Interventi
Non possiamo liberarci della parrocchia da un giorno all’altro, ma della parrocchia dobbiamo liberarci. Possiamo tenercela così com’è solo se pensiamo che dalla sua costituzione ad oggi, nulla è mutato intorno a noi, viviamo ancora in regime di cristianità costituita, in una civiltà e cultura agricola e artigianale fissa nella sua piramidalità gotica.
Ma appena pensiamo a tutto quello che è avvenuto sul versante della rivoluzione industriale, della fine del latifondo e delle masse contadine, dell’emergenza del movimento operaio, della secolarizzazione e scristianizzazione della politica, delle masse e del costume, appena pensiamo alla nascita delle grandi città che evolvono in metropoli, ci meravigliamo che l’organizzazione ecclesiastica resti sostanzialmente quella medioevale.
La parrocchia è l’avamposto di tale anacronismo ed oggi mostra tutta la sua incapacità ad essere strumento di una nuova evangelizzazione e, comunque, di dare una risposta ai nuovi bisogni dell’uomo. Non voglio passare per un iconoclasta della parrocchia, ma voglio anche evitare di farmi seppellire dalla sua storia e da un suo romantico ricordo.
Preciso: mi fa paura una certa scriteriata fuga dalla parrocchia che, almeno qui a Roma, spesso si consuma in una pratica comunitarista regressiva ed autocompiaciuta (vedi l’esperienza delle comunità neocatecumenali). Ma questa valutazione non può e non deve castrare la nostra creatività.
Con razionalità e senso della storia noi dobbiamo andare oltre la parrocchia utilizzandone l’esperienza. Per rendere agevole tale superamento occorre far leva su alcuni punti.
1. Il lavoro del sacerdote
L’intuizione e l’esperienza dei pretioperai, soprattutto in un momento di grave crisi di smarrimento come l’attuale, mostra quanto il lavoro condiviso con tutti gli uomini ritorni in termini di credibilità, di immagine, di testimonianza, di autentica della propria presenza, di un rinvigorito senso di responsabilità dei fedeli.
Non parlo del lavoro su mandato. Questo è un concetto e una prassi del passato che non fa altro che perpetuare l’ambiguità della sicurezza – privilegio, trasforma i vescovi in datori di lavoro, immobilizza il quadro pastoral – ideologico, consolida e rinnova la pratica elargitoria.
Il lavoro deve essere una scelta di vita, un desiderio di farsi carico del quotidiano, un atto che alimenta la libertà personale, un connotato importante del proprio equilibrio socio – psichico.
San Paolo non impagliava sedie su mandato, ma per sua scelta e ne usciva rafforzata la sua libertà e la sua autorevolezza. Tenuto conto delle circostanze storiche che stiamo vivendo occorre ripensare l’esperienza paolina.
Con questa visione del lavoro potremmo inserire un primo elemento di revisione del prete nella parrocchia, e accelerare il suo stesso superamento.
2. Declericalizzare la parrocchia
L’esperienza dei consigli pastorali è fallita perché soffocata da un clericalismo che strumentalizza tutto e tutti deresponsabilizza.
Bisogna ritracciare la presenza e il ruolo del prete nella parrocchia, altrimenti questa continuerà ad essere un suo “beneficio”. Occorre riprendere la riflessione interrotta della “teologia del laicato” degli anni ‘40 e ‘50, ridarle fiato e sbocco a livello organizzativo.
Quando l’organizzazione è sbilanciata sul sacerdote, tutto il corpo ne viene deformato e soffre, il dibattito e la ricerca languono, il nuovo è una traccia sconosciuta e il parroco diventa il custode dello “status quo”.
Il buco nero dell’attuale parrocchia sta proprio qui: l’assenza del dibattito, il monocolore. Tutto viene dall’alto, dalla fede alla morale, dalla liturgia alla solidarietà, dalla catechesi alla valutazione degli eventi, tutto ha il timbro sacerdotale e il laicato è costretto al ruolo subalterno della truppa.
Può il preteoperaio che agisce in parrocchia sperimentare una forma più laica della sua presenza?
3. L’attuale revival parrocchiale è il segno della crisi
Noi pretioperai, secondo uno schematismo che ci affligge, passiamo per gente orizzontalista. Ebbene, se questo fosse vero, noi dovremmo essere i primi a gioire del revival parrocchiale odierno perché esso si sta giocando tutto sul sociale.
Ormai la parrocchia si occupa di tutto: di drogati, di barboni, di anziani, di handicappati, di sport, di musica, etc. etc. Mi sembra che siamo ritornati all’attivismo degli anni ‘50, al tempo delle contrapposizioni, dei biliardini, della POA e dell’ONARMO, dei cinema e del ricreatorio. Le case del popolo si sono dissolte nelle discoteche e la parrocchia risuscita l’oratorio.
Non mi piace. Pensavo che si fosse letto e meditato don Milani, invece no: il cespuglio dell’attivismo si è come rinvigorito e aggiornato, lo spirito è rimasto tale e quale. Mi domando cosa abbia a che fare tutto questo con la testimonianza messianica che dobbiamo rendere della Risurrezione di Gesù.
L’impegno non può essere accettato quando copre l’amministrazione pubblica nella sua assenza e nella sua corruzione, quando copre la crisi in cui si ritrova la chiesa. L’impegno per gli altri, per i poveri ha un suo valore quando non taglia le ali alla profezia e al messianismo, quando dà respiro alla denuncia dell’oppressione ovunque si annidi, quando è capace di progetto.
Ma qui, su questo crinale, tutto tace e l’impegno diventa assistenzialismo puro e semplice. Il revival dell’attivismo parrocchiale è umiliante e nausea gli stessi beneficiati, trasforma la chiesa in un dipartimento del Ministero per gli affari sociali dello Stato italiano.
4. L’incontro con i poveri va collocato in una prospettiva di reale e concreta conversione
Parlo non solo delle singole persone, ma anche della comunità e delle sue strutture nel suo insieme. L’incontro è autentico quando la comunicazione è reciproca e tale da cambiare la condizione dei partners.
Ma davanti a questo discorso la parrocchia si irrigidisce; la comunicazione per lei ha solo senso unico. Non sembra che i poveri ci indirizzino un messaggio di conversione, siano portatori dell’aut-aut del Messia. Noi, proprio in virtù della nostra scelta, sappiamo che la carità, quando è vera, non è la fatica di Sisifo: Lazzaro non chiede di essere oggetto della pietà, ma di essere soggetto di utopia che anima tutte le espressioni della nostra esistenza e dà loro capacità innovativa.
Ma ci domandiamo perché è fallita la riforma liturgica? Perché il mancato rinnovamento della preghiera e la progressiva assuefazione alla pratica sacramentaria di massa? Perché si parla di seconda evangelizzazione e allo stesso tempo si offre un poderoso strumento di catechesi universale?
Io credo che dell’esperienza dei pretioperai non si tenga nessun conto; e tale atteggiamento si trasmette dall’alto al basso. Certo, se ci lasciamo prendere dalla legge dei grandi numeri, possiamo ritenere i pretioperai morti e sepolti, ma attenzione! La legge dei grandi numeri riguarda i salumieri, non colui che – solo – sale sulla croce.
Si impone una ricerca del dialogo e di spostare la considerazione dalle quantità alle qualità: noi possiamo anche morire, ma gli interrogativi che furono e sono suscitati restano tutti ed attendono la risposta.
Mi riferisco alla mediazione che noi possiamo offrire per una pastorale adeguata alle istanze del Vangelo e dell’uomo. Si tratta di una mediazione che, se non recuperata, vanificherà ogni tentativo di approccio alla realtà.
La prospettiva del superamento della parrocchia nella comunità mi sembra essere il prospetto intorno al quale dobbiamo lavorare fin da ora. Certo, se i vari sinodi diocesani e i Codici si attestano su una difesa ad oltranza della parrocchia, tutto resta più difficile e complicato. Però la crisi della parrocchia è sotto gli occhi di tutti e non si ferma perché la si difende. Può essere solo rinviata di qualche anno.