’essere comunità, tra l’essere solo e l’essere insieme. Perché il singolo, per essere tale, sembra che tutto il suo spazio sia quello di un dissolvimento nel comunitario, nel collettivo. Spesso la comunità, invece di essere un incontro fra diversi, di singolarità, di originalità, è un assommarsi neutro, senza questi connotati personali. Invece l’esperienza dice che tu nasci e tu muori come singolo e la comunità non ti sostituisce nella tua risposta alla vita e nella tua ricerca di una identità. Questo, trasferito nella dimensione religiosa, fa dire che il rapporto con il Tu è singolo, anche se avviene dentro un contesto comunitario.
Tu ricevi la fede in e da una comunità, cioè da altri, ma a nessun altro puoi delegare la tua scelta. A tua volta tu ad altri consegni – “tradisci” – una fede che poi ancora sarà vissuta e trasmessa secondo cammini non ipotizzabili e non standardizzabili. Tu sei solo davanti alla Parola, anche se detta in una comunità.
Dunque siamo stati fortemente provocati a superare queste separatezze e io credo anche profondamente aiutati, forse (amo sempre sottolineare questo “forse”) a porre una domanda giusta, cioè: «come stare nel paradosso della vita? come continuare a fare professione di due contrari?» (come diceva Bonhoeffer), cioè: «come parlare e tacere, come vivere la propria fragilità, chiamata a tendere alla perfezione? come essere singolo e comunità?»; e, per dirla con il salmo 42, «come continuare ad abitare la Terra (cioè avere radici profonde, ancorate, piedi su questa terra) e vivere con fede?».
Questa domanda, credo, ce la poniamo tutti, avendo la consapevolezza che può stare nel paradosso chi accetta di vivere la paradossalità della vita che è ben altra cosa dalla professionalità. La professionalità tende ad escludere, a specializzare, la paradossalità invece tende a tenere aperti.
Ecco perché allora il preteoperaio si chiede, non chiede ad altri, ma a se stesso, ed interloquisce con altri, dicendo: «Ma un testimone pagato, oggi, che testimone è?». «Un prete che deve vivere di fede, per il quale la fede è il suo pane, quale fede può coltivare?».
Ed allora si ripropone per tutti un cammino aperto a nuove coniugazioni: questo andare oltre le separatezze indica inventare nuove sintesi, sapendole provvisorie: Evangelo e storia, lotta e contemplazione, etc.; …non dimenticando che siamo veramente davanti al cuore dei problemi quando diciamo che il nostro tempo è maturo per vivere forse così l’autonomia della politica e il primato della fede.