Testimonianze
Articolare la parola nel vuoto, senza ascolto vero, senza nessuno che si accorga di quella parola per quanto vuole esprimere davvero: ricacciata dentro, nel sotterraneo del singolo, impossibilitata a veder la luce…
Una donna sussurra timidamente questa esperienza, che non è solo femminile. Ad una prima lettura sembra esprimere un lusso per raffinati. Invece manifesta l’elementare bisogno della creatura umana di essere ascoltata, nell’attenzione. Forse per poter ancora continuare a credere che un mondo umano non è impossibile.
C’è un modo (una molteplicità di modi, una somma di singolarità) di non aver voce pur essendo persona.
Penso al mondo della donna, ma non vi includerei solo le donne. Per quanto caratteristico, questo modo non riguarda tutte o solo le donne e, comunque, non mi preme definirne il campo di pertinenza, quanto illuminarne le forme in alcuni tratti.
È un esercizio faticoso perché si sostiene su una duplice ambigua distanza: in una direzione questa distanza è il silenzio lacerato che ristagna tra la parola mezzo di scambio nella comunicazione e la parola che nasce come a segnare il sentire che rinnovandosi si esprime; in un’altra direzione, che si intreccia con la prima, è la vertigine (l’assenza di confini e di un terreno) della parola che nasce libera nel nostro cuore, esce da noi per abbandonarsi nell’abbraccio che solo le può dare voce ed ammutolisce presentendosi priva di risonanza, senza ritorno, persa…
È la seconda contraddizione ad intaccare con maggiore efficacia il nucleo della speranza, il senso del dire. Perché questo è propriamente in gioco: la parola che è senso, ha corpo; e mi raggiunge da profana l’immagine, che non intende in altro modo dirsi, del Verbo che si fa carne.
Senza alcuna pretesa (e come toglie forza il puntuale precisare, il sempre di nuovo chiedere scusa) le parole stesse, a lasciar loro voce in noi e fuori di noi, sono intrise di senso, sono carne, ci restituiscono a noi stessi e all’altro essendo, in una misura che continuamente e di nuovo è regola a se stessa, il nostro esistere a noi e all’altro e l’esistere dell’altro a sé e a noi. E davvero queste parole sembrano rinnovare il dono della vita: davvero nascono ogni volta, provenendo da ciò che prima non era, necessitano delle cure, dell’attenzione amorevole del mondo che esse stesse fanno nuovo e aspirano alla limpidezza della risposta (ri)conoscente che innesta sull’albero del gioco delle parole, la gioia della parola.
E senza gioia, invece, nelle forme di un immiserito gioco prevedibile, si conduce la gran parte di parole che, anziché essere la nostra fedeltà a noi e all’altro – e perché non anche la nostra fede? – sono il guscio vuoto di una vita mancata, di una promessa non riuscita.
Sono, le parole di cui mi trovo a dire, sotterranee perché fatte di nascondimento, umili, e però non confondono il pudore, in cui si danno, con la vergogna nella quale si prostituiscono prive della solidale alterità. Infatti vogliono venire alla luce, a chiarezza, a giorno, ma senza bruciarsi e perdere forza. E conoscono anche il rischio di diventare per ciò vecchie in noi prima di nascere.
In tempi in cui il Natale non è tanto lontano sono stata spinta a vedere l’intimità con cui ad esso si trovano unite.