Preti in condizione operaia
L’anima in una foresta di dettagli
Chi lotta e soffre su una zolla di terra, lotta e soffre per tutta la terra.
Questa espressione del nostro compagno Sirio Politi può essere assunta come esauriente descrizione della “parabola” storica di ogni preteoperaio.
Ciò che ci ha accomunato e ci accomuna tuttora nella pluralità delle storie personali, sono due svolte risultate determinanti nella nostra vita: l’essere diventati preti e l’ingresso nella condizione operaia.
I chiaroscuri, le esitazioni, che nel tempo possono essere intervenute sui due fronti e soprattutto le reciproche interferenze, non intaccano la sostanza del fatto, cioè dell’essere e riconoscerci come pretioperai. Anzi, proprio dall’originalità della nostra esperienza unica, dalla tensione critica determinata dalle due polarità vissute, dal filtro operato dall’abbondante sofferenza che ha accompagnato la nostra esistenza in questa duplice e totalizzante esposizione, è nato un frutto buono per noi e da offrire umilmente anche agli altri.
La scelta del lavoro dipendente e/o manuale ha reso possibile al PO una nuova sintesi esistenziale ed ha significato la dislocazione, lo spostamento, ed un nuovo radicamento, in una quotidianità paritaria con i compagni di lavoro.
«Lasciai la mia casa e la mia terra (Gen. 12,1): lasciai un ruolo, una professione che mi poteva dare prestigio, onore, benessere, per andare a condividere la vita operaia, una condizione che mi assicurava solo fatica, insicurezze, anonimato, se non riprovazione e disprezzo.
E questo ho fatto perché tale mi appariva la volontà di Dio; anzi oggi, a distanza di 23 anni, sono portato ad attribuire a Dio stesso la forza che ho avuto per prendere quella decisione, superando tutte le difficoltà che ho avuto in famiglia, nella Chiesa, tra gli amici».
«All’inizio ricordo che alla domanda di qualcuno riguardante il cosa faccio come prete, rispondevo che il prete non è tale perché fa certe cose… tuttavia è apparso ben presto chiaro a tutti, anche a me, che il non fare più scuola di religione, l’oratorio, la cura pastorale, le funzioni sacre ecc., e il non riceverne più la corresponsione, voleva dire che io rifiutavo la ‘professione del prete’. Non solo, ma poiché andavo a fare un lavoro che non si configurava come ministero e che, pur riconosciuto dalla Chiesa del Vaticano II, dalla stessa non era mai stato preso in seria considerazione, di fatto la mia scelta era diventata anche un venir meno al servizio all’istituzione Chiesa».
«Seguendo l’idea evangelica di dovermi fare piccolo e senza potere, ritornai a fare il vicario cooperatore di un parroco che non dico. Scontri violenti, fuga, malattia vera e propria. La mia visione negativa circa la parrocchia si accentuò. La Chiesa è troppo gerarchica e il popolo non cresce. La realtà di ‘popolo di Dio’ non entra nella gente perché non è entrata nei preti e nei vescovi. Rifiutai così parrocchia e insegnamento della religione. E così il dado era tratto. Ma come sbarcare il lunario?
Non mi restava che cercare un lavoro. Scartai l’idea dell’impiegato o del burocrate; volevo un lavoro manuale come i poveri. Vi sono sempre rimasto fedele: falegname, fabbrica di mole, fabbrica tessile, fabbrica metalmeccanica attuale.
L’idea mi aveva spaventato; l’impatto fu tremendo, ma ormai le navi erano bruciate e ce la dovevo fare».
Una scelta dettata dal bisogno di essere segno di “fedeltà a Dio e all’uomo” (Fil,2,1-11).
Il prete e il credente non è al di fuori o al di sopra della mischia, ma dentro, e cerca di trovare nella storia l’incarnazione continua della Parola di Dio.
Questa esigenza spirituale ha portato a scavare nelle motivazioni che stanno alla base di una scelta (perché sono diventato PO?) non meno delle considerazioni sull’efficacia di questa scelta.
Il PO ha lasciato che le domande e gli interrogativi incontrati nell’ambiente concreto del lavoro invadessero l’insieme di convinzioni, costume di vita, riferimenti culturali e spirituali, ruoli…, che avevano determinato e caratterizzato il suo precedente ruolo.
La condivisione della quotidianità della vita ha reso possibile un ripensamento e una nuova modalità di impostazione della vita stessa, nel suo complesso di valori, di relazioni, di funzioni, di affetti.
«Lo sforzo maggiore che mi ha impegnato è stato il diventare sempre più uomo tra gli uomini. Suona banale questa affermazione, ma nella sua semplicità, per me, resta l’intuizione di fondo. Anche a livello di fede, credo.
Nel capire cosa comporta essere uomo e nel viverlo, penso consista il nucleo essenziale della salvezza di Dio che Cristo ci offre».
«Oltre al pane che mangio ogni giorno e che guadagno con le mie mani; e al pane dell’Eucaristia che dà senso al mio banale quotidiano, mi nutro di utopia. Uno degli assunti teologici del mio vivere presente è che la Parola divina non può essere ascoltata dagli uomini se non diventa parola dell’uomo”. Il senso del mio vivere in comunità, socializzare, farmi carico di… è quello di proporre offerte vitali, un luogo intenso di rapporti oblativi, per permettere alle persone di diventare se stesse».
«Se il passo di Filippesi 2,1-11 può senz’altro sintetizzare bene le motivazioni che mi hanno portato a dislocarmi in condizione operaia, ora, il mio deciso permanervi è sostenuto da una convinzione radicata fortemente nella cosiddetta ‘prassi messianica’ di Gesù, cioè nella scelta di porsi nella linea profetica e non in quella sacerdotale.
A raggiungere questo affrancamento dal sacro ha certamente contribuito la mia decisione di restare in paese ‘come prete senza fare il prete’. Una decisione faticosa e sofferta, ma che nel corso degli anni mi ha consolidato nella convinzione di quanto sia pericoloso per un prete avere sempre e comunque l’alibi del sacro per manifestare la propria fede.
Attualmente non sono più ‘geloso’ del mio sacerdozio; e questo non per una caduta di tensione ideale, ma per la sorprendente gioia di sentirmi libero, affrancato, dal debito del sacro».
La spiritualità che compenetra la vita dell’uomo – credente – preteoperaio è sostenuta dalla capacità di fare scaturire dalle vicende umane, cioè dalla storia, ciò che di ‘mistico’ vi è mescolato dentro. Una spiritualità che sa coniugare l’impegno di lavoro con momenti di ascolto, di silenzio, di contemplazione dello Spirito presente nelle inquietudini e ricerche quotidiane che attraversano la vita, sia del PO che dei suoi compagni di lavoro.
Ne è derivato un modo di vivere la fede e a preghiera che non è fuga dal mondo, che non è ricerca di un Dio estraneo all’uomo e alla storia, che non è contrapposizione di Dio alla città degli uomini, poiché non esiste una storia sacra, ma vi è una sola storia dell’umanità, in cui Dio opera con gli uomini, affidando loro il compito di esserne protagonisti.
«La mia esperienza parte dall’ospedale psichiatrico. È stato il mio cosmo, nel quale ho visto il massimo della sventura (sofferenza fisica e morale, emarginazione sociale: tutte compresenti), la mia lente con la quale ho imparato a vedere quello che succede nel mondo in contesti diversi: assenza di giustizia, vuoto…, vite assolutamente incompiute e stroncate.
Chi colma quello che manca? Nel mondo intero, cioè nei piccoli mondi concreti continua ad esserci questo vuoto di giustizia. I rapporti umani, sociali, economici e di potere producono questo vuoto di giustizia. Emerge una domanda: Dio, dove sei? L’immagine del Dio onnipotente fallisce pienamente se lo si confronta con la sventura umana».
«La liberazione più intima che ho gustato è stata quella di non avere più bisogno di alcun artifizio spirituale farisaico per sentirmi con una fede nuda e povera di tutto.
Talvolta ho la sensazione di aver molto più chiaramente qualcosa di evangelico da dire a chi è credente, che qualcosa di credente da dire a chi è evangelico».
E qual è il Dio in cui credono i PO? Non è certamente un Dio padre / padrone che incombe e fa paura, per accedere al quale bisogna sempre fare anticamera aspettando che qualche ‘funzionario’ ti introduca alla sua presenza suggerendoti meticolosamente l’atteggiamento da tenere e le parole da dire.
«È il Dio dell’alleanza quello con cui parlo. Un Dio che con la sua presenza rende possibile l’utopia, che si realizza nella misura in cui noi uomini viviamo la logica dell’alleanza.
Fare teologia diventa allora credere in un Dio che ‘passa’ ed entra nella storia attraverso la mia libertà, una libertà chiamata a farsi buona, a diventare responsabile nei confronti di Dio con il quale sono chiamato a costruire un mondo felice e ordinato sempre come dono per l’uomo.
Se il disegno di Dio che è la felicità dell’uomo entra nella storia solo attraverso la responsabilità di ciascuno di noi, Dio allora non abita la ‘casa del futuro’, cioè dell’aldilà, ma la casa della mia esistenza, per quanto povera o dislocata essa sia.
Il mio ‘quotidiano’ è l’unica porta alla quale Dio bussa per chiamarmi e affidarmi la felicità del fratello».
«È nata in me una spiritualità che si fonda sulla fede nel Dio di Gesù Cristo, che mi si presenta come
• un Dio assente, misterioso, nascosto: accettare che Dio è assente è non cadere mai nella tentazione di strumentalizzarlo e soprattutto non fare mai di Lui un alibi per le nostre responsabilità;
• un Dio impotente, debole, che ha lasciato all’uomo lo spazio necessario affinché fosse interamente uomo, padrone e signore di se stesso, della creazione, della storia;
• un Dio servo: la nostra mentalità è portata a fare di Dio un faraone, un re, al modo umano; ma Dio si manifesta invece nelle caratteristiche di vita proprie dei servi: la povertà, la debolezza, la disponibilità».
Ultimamente un nostro giovane compagno PO ci diceva: «Il mio modo di stare davanti a Dio è continuamente attraversato da due immagini di Dio: una immagine ‘militante di Dio’, cioè di un Dio liberatore che fa giustizia all’oppresso; e una immagine ‘ironica di Dio’ (non funzionale, inutile, gratuita…), cioè di un Dio debole, che fa misericordia. Stare al cospetto di questo Dio significa per me “abitare la contraddizione”».
Concludo riportando un pensiero di Sirio:
«Chi ha sentito posarsi gli occhi di Dio sull’anima e ha provato il bruciore del suo segno sulla fronte a segnare di destino assoluto la sua vita, non può vivere alla giornata contentandosi di fare del bene, tranquillo di ogni apostolato, soddisfatto di ogni maniera di vita. Grazie a Dio gli grida dentro un richiamo spietato e una violenza lo porta via e sa di non essere che un pezzo di legno nella corrente del fiume, una foglia volata via dal vento» (Uno di loro, Gribaudi).