“DAI DIAMANTI NON NASCE NIENTE…”
NELLA CONDIZIONE OPERAIA:
VANGELO O EVANGELIZZAZIONE?

Convegno nazionale 1992
prima relazione


 

A) PREMESSA

Questa descrizione delle condizioni di lavoro in fabbrica si poteva leggere qualche settimana fa sulle pagine di un quotidiano:

“Il 90% della manodopera è costituita da giovani donne dai 16 ai 25 anni, senza alcuna protezione sindacale. Qui viene assicurata una produzione 30 volte superiore a quella dell’operaio USA; in cambio di un salario di circa 20 volte inferiore: un’ora di lavoro non basta per comprare un chilo di farina o mezzo chilo di pollo.
Il ritmo di produzione è continuato: 24 ore con turni di 8 ore ciascuno; ma quando è necessario vengono inseriti dei turni supplementari: in tal modo le operaie arrivano a lavorare sino a 63 ore settimanali.
…Sono oltre 500 mila gli operai messicani trasferitisi in massa durante gli ultimi due anni nelle 2000 “maquiladoras” della valle del Rio Grande, al confine con il Texas; là le 500 multinazionali comprese nell’elenco della rivista Fortune [cioè le più importanti del mondo] si sono trasferite dopo aver smantellato gli impianti industriali degli States del nord, mettendo sul lastrico milioni di operai.
E’ prevedibile che il recente “accordo di libero scambio” tra USA e Messico influirà sulla condizione di 700 milioni di persone dell’emisfero occidentale, inclusi i 250 milioni che vivono negli Stati Uniti.”

C’è da scommettere che anche in buona parte di noi preti operai – che la fabbrica la conosciamo bene, e dal basso – scatti veloce l’istinto di rimuovere le immagini tremende che una descrizione simile ci potrebbe suscitare: “per fortuna, non siamo nel Messico!”
Potremmo anche dire che per fortuna non siamo in Corea del Sud, o a Taiwan; oppure a Singapore o nelle Filippine…
Ma se ci soffermassimo a vedere le condizioni di lavoro a Voghera – buona cittadina della provincia italiana, anzi, del Nord sviluppato di questa “nostra” Italia? E se andassimo a vedere le condizioni di lavoro alla Fiat di Cassino? E se ci dicessero che tra pochi anni nel nuovo stabilimento Fiat di Melfi (e tanto più nelle fabbrichette dell’indotto che vi nasceranno attorno) si lavorerà in condizioni, se non “messicane”, almeno “giapponesi”?
Il “guaio” è che i managers delle 500 multinazionali di cui sopra vedono il mondo alla stregua di un villaggio dove tutto può essere pianificato per la realizzazione dei loro obiettivi: e perciò sempre più spesso ci troveremo di fronte ad accordi sindacali nei quali leggeremo frasi del tipo: “è necessario adeguarsi ai livelli di produttività, efficienza e competitività raggiunti dalla concorrenza”. E prima o poi saremo costretti a scoprire che la concorrenza a cui “adeguarsi è necessario” è quella delle maquiladoras messicane…
Da qui in avanti la nostra relazione potrebbe svilupparsi come documentazione a supporto delle affermazioni fatte finora. Noi pensiamo però che già la lettura attenta delle pagine di alcuni giornali, unita alla “lettura” dei cambiamenti avvenuti in questi ultimi 10 anni nella giornata lavorativa dei proletari con i quali ciascuno di noi ha rapporto normalmente, sarebbero due buone fonti di documentazione.
Magari per scoprire – facciamo solo questo esempio – che sta diventando ormai normale nelle fabbriche “risparmiare” sulle 10 ore annuali di assemblea retribuita conquistate con le lotte del ’69; fino a trovare l’accordo sindacale che rinuncia esplicitamente al loro godimento non si sa bene in cambio di che cosa (questo è un fatto denunciato al recente incontro nazionale di “Essere sindacato” presso la Camera del Lavoro di Milano).
Noi abbiamo perciò scelto di parlare di condizione operaia oggi limitandoci a descrivere due situazioni esemplari, che si trovano nel cuore di quella parte dell’Italia che è la più vicina all’Europa.


 

B) PRIMO ESEMPIO:
UNA PICCOLA FONDERIA VICINO A VOGHERA

(Ovverossia di come 100 anni di lotte del proletariato in Italia sembra che non abbiano lasciato traccia in buona parte del nostro mondo cosiddetto sviluppato: così, basta uscire pochi chilometri dalla metropoli per ritrovarci in …Messico!)

1. Da quasi 4 anni ho trovato un posto di lavoro in una piccola fonderia di ottone che produce rubinetti, valvole, raccordi per impianti idraulici. La tecnica della lavorazione è quella denominata “fusione in conchiglia”.
Negli ultimi quattro anni la fabbrica è praticamente raddoppiata come impianto ed è aumentata moltissimo la produzione. Gli operai sono aumentati solo di due unità.
Gli operai addetti sono attualmente 17 (16 uomini e una donna), così ripartiti: 7 ai forni, 3 alle “anime”, 6 alla finitura e un meccanico.
Quanto all’origine, gli operai sono: 5 siciliani, 3 calabresi, 5 senegalesi, un albanese, un veneto, un romagnolo e un piemontese.
I padroni sono tre: padre e due figli, sempre presenti in fabbrica.
2. Le condizioni di lavoro.
Il lavoro di fonderia è caratterizzato dalla dequalificazione permanente. L’operaio impara in poche ore quelle che sono le sue mansioni, e poi le ripete per centinaia o migliaia di volte al giorno, per tutti i giorni che vi lavorerà.
Dequalificazione, quindi, e ripetitività, con dei ritmi elevati, destinati ad aumentare per gli incentivi che vengono messi in azione, che vanno dai rimbrotti alle minacce, fino alle incentivazioni salariali in forma di cottimo.
Tutto ciò comporta, per un lavoro cui è già connessa una notevole fatica fisica, una buona dose di stress, e quindi un aumento di pericolosità, in presenza di elementi già di per sè rischiosi come il metallo incandescente, le macchine spesso private degli accorgimenti antinfortunistici, il trasporto di pesi con sistemi inadeguati. Infatti gli infortuni sono assai frequenti.
Per quanto riguarda la nocività, gli elementi più comuni sono: polvere, rumore, sbalzi di temperatura, presenza di gas tossici; elementi presenti un po’ dappertutto, con variazione di intensità a seconda dei reparti.
Ma la nocività maggiore è certamente quella della non libertà e non serenità nei rapporti in fabbrica. Per molti è addirittura la paura di parlare perfino con i propri compagni di lavoro. La sorveglianza è continua e incombente, per impedire non solo le perdite di tempo, ma anche ogni possibile contatto che possa coalizzare tra di loro gli operai.
3. La fabbrica non è sindacalizzata, non è mai stata sindacalizzata.
Anzi, si può dire che non esistono neppure le premesse per un minimo possibile di organizzazione degli operai.
Il sindacato, anche nel recente passato, ha fatto qualche intervento, che è stato però episodico e ininfluente in una realtà che è del tutto controllata dal padrone.
Perciò non esiste negli operai coscienza e conoscenza dei propri diritti, e spesso neanche la voglia di conseguirle, poichè ognuno si sente appagato solo da ciò che riesce ad ottenere dalla sua contrattazione individuale con il padrone.
Non esiste quindi alcuna memoria delle lotte operaie, delle conquiste sindacali; così come non esiste alcuna attenzione a ciò che avviene al di fuori di quel piccolo mondo. Contratto nazionale, scala mobile, scatti di anzianità: sono parole incomprensibili. Nessuno è in grado di leggere il listino paga che riceve a fine mese.
Non esiste una coscienza collettiva. Non esiste un collettivo di operai come soggetto attivo ed operante nè sull’organizzazione del lavoro, nè sui problemi dell’ambiente, nè tanto meno sulla contrattazione.
Ognuno pensa a se stesso; c’è il padrone che pensa a [sfruttare] tutti.
4. L’individualismo è infatti la cultura dominante.
Il contratto individuale, che ciascun operaio è impegnato a tenere nascosto ai propri compagni, è lo strumento della divisione e del dominio.
Fino allo scorso anno venivano assunti dei giovani operai generalmente con il contratto di formazione lavoro. Durante i 18 mesi di lavoro il giovane viene valutato. Naturalmente chi non si impegna nel lavoro, chi non rende, viene spedito via in breve tempo.
Ma anche chi parla troppo facilmente con i compagni, chi manifesta uno spirito critico, chi presenta qualche problema di salute… non viene confermato. Restano solo i fedeli, i disponibili, gli obbedienti, quelli che “stanno col padrone” e si guardano bene dal criticarlo.
Si richiede quindi a tutti gli operai la massima disponibilità, che vuol dire il massimo di tempo di lavoro possibile e il minimo di assenze. Descrivo meglio, aggiungendo a voce qualche esempio significativo:
* il minimo di assenze:

– la malattia deve essere un’eventualità rarissima e, nel caso, di pochissimo tempo
– “si può lavorare anche con la febbre o con il mal di testa” (frase testuale pronunciata dal padrone)
– in caso di infortunio, è meglio mettersi in malattia, così si viene pagati regolarmente a fine mese, e si evitano all’azienda odiose ispezioni

* il massimo di tempo di lavoro:

– l’orario medio settimanale è di 50/52 ore, per alcuni anche 60 ore e più
– quando l’azienda ha bisogno, si lavora anche di domenica, anche nelle feste, anche di notte.

Ma oltre a questa disponibilità al lavoro senza tanti limiti, si richiede anche la “collaborazione”, ossia il sentirsi coinvolti nella vita dell’azienda, fino a sacrificare il proprio tempo libero e la propria vita privata, e a cadere in una forma di assoggettamento psicologico…
La contropartita a tutto questo è un trattamento salariale privilegiato con superminimi individuali elevati, forme di cottimo allettanti per chi ha bisogno di rimpinguare gli scarni introiti di fine mese.
Così uno, per quattro soldi in più, svende tutto quello che ha a disposizione: non solo il lavoro delle sue braccia, ma anche il proprio tempo libero, la propria vita privata, la propria salute; e spesso anche la propria testa, la propria libertà di pensiero e di giudizio.
5. Da circa un anno sono arrivati i senegalesi.
Essi hanno praticamente rimpiazzato i giovani con contratto di formazione-lavoro nel ruolo di mano d’opera più debole e più precaria, più facilmente ricattabile e licenziabile. Essi infatti sono assunti in genere con contratti a termine di pochi mesi.
Specialmente all’inizio sono stati un ulteriore elemento di divisione tra i lavoratori, per il loro isolamento, per la difficoltà reciproca a comprenderci, per certe prevenzioni e resistenze da parte degli operai italiani verso di loro.
Si sono fatti apprezzare per la loro capacità di adattarsi anche alle condizioni più disagiate, per la capacità di apprendere e di lavorare con ritmi elevati.
Sorprendente è la coscienza della loro dignità, che dimostrano nel farsi rispettare e nel far valere i propri diritti. Ricordo soltanto il caso di Sour, che, licenziato in seguito ad un infortunio durante la prima settimana di lavoro – in periodo di prova – si è rivolto al sindacato e si è fatto riassumere; ha poi lavorato per i quattro mesi del contratto concordato, nonostante i rapporti evidentemente compromessi con i padroni.
I senegalesi vivono in gruppo, assai uniti tra loro, fedeli alle loro tradizioni; conservano assai viva la loro identità culturale e religiosa.
6. Alcune osservazioni a conclusione di questo “quadro”:
a) la fonderia che ho descritto è una piccola realtà , che rappresenta però una grande massa di operai e operaie che oggi lavorano e vivono in condizioni simili, se non peggiori.
Sono circa 7 milioni i lavoratori delle aziende con meno di 16 addetti.
Ma anche tra le aziende con più di 16 addetti sono molto numerose quelle che non hanno la presenza del sindacato; o nelle quali comunque i lavoratori non sono sufficientemente tutelati.
b) E’ una realtà negata da tutti:
– dagli stessi operai che sono costretti a subirla, molti dei quali provandone vergogna
– dalla cultura piccolo borghese diffusa dai mass media: è considerata una realtà “normale”, anzi quasi un privilegio (l’operaio della grande fabbrica in genere è considerato un “garantito”; l’operaio della piccola azienda è ritenuto fortunato perchè lavora in un ambiente…”familiare”!)
– dalla Chiesa ufficiale, che nei suoi documenti più autorevoli dimostra di non conoscere questa realtà (dall’enciclica “Centesimus annus”, n.41: “Nella società occidentale è stato superato lo sfruttamento, almeno nelle forme analizzate e descritte da Carlo Marx”).
c) Spesso mi pongo la domanda sul significato della mia presenza lì.
Innanzitutto questo mi si pone come un dato: io sono lì e non posso essere che lì.
Il mio essere preteoperaio lo sento e lo vivo essenzialmente come “condivisione della condizione operaia”. E questo oggi mi pone qualche problema.
– In altre situazioni non condividevo solo la condizione materiale, ma gli ideali, le lotte, la rabbia, i dibattiti, le proposte… Qui tutto questo non c’è.
– E inoltre non mi sento neanche di condividere l’orario di lavoro prolungato (io lavoro non più di 40 ore settimanali), nè il cottimo, nè il servilismo…
In ogni caso oggi il mio condividere la condizione operaia lo vivo come testimonianza in favore della dignità della persona umana, contro lo sfruttamento e l’alienazione del lavoro, contro quella che alcuni giustamente chiamano la “schiavitù industriale”.


 

C) SECONDO ESEMPIO:
LA BREDA DI SESTO S.GIOVANNI

(Ovverossia di come sono riusciti a smantellare le resistenze degli operai – e dei consigli di fabbrica che in qualche modo ancora rappresentavano i loro interessi – anche nelle fabbriche storiche di Sesto S.Giovanni, quella che una volta era una roccaforte della classe operaia italiana. E di come agli operai è stata strappata la memoria del passato costringendoli a sprofondare in un futuro sempre peggiore…)

1. La memoria storica di decenni di lotta
La Breda Fucine di Sesto S. Giovanni (attorno ai 1000 dipendenti, tre quarti dei quali operai) fino a qualche anno fa era cittadella del PCI: gestione monolitica della massa operaia, lotte decise e incisive, almeno apparentemente.
Tre esempi:
– Breda Fucine è la fabbrica che sta all’origine – dal basso – dei servizi di medicina e tutela della salute in fabbrica: l’indagine che nei primi anni 70 è stata svolta con la collaborazione attiva di ogni operaio della fabbrica è diventata un modello da manuale di come ci si può muovere collettivamente contro la nocività del lavoro; quell’indagine “partorì” in Lombardia gli SMAL (servizi di medicina per l’ambiente di lavoro), rapidamente imbrigliati poi dentro la riforma sanitaria nazionale.
– Breda Fucine è una delle poche fabbriche nelle quali i lavoratori avevano conquistato una sostanziosa riduzione dell’orario di lavoro giornaliero; prima come risposta alla nocività delle lavorazioni a caldo; poi sull’onda di quel breve periodo nel quale a livello nazionale la riduzione dell’orario di lavoro fu sostenuta dal sindacato, almeno formalmente.
– Breda Fucine è una di quelle fabbriche che fino a qualche anno fa andavano in piazza in massa per protestare contro le decisioni antioperaie dei governanti di turno; o per dare la classica spallata finale per la firma dei contratti nazionali.
Nel racconto dei vecchi operai le lotte degli anni 50-60 apparivano mitiche: era chiaro che per loro quella era stata una scuola di vita, che si era poi tramandata fino alla generazione degli attuali trentenni, cioè gli ultimi giovani assunti alla fine degli anni 70.
Ma un accordo aziendale del 1985 ha posto le condizioni per spazzare via questa memoria storica importante: tutti gli operai che avrebbero raggiunto i 50 anni nell’arco dei 3 anni successivi, sono stati prepensionati: e così se ne sono andati circa 150 lavoratori, soprattutto operai; quelli che avevano vissuto in prima persona le lotte più significative degli ultimi decenni.
2. Il declino degli anni 80
> Un declino progressivo, legato ai progetti di utilizzo speculativo di tutta la zona: accanto alla Breda c’è la Pirelli (14000 lavoratori negli anni 60: lì erano nati i comitati unitari di base); ed anche la Pirelli è stata gradualmente “spenta”, fino a farne un’area sulla quale dovrebbe essere realizzato il progetto Tecnocity: un polo di terziario avanzato per “Milano, la capitale italiana dell’Europa unita”: nei fatti, poi, si tratta di costruire grandi palazzoni di cristallo…
> Parecchi di voi forse ricordano il nome di altre due fabbriche adiacenti alla Breda Fucine:
– la Breda Termomeccanica – ora Ansaldo: entro il 1994 terminerà la sua attività produttiva
– la Breda Siderurgica, poi Deltasider, attualmente ILVA: chiuderà per accordo sindacale alla fine del 1992.
> Gli ultimi dieci anni della Breda Fucine sono uno spegnersi graduale:
– l’azienda non viene ricapitalizzata; e quindi i deficit di bilancio sono in continuo crescendo.
– Intanto le divisioni sindacali scendono giù fin dentro la fabbrica: il consiglio di fabbrica è sempre più spesso paralizzato da interminabili e inconcludenti discussioni; e gli operai si sentono sempre più frequentemente senza le tutele di cui avevano goduto fino ad allora: “siamo tornati indietro di almeno 20 anni”, è il lamento ricorrente degli operai che hanno più storia di Breda alle spalle.
3. Verso lo smantellamento
> Nel dicembre ’89 si compie la mossa (ormai da anni collaudata per portare un’azienda grossa sull’orlo della chiusura): lo scorporo della società in distinte aziende, alla ricerca di “partners” che portino soldi, mercato e tecnologia (le “sinergie”, come allora si diceva). Sotto il ricatto del fallimento, e la spinta di un sindacato che ha improvvisamente ritrovato una sospetta unità nel sostenere in assemblea il sì alle richieste della proprietà, l’assemblea dei lavoratori approva l’inizio della fine.
> Così io, operaio della grossa azienda a partecipazione statale mi ritrovo improvvisamente in una media azienda, nella quale ha completa mano libera un padrone vero e proprio, anche se è solo azionista di minoranza, il quale ha tutto l’interesse a procedere allo smantellamento dell’azienda, dato che è proprietario di fabbriche della concorrenza.
Il sindacato di fatto non fa più nessuna opposizione, apparentemente in nome della speranza di una ripresa produttiva che non arriverà.
Arriva invece – dopo un paio d’anni nei quali la direzione riesce ad imporre il raddoppio dei ritmi di lavoro, – la richiesta di dimezzare il numero degli operai: e nel giro di pochi mesi, passando attraverso l’eterno ricatto del licenziamento, anch’io divento un “cassintegrato a perdere”.
4. La condizione operaia oggi, all’ex-Breda Fucine
> Dei circa 1000 posti di lavoro degli anni 80, nel prossimo settembre su tutta l’area della ex-Breda Fucine ne resteranno non più di 300. Attenzione: il taglio occupazionale è avvenuto in gran parte a spese degli operai. Circa 250 lavoratori sono ormai espulsi dalla fabbrica in cassa integrazione senza alcuna reale garanzia di poter rientrare: tra questi ci sono tutti i compagni e i delegati più attivi: non c’è più posto in fabbrica per chi pone problemi… Altrettanti lavoratori sono fuggiti verso nuovi posti di lavoro, quasi tutti in condizioni peggiori non solo dal punto di vista normativo e salariale, ma anche dal punto di vista della fatica e della nocività.
> Chi è rimasto in Breda, lavora sodo: anche perchè chi non piega la testa, può essere buttato in cassa integrazione alla prossima scadenza…
E così si subiscono i turni di notte per risparmiare il consumo di energia elettrica; si accetta mugugnando di andare in ferie “forzate” quando il lavoro cala e di fare lavoro straordinario ogni volta che te lo chiedono (e magari ti telefonano a casa il venerdì sera per il sabato mattina); si lavora senza fiatare, anche in presenza di grave nocività o rischio (per esempio, per fare più svelto ad attrezzare un impianto, si può anche rinunciare a montare gli aspiratori necessari): la prova è che gli infortuni gravi si stanno moltiplicando, nonostante il numero degli operai si sia dimezzato.
In cambio della rinuncia di ricorrere ai licenziamenti, il sindacato ha accettato di firmare un accordo che ha praticamente sancito l’azzeramento degli accordi aziendali di miglior favore rispetto al contratto nazionale.
E l’operaio che incontri fuori della fabbrica ti dice sconsolato: “il sindacato non ci difende più”…


 

D) DOVE CI STANNO PORTANDO? E CHE FARE?

Le due situazioni “campione” che abbiamo analizzato danno un minimo di quadro descrittivo della condizione operaia oggi.
In poche righe vorremmo tentare di allargare e approfondire lo sguardo, chiedendoci brevemente:
– ma dove ci vorrebbero portare, i detentori del potere economico?
– ci resta qualche possibilità di reagire, a partire dal nostro posto di lavoro?
1. Le linee di tendenza globali che emergono in tutti i paesi a sviluppo capitalistico appaiono ormai chiare anche in Italia; si potrebbero riassumere nelle seguenti tre:
– la giapponesizzazione della produzione (ma a questo punto si potrebbe parlare anche di “messicanizzazione”);
– e perciò l’eliminazione di qualunque reale opposizione;
– e perciò un cambio istituzionale in direzione autoritaria.
Se ci riferiamo in particolare alle vicende italiane, appare chiarissimo che nella società sta avvenendo quello che ormai nelle fabbriche è già avvenuto (o – nei casi migliori – si sta compiendo): affermazione esattamente speculare a quell’altra, che faceva parte della memoria storica della classe operaia: “libertà è là fin dove è arrivata la classe operaia con le sue lotte”.
Infatti, come in fabbrica dirigenti e capi hanno ripreso in mano saldamente il potere, così sta avvenendo nelle istituzioni, dalla più alta carica dello stato in giù. E come in fabbrica è stata sfasciata l’organizzazione dei lavoratori, alla quale rimane solo lo spazio per cogestire le scelte determinate dalla controparte, così nella società è necessario frantumare qualunque opposizione organizzata; e ai partiti cosiddetti di opposizione non rimane altro spazio che quello del dissenso verbale, purchè nei fatti ci sia un consenso sostanziale alle scelte predeterminate nelle reali sedi del potere, quelle economiche.
2. Che fare allora, a partire dalle fabbriche?
Qualunque risposta positiva a questa domanda, in questi tempi, appare una scommessa improbabile.
Dopo aver descritto la sua piccola fonderia, Piero Montecucco ha già detto il “che fare” minimo al quale per ora è costretto a limitarsi.
Dall’interno di una fabbrica storicamente sindacalizzata è meno difficile tentare di avventurarsi un po’ più in là della testimonianza personale. Nella mia particolare esperienza, riassumo così i passaggi fatti:
a. Assieme a qualche altro compagno provi a dire che non si può restare passivi ad assistere a questo sfascio: tanto più cresce l’attacco alle condizioni materiali del proletariato, tanto più è necessario tentare tutto ciò che può significare resistenza; e non importa se le previsioni non permettono di attendersi alcuna vittoria.
b. E poi ci si mette in movimento, a partire dal tentare la protesta in reparto per motivi di salute – per esempio – allo scrivere volantini di denuncia, all’organizzare presidi contro il lavoro straordinario…In particolare, in Breda Fucine abbiamo formato un gruppo di compagni che hanno deciso di non mollare, fin quando ci sarà possibile: da anni ormai abbiamo conquistato in fabbrica il diritto a far sentire la nostra voce in maniera autonoma da qualunque “bandiera”, pubblicando un giornalino di denuncia e di proposta; ovviamente siamo stati buttati tutti in cassa integrazione alla prima ondata di ristrutturazione; ma continuiamo a “mettere il naso” nella fabbrica, nel tentativo di ricostituirvi una presenza organizzata (anche ricorrendo al pretore per imporre all’azienda quella rotazione che la legge prevede, e quindi tentando di rientrare in azienda, almeno provvisoriamente). Intanto ci siamo costituiti in comitato di lotta e puntiamo a coordinarci con altri comitati operai esistenti non solo a Milano e dintorni, ma anche a livello nazionale.
c. Stiamo andando verso forme nuove di autorganizzazione operaia? A noi pare un cammino necessario, anche se molto difficile. Certamente anche in fabbrica si respira quel clima di disaffezione e di distanza verso tutto il modo di far politica istituzionalizzato e burocratizzato del “palazzo” – quello dei sindacati come quello dei partiti. Solo che in fabbrica non ci si può lasciar andare a scelte puramente di protesta, ma c’è la necessità di ricostruire un modo di essere organizzati che, partendo dal basso, permetta realmente ai lavoratori di riprendersi in mano la gestione del loro destino; così che, almeno per i giovani, si riaprano le strade di una militanza nuova e appassionante.


 

E) CONCLUDENDO:
IN QUESTA CONDIZIONE OPERAIA,
VANGELO O EVANGELIZZAZIONE?

“Il problema cruciale nel momento attuale del continente latino-americano è di evangelizzare, cioè dare buone notizie a 240 milioni di uomini e donne che vivono nella povertà estrema; che hanno come prospettiva di futuro il nuovo ordine internazionale, nel quale non contano assolutamente niente, perchè sono un impiccio, un ostacolo per il progresso; a loro giungono solo cattive notizie dal progetto dominante… Per questo le strade della nuova evangelizzazione debbono passare necessariamente per la lotta per la giustizia…”.
Così Carlos Bravo, teologo della liberazione nel Sud del mondo.

La nostra storia di pretioperai, abitanti delle periferie del Nord del mondo, ci porta a riconoscerci in sintonia con queste parole che ci arrivano dall’altra parte del pianeta.
Il nostro convegno è un momento ulteriore di questa grossa ricerca che – sia pure con tutte le differenze che ci distinguono – sta all’origine delle scelte di ciascuno di noi. In questo momento introduttivo ci sentiamo di sottolineare alcuni punti che vorremmo verificare se sono da tutti ritenuti “punti fermi”:
– la nostra specificità – cioè la condivisione della condizione materiale del proletariato – sta apparendo sempre più chiaramente come la condizione di partenza dalla quale è oggi possibile porsi seriamente la domanda sull’evangelizzazione nel Nord del mondo; possiamo osare dire che noi siamo nella condizione più favorevole per rivivere e ripensare le parole del Vangelo, perchè possano continuare ad essere buona notizia…
– a volte – dobbiamo riconoscerlo – la parola evangelizzazione ci suona “strana”: perchè tutti noi siamo partiti dalla scelta di stare “con loro” a ricercare qual’è la buona notizia da vivere; e ormai parecchi di noi sempre più raramente si lasciano interpellare dalla domanda su cos’è che avremmo da dire di buono “a loro”
– una buona notizia ci sembra possa essere annunciata nel Nord del mondo solo da una vita “incarnata” in seri tentativi di lotta per la giustizia, che esprimano almeno frammenti di dissenso radicale rispetto a questo nuovo ordine mondiale impostoci, nel quale – parafrasando Carlos Bravo – noi proletari del Nord non saremo d’impiccio soltanto se non accetteremo di lasciarci giapponesizzare; tentativi di lotta per la giustizia che conservino la traccia di quel filo di speranza di liberazione che è indispensabile non perdere soprattutto in fasi storiche nelle quali “si risvegliano i mostri”.

 

Piero Montecucco e Luigi Consonni


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