“DAI DIAMANTI NON NASCE NIENTE…”
NELLA CONDIZIONE OPERAIA:
VANGELO O EVANGELIZZAZIONE?
Convegno nazionale 1992
Erano presenti al convegno tre amici francesi: Jean Perrot, che è stato per parecchi anni segretario nazionale dei PO; con lui avrebbe dovuto essere anche l’attuale segretario, che però è stato bloccato alla frontiera italiana a causa di un documento d’identità scaduto: ed è dovuto tornare indietro, tenendosi in tasca la comunicazione ufficiale che avrebbe dovuto leggere a nome dell’équipe nazionale dei PO francesi: questi banali disguidi rendono comprensibile la prima frase dell’intervento di Jean Perrot.
Con Jean erano presenti anche due PO “insoumis”, cioè quei PO che hanno scelto di non sottomettersi al diktat della Curia Romana nel lontano 1954, e che quindi sono stati sospesi a divinis: JeanMarie Huret e Aldo Bardini (che in realtà non è mai potuto diventare prete); un terzo “insoumi”, Maurice Combe, ha mandato un intervento scritto, non potendo essere presente per motivi di salute.
JEAN PERROT
Io potrei avere la pretesa di portare il saluto della Francia, ma non ne ho il potere: la mia presenza è più modesta, è quella di un amico fedele. È la gioia di partecipare ai canti di ieri sera e agli interventi di questa mattina. L’amicizia fedele mi permette di dire che rimpiango l’assenza di numerose voci piemontesi a questo convegno, senza l’intenzione di intromettermi nelle questioni interne dei PO italiani; ma noi abbiamo bisogno della voce di tutti, tanto qui in Italia che al di là delle Alpi.
Vangelo ed Evangelizzazione: questo tema è riflettuto in diversi modi dalle numerose équipes dei pretioperai francesi. Io non vi riporto l’eco della riflessione generale, ma solamente qualche aspetto della mia équipe.
Evangelizzazione è dire Dio? In questa società laica e secolarizzata noi pensiamo al fatto che Dio ancora parla a noi. Ma nella nostra équipe si preferisce la dizione “lasciare che Dio si dica” nel mondo e nella nostra vita. Tutto può parlarci di Dio: nelle lotte, nel grido dei poveri, nel modo di operare dentro il sindacato… e anche nei diamanti, che sono un oggetto molto utile per lavorare il vetro, ma sono inutili quando servono per decorare un crocifisso.
La “buona notizia”, il Vangelo, è l’incarnazione di Dio, di Gesù; non la nostra incarnazione, non l’incarnazione dei preti: questa è un’aberrazione, noi non possiamo prendere il posto di Dio! Mettere l’umano nel cuore del mondo, nel cuore della storia del mondo, può permettere di incontrare Dio. Non c’è evasione possibile. “Non cercatemi altrove … Io sono in mezzo a voi”.
L’evangelizzazione è ritrovare, vivere, scrivere, fare l’evangelo nella storia di oggi. La Chiesa non è il Vangelo, non è Dio, non si può mettere al posto di Dio; ma essa può e deve servire il Vangelo oggi, permettere che ogni uomo nella sua vita possa incontrare Dio.
Una sottolineatura voglio aggiungere per contrastare alcune affermazioni. Non tutti i preti sono corrotti o venduti. Alcuni sanno ascoltare e comprendere l’umanità di oggi. I preti per i quali il pane, la pace e la libertà hanno importanza; non il pane della Chiesa, la pace della Chiesa, la libertà della Chiesa; ma il pane, la pace, la libertà di tutte le donne, di tutti gli uomini, di tutti i bambini che vivono su questa terra. In Francia questi preti il popolo li chiama pretioperai, anche se non hanno mai varcato l’ingresso di una fabbrica, di un’officina, di un cantiere.
Pretioperai, noi possiamo servire la rivelazione di questo Vangelo offerto gratuitamente principalmente a coloro che lottano, a coloro che sono sfruttati, a coloro che sono emarginati: perché sono questi i primi nominati nel Vangelo.
Pretioperai, insieme, noi possiamo essere questo segno che va al di là delle nostre persone. Insieme: penso non solo alle diverse regioni dell’Italia, ma anche in Francia, in Messico, in Salvador, in Cile, in Brasile, a Cuba, in Argentina e anche negli Stati Uniti, nel Quebec, nel Giappone, in Corea, in Cecoslovacchia, in Polonia e altrove ancora.
In questa storia dell’evangelo si situa l’esperienza dei primi pretioperai francesi e belgi, dei quali Jean Marie Huret ci porterà la testimonianza. E infine invito anche Aldo Bardini a parlarci della sua esperienza personale: egli fa parte di quegli apostoli che la Chiesa gerarchica non ha voluto “ordinare”, perché talvolta essa vuole seminare il Vangelo in luoghi differenti da quelli nei quali c’è il popolo che lo sta aspettando.
ALDO BARDINI e MAURICE COMBE, PO “insoumis”
Cari amici, noi vogliamo ringraziarvi di averci invitati al vostro convegno nazionale dei PO italiani a Salsomaggiore. Qualcuno di voi aveva, già l’anno scorso, preso un primo contatto con noi a La Pommeraye e abbiamo compreso con piacere che vi piacerebbe che il dialogo iniziato continui; e siamo sicuri che la nostra amicizia e la nostra ricerca comune siano fruttuose per noi tutti.
Molto brevemente vogliamo dire chi siamo, perché tanti fra voi non conoscono bene il nostro cammino. Innanzitutto vorremmo ricordare che dal 1954 non siamo più incaricati di una “missione”. Siamo vissuti attraverso un rifiuto. Alcuni di noi non hanno potuto sopportare questa condanna. Certi ne sono anche morti. Altri – e siamo ancora un piccolo gruppo – grazie a questa condanna, potremmo dire, hanno potuto scoprire valori inaspettati durante questa traversata del deserto.
Sapete anche che siamo degli “insubordinati” ma non degli “infedeli”; diversi da voi, che siete ancora al lavoro, poiché noi siamo vecchi e in pensione; e questo incontro ci permette di svelarvi un po’ di ciò che si nasconde in fondo alle nostre anime. Due dei nostri compagni, invitati precedentemente dalla vostra segreteria, che erano presenti l’anno scorso al convegno dei PO francesi, non potranno purtroppo essere con noi oggi a Salsomaggiore Bob Lathuraz è in cura da due mesi in una clinica di Annecy per un cancro polmonare; Maurice Combe si trova in delicate condizioni di salute.
Noi vogliamo ancora esprimere la nostra gioia di trovarci in Emilia fra voi. In Francia, quando parliamo di questa regione d’Italia, diciamo “Emilia rossa”. È un complimento: l’Emilia è sempre stata una terra di lotte e di speranze. Per degli operai è inutile dire di più: ci siamo già capiti. Ancora una volta vi ringraziamo del vostro invito.
Il nostro compagno Maurice Combe, assente, ci ha incaricati di trasmettervi il suo contributo sul tema “Vangelo o Evangelizzazione?” Ora vi leggo la sua lettera.
Cari amici, voglio con questo intervento comunicarvi alcune riflessioni sull’argomento che è stato scelto per il vostro convegno nazionale. Non lo farò nella forma di una relazione strutturata, ma in modo discontinuo, come una conversazione, esprimendo alcune idee suggeritemi dal tema.
È un dato di fatto che noi non abbiamo mai adoperato, anzi, abbiamo respinto la parola “Evangelizzazione”, come la parola “Missione”. Evangelizzazione significa predicare il Vangelo. Noi non vogliamo essere dei predicatori. Perché? Senz’altro perché chi si presenta come predicatore, si presenta con la certezza di chi sa; ha a cuore di spiegare, di convincere, di indurre gli altri a credere in ciò che lui pensa. Conoscendo la “verità” egli si prende il diritto di affermarla. Che egli lo voglia o no, si ritiene dotato di un potere, con tutti i rischi che questa parola implica: creatore di comunità, organizzatore di riunioni, formatore di militanti…
Inevitabilmente, orienta il giudizio altrui sugli eventi, magari in una direzione basata sul Vangelo, ma che è soprattutto frutto della propria interpretazione. Questo spinge i suoi “fedeli” a rinchiudersi dentro uno stile di vita e quindi a instaurare una “morale “.
Ma ciò che è più grave, è che non mette in discussione l’organizzazione di cui fa parte, cioè la Chiesa; che può essere anche la Chiesa protestante, perché Dio sa quanto predicano i protestanti. Come scriveva Siegfied in Gli Stati Uniti ai nostri giorni: «Ogni americano, che si chiami Wilson o Rockefeller, è essenzialmente un evangelista che non può lasciare la gente in pace, e che si sente costantemente in dovere di predicare».
Certamente l’idea stessa di “missione”, che ha guidato l’Occidente, è spesso stata una forma nascosta di affermare la propria superiorità sugli altri paesi, nonostante la sincerità e la generosità che una simile azione può implicare. E anche Giovanni Paolo II (che parla d’altronde più volentieri di evangelizzazione che di Vangelo) si inserisce in questa tendenza. Egli si riferisce alla tradizione della cristianità occidentale e si appoggia sulla struttura della chiesa, senza chiedersi se il Vangelo stesso la metta in discussione.
Il Vangelo non viene presentato dal Cristo come una dottrina, ma come un seme che, una volta gettato nella terra, deve marcire. Questa terra in cui marcisce è anche terra feconda. Ciò significa che è l’uomo nella sua totalità e nella sua complessità a partecipare alla costruzione del Regno di Dio. Colui che ha ricevuto il messaggio saprà quindi che avrà da dare il proprio contributo, ma che contemporaneamente riceverà anche da parte di tutti gli altri. E forse si tratterà soprattutto di ricevere da parte degli altri: è questo che permette di approfondire sempre più il messaggio.
Si tratta dunque di un sentiero di ricerca collettiva, verso un divenire che noi non possiamo definire. In gioco c’è un‘umiltà che bandisce ogni sufficienza. Piuttosto che darci delle certezze nette, il Vangelo ci disorienta; nella misura in cui, essendo la negazione del “mondo” (Giovanni, cap. 16 e 17), ci immerge in quel Regno che è qui, ma non è di qui. Il Vangelo è un’iniziazione di partenza, uno slancio che proietta l’uomo in un‘avventura che non sa dove porterà. Insomma, un paradosso.
È forse perché eravamo consci di questo mistero che superava la nostra comprensione, che siamo vissuti in questo “silenzio” di cui abbiamo spesso parlato. Ciò che ci sembrava impossibile da “dire” ci è apparso che occorreva soltanto cercare di “viverlo”il più onestamente possibile. E viverlo precisamente in mezzo a questo mondo dei poveri, la cui tragica insoddisfazione era un invito pressante al rispetto e all’amore, più che alle parole. Così, al di là del senso letterale del messaggio evangelico, ritrovavamo l’ambiente proprio del Vangelo, che è pervaso dalla presenza di Gesù e del suo splendore: Gesù che innanzitutto è amore.
Queste cose non le diciamo con l’intenzione di giustificarci. Abbiamo avuto ragione? Non lo sappiamo per niente. Constatiamo semplicemente che siamo vissuti così per più di quarant’anni. Giunti alla fine delle nostre vite, riusciamo però a constatare che questo nostro atteggiamento – fatto dell’assenza di ogni proselitismo, di ogni idea di celebrare riti religiosi dentro la classe operaia, fatto di disinteresse totale per quanto concerne i nostri obiettivi – è stato fecondo. Superando ogni ostacolo, abbiamo potuto raggiungere l’uomo nella sua umanità, che sia credente o ateo. E abbiamo potuto intuire quanto c’è di universale nel messaggio del Cristo tramite il superamento di ogni religione e di ogni cultura. Un messaggio che è soltanto un seme nel Vangelo, ma che può farsi incontro all’uomo nella sua complessità e che può nutrirsi delle sue ricchezze.
Ecco come ci presentiamo davanti ai nostri contemporanei, nell’anno 1992.
Maurice Combe
Nel numero successivo della nostra rivista è riprodotta la testimonianza di Aldo Bardini, da lui riscritta con cura al termine del convegno di Salsomaggiore.
JEAN MARIE HURET, PO “insoumi”
Noi siamo i testimoni tormentati della rottura della trasmissione di due tradizioni – sopratutto tra le giovani generazioni – in un’epoca di mutamento formidabile che sconvolge il mondo e il suo ordine passato.
La prima tradizione che non è stata trasmessa è la tradizione operaia; cioè un’ideologia troppo dogmatica è crollata trascinando con sé i valori del movimento operaio: la solidarietà, la fede nell’uomo. Sarà compito del movimento sindacale far riscoprire le sorgenti dei valori che erano propri della classe operaia e di trasmetterli alle giovani generazioni, in un mondo però molto cambiato, sia tra gli stessi lavoratori, sia nell’ordine sociale.
C’è anche una seconda tradizione con la quale si è creata una rottura: quella cristiana, quella del Vangelo.
Ogni tradizione per poter essere trasmessa deve accettare delle rotture; se queste rotture sono all’interno, sono più facili da vivere; se sono all’esterno, sono più dolorose. Credo che ci siano delle rotture che possono diventare una missione, una forma di presenza.
Che cosa resta, ci chiediamo come gruppo di “insoumis”, del nostro sogno di trasmettere il messaggio cristiano, a nome della chiesa, in questa classe operaia scristianizzata?
Questo messaggio è talmente legato a un’ideologia istituzionale, essa pure dogmatica, che lo si crederebbe diventato il linguaggio di un gruppo particolare. Per cui si pone la domanda: questo messaggio è almeno utilizzabile e comprensibile al di fuori delle riunioni di famiglia?
Dunque, che cosa resta? Ciò che resta, ci sembra, è l’immenso arricchimento che è il risultato dell’incontro storico moderno tra la cultura cristiana e la cultura operaia detta “atea”; le quali così si sono scambiate i loro valori propri, la loro maniera di credere, senza per questo confondersi. Ciò che resta è evidentemente l’Evangelo, ma come noi lo sentiamo da tanto tempo, allo stato di seme, nella sua capacità spirituale di accoglienza e di assorbimento delle sostanze vitali che gli offre il contesto umano attuale, come nuovo humus.
Che ne sarà del seme dell’Evangelo che è stato piantato qua e là da tutti noi e da altri nella sua radicalità originale, come un’esigenza di amore e di giustizia spoglia da interpretazioni elaborate sotto forma di verità assolute, di dottrina o di dogma?
Forse non sappiamo riconoscere il nuovo germoglio già spuntato, talmente siamo inclini a voler riprodurre la copia dei nostri schemi passati. Sappiamo accettare che la germinazione sia inedita perché la “rivelazione” degli altri aggiunge qualcosa alla “Rivelazione” tradizionale che è la sola riconosciuta? Germinazione in forma di chiesa o no? In quale forma?
Sappiamo accettare che gli interrogativi radicali degli uomini, formulati oggi in termini culturali nuovi, aprano un’era spirituale nuova su dei territori “religiosi” definiti in altro modo, tenendo conto maggiormente della complementarietà e dell’evoluzione delle culture?
È un modo di praticare la fede, l’amore e la disponibilità anche quello di non prevedere in anticipo il tracciato e la forma della nostra speranza, impegnati come siamo assieme a tutti i nostri contemporanei nella ricerca e negli stessi rischi della storia umana.
Quando si parla dell’evangelo come di un seme di semplice esigenza di amore e di giustizia è per purificarlo, non certo per ridurlo alla dimensione di una rivendicazione sindacale, peraltro molto importante.
È infine una maniera di credere e di sperare nella promessa che questo seme di giustizia e di amore porta in sé non solo la capacità di germogliare qui e ora, ma anche quella del suo prolungamento possibile di un’altra natura verso il mistero infinito del suo compimento. Il “regno” è già qui in noi e attorno a noi, e tuttavia esso non è di questo mondo.
Io credo che la dottrina troppo rigida impedisca la germinazione del seme del vangelo. È per questo che noi abbiamo posto delle domande.
Abbiamo il coraggio di interpellare la chiesa faccia a faccia sulle sue sintesi teologiche e morali, elaborate in tempi culturali molto diversi, dentro strutture sociali e religiose ormai passate e quindi oggi inaccettabili?
Abbiamo il coraggio di rifiutare le sue illusorie pretese di essere detentrice della verità universale, per cui pretende di sacralizzare le sue affermazioni perentorie?
E infine abbiamo il coraggio di denunciare il suo carattere autoritario e la sua sufficienza dottrinale, che neutralizzano la libertà di ricerca etica o teologica, impedendo qualsiasi reinterpretazione inventiva della tradizione e bloccando l’evangelo nella sua capacità attuale di intervento?
Permettetemi di terminare dicendo che ci sono delle forme di insubordinazione e di protesta che sono forme di fedeltà e di amore.
Gli interventi degli “insoumis” sono stati conclusi dalla comunicazione che non avrebbero partecipato all’Eucarestia, programmata per un’ora dopo.
In serata, Mario Pasquale si è incaricato di rispondere loro con una breve lettera a nome dei PO italiani presenti. Riproduciamo di seguito entrambi i testi.
La comunicazione di Jean Marie e Aldo
Per esigenza ulteriore di verità e di coerenza con noi stessi e con voi, vi vogliamo informare che non parteciperemo alla vostra Eucarestia di questa sera. Sarà l’espressione simbolica della “rottura”, di cui sapete. Questo ci sembra il modo più vero e più sereno di unirci a voi tutti e di essere presenti nella vostra assemblea di preghiera.
La risposta di Mario Pasquale a nome dei PO italiani
Carissimi Jean-Marie e Aldo,
ci sentiamo coinvolti con voi nella storia dei PO dal 1954. Ci sentiamo uniti nella fedeltà alla “missione” ricevuta da tutta la Chiesa di essere parte della classe operaia.
Consideriamo quell’atto di sospensione del lavoro a tempo pieno dei PO un’espressione della Chiesa intesa come autorità di potere e non autorità di servizio secondo lo spirito del Vangelo.
Sentiamo che, come Chiesa, possiamo cominciare a chiedere, a chiedervi perdono, con l’impegno di cambiare vita e di confermare l’urgenza, la necessità e la volontà di vivere in maniera piena la fedeltà alla classe operaia.
Ci sentiamo in comunione con voi: ci rende uniti a voi il sentire ogni uomo nostro fratello, il vedere il Cristo nel nostro compagno di lavoro, il lottare per la giustizia e il celebrare la liturgia del creato che realizza la sua unità in Dio.
Sentiamo di avere i vostri stessi sentimenti e i vostri stessi ideali. Non abbiamo in noi, perché non possiamo, le vostre sofferenze e la vostra croce, ma vi assicuriamo che siamo pronti ad accettarle se questo significa fedeltà alla classe operaia.
È questa testimonianza, che voi ci avete dato, che ci fa dire che voi ci avete trasmesso il Vangelo secondo lo Spirito di Cristo.
È questa testimonianza del Vangelo che ci fa sentire di essere parte fermentante della Chiesa di Cristo in cui voi siete stati il nostro lievito. Credete nella sincerità del nostro chiedervi perdono per i peccati del passato, ma accettateci nella vostra comunione e nel vostro amore e sentitevi coinvolti pienamente nel nostro cammino.
E… “restate con noi perché si fa sera…”