“PARADOSSO CRISTIANO NEL CREPUSCOLO DEL XX SECOLO”
convegno promosso dalle riviste Esodo, Il Foglio, Il Gallo, Pretioperai
Salsomaggiore 23-25 aprile 1994
Il mio intervento è di carattere teorico: intende mostrare quale sia la relazione tra la testimonianza e l’etica, qualificate ognuna da una caratteristica saliente: gratuità come espressione della testimonianza ed obbligo come espressione dell’agire etico.
Cercherò di mostrare come non si tratti di una alternativa, per cui si debba scegliere o l’una o l’altra possibilità; e nemmeno di una semplice giustapposizione. Obbligazione e gratuità sono due facce inseparabili dell’unico atto etico. È la tesi che mi accingo a sviluppare.
Il mio intervento è diviso in tre parti.
Nella prima faccio una presentazione sommaria di alcune concezioni dell’etica che, pur contenendo sostanziosi elementi di verità, mi pare risultino insufficienti.
Nel secondo punto espongo che cos’è per me l’etica nella sua sostanza, nella sua intenzionalità costitutiva; ed è qui che uscirà la co-appartenenza di obbligazione e di gratuità.
Nella terza parte cerco di dire qualcosa sullo specifico della testimonianza.
1.
Vi sono concezioni dell’etica che circolano anche in ambienti cristiani, ma che a me non sembrano render conto di che cosa è l’atto, l’evento etico.
a) Anzitutto quella concezione che vede, solo o prevalentemente, nell’etica la negazione, e cioè una serie di divieti. Le formulazioni dei comandamenti sono ampiamente in forma di divieto: “non fare”. Sappiamo che formulazioni etiche in tutte le culture hanno spesso forme di tabù, di interdizione, in quanto sono negazione di possibili trasgressioni. C’è un ordine da salvaguardare: questo ordine viene invece violato o può esserlo. L’etica allora diventa l’argine o il contrappeso o il contrasto fatto a questa possibile negazione per salvaguardare un ordine esistente ma minacciato. Vorrei dire subito che bisogna recuperare dentro l’etica, accanto al divieto, la positività: accanto al non uccidere, non rubare, “va’ e fa’ lo stesso”, della parabola del Samaritano.
La negazione di questo fare non è propriamente una colpa positiva e quindi la negazione di un ordine, ma la neutralità, l’indifferenza.
Vorrei dunque sottolineare come appartenente all’etica, al discorso ed alla sollecitudine etica, quella forma di peccato che comunemente va sotto il nome di peccato di omissione, che consiste nel non fare e non propriamente nel trasgredire.
Questa prospettiva ci avvia verso quello che poi sarà lo sviluppo propriamente costruttivo. Nell’etica non si tratta soltanto di salvaguardare un ordine esistente, perché non venga violato, ma di realizzare un ordine: di costruire un ordine non ancora esistente.
Credo che il sentimento e la concezione dell’etica come argine o come contrasto ad una possibile negazione abbia la sua buona ragione, che Freud (tra altri) ha visto molto bene. Abbiamo dentro di noi delle pulsioni che sono di per sé pulsioni vitali, ma che hanno anche una capacità – se vanno oltre certi limiti o se vengono abbandonate al proprio dinamismo, alla propria logica – di diventare mortali per noi stessi e per altri.
L’etica quindi è il momento o l’ambito in cui si crea e si disegna lo steccato, in modo che la pulsione, da possibile inondazione che tutto travolge, diventi possibilità di irrigazione e quindi di vita. In fondo Freud non ha fatto altro che prendere il sentimento fondamentale che sottende tutte le culture passate, in modo particolare religiose, e cioè l’opposizione tra caos e cosmos. Il caos è la vitalità debordante, traboccante e quindi capace di portare morte. Bisogna ordinarla, disciplinarla, come fa Dio nella creazione quando separa le acque che stanno sopra da quelle che stanno sotto.
Nella concezione dell’etica come divieto, che ha certamente un suo valore che non può essere disatteso, domina questa percezione del rapporto tra impulso e disciplina, tra caos e cosmos.
Accenno solo alla concezione secondo cui l’etica sarebbe addirittura il divieto che si rende necessario in forza della condizione di peccato in cui viviamo. Lascio questo aspetto che è forse di derivazione protestante, ma ricordo di averlo udito da Ricoeur in un seminario di studio. Questo è un modello che ha qualcosa da insegnarci, ma si lascia sfuggire, più che i contenuti dell’etica, l’elemento che la costituisce come etica.
b) La seconda posizione è quella che abbiamo studiato nella scolastica, in modo particolare in S. Tommaso. L’etica è la forma propriamente umana del finalismo. Ogni cosa è fatta da Dio secondo la sua natura: la natura è l’identità della cosa nella sua dimensione dinamica. La cosa diventa se stessa in base ad un impulso guidato dal Dio creatore: ogni cosa raggiunge il proprio fine e quindi si realizza in forza di questo impulso guidato, di questo finalismo, di questa teleologia.
Però tra gli enti ce n’è uno che possiede quella strana configurazione che chiamiamo “libertà” nel senso di capacità di scegliere tra l’assecondare quel finalismo, quell’impulso che lo porta alla sua realizzazione, oppure contrastarlo, negarlo ed andare da un’altra parte. La figura è quella del bivio, delle due strade.
L’etica diventa quindi la formulazione imperativa del finalismo, fatta appositamente per l’uomo in quanto dotato di libertà cioè di possibilità di deviare. È la formulazione imperativa, a modo di comandamento, del finalismo naturale. Agli altri esseri basta questo finalismo; l’uomo, dotato di libertà, ha bisogno assieme al finalismo naturale di avere anche questo dinamismo posto in forma imperativa: fa’ così…, è giusto che tu agisca in questo modo, è la tua realizzazione…, è la tua felicità…, è il tuo autocompimento. Però non va da sé; è scritto dentro di te, ma nella modalità di un’esecuzione spontanea come per gli altri esseri. È scritto dentro di te ma in forma di ingiunzione e di comando o, se volete, in forma di coscienza etica. Questa posizione è molto bella, anche se devo dire che non mi soddisfa appieno.
Per ora faccio osservare che una delle difficoltà che trova questa formulazione (anche nella sua riproposizione, rappresentata dall’ultima enciclica del Papa “Veritatis spendor”), sta nel fatto che la libertà, la capacità di scelta, non può esser ricondotta dentro il finalismo naturale, sia pure a modo di indicazione normativa. La libertà eccede sulla natura. La libertà, la capacità di scegliere tra le due alternative fondamentali che costituiscono il mondo etico, cioè il bene ed il male, il giusto e l’ingiusto, eccede ogni movimento e finalismo naturale.
c) La terza figura, anche questa molto bella e in parte somigliante alla precedente, è proiettata in una visione più storicizzata e soprattutto utopica. È la concezione marxiana in cui l’uomo è l’imperativo categorico per l’uomo. C’è bisogno però di questo imperativo fin che noi siamo dentro la preistoria. Quando saremo arrivati alla vera storia umana – l’utopia del “regnum hominis”, l’utopia “comunista” – allora non ci sarà più bisogno dell’etica, dell’imperativo, poiché sarà liberata interamente dentro di ognuno la sua componente costitutiva di solidarietà verso l’altro, di reciprocità, di socialità. Adesso non lo siamo ancora.
In questa posizione l’etica è momentanea e provvisoria e quindi è l’anticipazione a modo di imperativo, di comando sia pure interiore, di quella natura spontaneamente sociale che l’uomo avrà quando sarà liberato dai condizionamenti biologici della miseria e dai condizionamenti della struttura economico-capitalistica.
Negli ultimi due modelli non viene percepita la dimensione di eccedenza e di trascendenza della libertà sulla natura umana, su tutto ciò che nell’uomo è natura: vale a dire l’insieme già dato di finalismo, che ha la sua logica e tende verso la realizzazione dell’uomo stesso.
2.
Nel secondo punto faccio la mia proposta in forma di interpretazione del testo ebraico-cristiano assunto non come testo di fede, bensì come “un certo discorso sull’etica”. Mi riferisco soprattutto al testo ebraico e ne darò due indicazioni essenzialissime e sommarie. Ripeto che prendo il testo come una certa interpretazione dell’esperienza etica. Le due formulazioni in cui racchiuderei l’etica biblica non sono la stessa cosa, bisognerebbe scavare, connetterle tra loro se ci fosse tempo; comunque si vedrà la loro somiglianza e la loro diversità.
La prima formulazione: “ama lo straniero come io ho amato te straniero in Egitto”. Cosa vuol dire? Il comandamento etico “ama” viene qui dato come forma imperativa di un qualche cosa che Dio ha fatto e in cui ha rivelato se stesso: l’etica è l’indicativo di Dio che diventa l’imperativo dell’uomo. L’indicativo di Dio è: Dio ha fatto così e così, in questa maniera; l’imperativo è: poiché Lui ha fatto così, anche tu devi fare come Lui.
Ritradurrei questa formula in quest’altro modo. Se potessimo parlare di “natura divina” diremmo che l’etica è sì il corrispondente imperativo di una natura, ma non della natura umana pensata finalisticamente (secondo la linea di S. Tommaso e di Marx), bensì di quella “natura buona” che è Dio. Perché nell’amare lo straniero, nell’amare gli Ebrei stranieri in Egitto, Dio non ha compiuto un gesto fugace, ma ha compiuto il gesto con cui ha cominciato a dire se stesso, la propria “natura” dentro la storia dell’uomo.
“Ama lo straniero come io ho amato te” significa questo: ciò che io sono per naturale disposizione, e da cui è scaturito l’aver amato te quando non eri nessuno, quando eri non-popolo, tu “devi” esserlo. Il rapporto tra finalismo naturale (tra virgolette) ed imperativo dato ad una libertà lo conserverei, ma trasportandolo in Dio. Ciò che Dio è in base alla sua spontaneità, il popolo di Dio – e, nella lettura che sto compiendo, tutta l’umanità in quanto popolo di Dio – è chiamato ad esserlo in base all’imperativo: il «fa’».
Pongo una seconda formula che non è esattamente come la prima (ama come io ho amato), ma proclama: ama ciò che io ho amato. Ama il povero che io ho amato e che io amo. L’amore di Dio si china sull’uomo in quanto bisognoso, in quanto anelante alla vita ma incapace di darsi da solo la vita. Nella bibbia è centrale soprattutto il movimento degli occhi in Dio (sarebbero da studiare gli antropomorfismi biblici come la parte fondamentale del linguaggio con cui la bibbia parla di Dio): chinando il suo sguardo sul povero, Dio trasforma il dato nudo dell’esistenza e della presenza del povero in imperativo per me ad essere per lui.
Pur essendo diversa dalla prima figura, questa riproduce la stessa logica.
L’etica secondo la lettura del testo biblico è l’agire in modo da riprodurre nella storia l’autorivelazione di Dio. Autorivelazione che è ciò che Dio ha voluto dire di sé: io sono questo nella storia.
Potremo esprimerci anche in un altro modo: l’etica è la gratuità divina partecipata nella forma di obbedienza al suo imperativo, comandamento, appello. L’etica è la partecipazione umana alla gratuità di Dio non a modo di influsso vitalistico, come se Dio entrasse nella nostra natura (cosa impensabile ed impossibile) ma a modo dell’esteriorità del comandamento. L’interiorità di Dio, rivelatasi, diventa esteriorità per l’uomo: quella esteriorità che la teologia protestante ha chiamato “coram Deo”, davanti a Dio. Questa non è l’esteriorità delle cose.
Se uno conosce un po’ di filosofia o ragiona con la sua testa, sa che le cose non ci sono veramente esterne perché o sono state prodotte da noi o acquistano quella fisionomia di enti in quanto il linguaggio li struttura. Sussistono davanti a noi in quanto sono legati al cordone ombelicale conoscitivo e di prassi del soggetto. Veramente esterno a noi sarebbe un mondo ai di là di tutti gli oggetti, come esistenza nuda. Ma non è nemmeno questa l’esteriorità del Dio rivelato. Essa è invece quell’esteriorità che è l’obbligazione, l’imperativo etico, l’appello etico incondizionato come esperienza originaria, non basata su qualcosa di precedente, ma auto-fondata.
Vedo qui la connessione così stretta da essere identità reale (malgrado i due aspetti che noi necessariamente distinguiamo come momenti interpretativi) tra gratuità ed obbligazione.
Gratuità, perché io partecipo della gratuità di Dio e quella diventa gratuità mia, Infatti nella scelta operata dalla libertà etica c’è qualcosa di così mio, che nessun’altra cosa è così mia come questa. Tutte le nostre qualità sono “nostre” in un senso debole, perché ne siamo dotati, ma non provengono da noi. Invece un atto di solidarietà, l’atto del pane condiviso, è mio perché è scaturito da me potendo non scaturire, ed è scaturito da me non avendo alle spalle nulla in me già prefigurato che mi portasse ad agire in quel modo (altrimenti non sarebbe più atto libero). È scaturito da me in modo che è veramente mio; è quanto c’è di più mio, quel mio che non posso scrollarmi da dosso e di cui sono responsabile non solo nel senso negativo (visto che “essere responsabili” di un atto si usa prevalentemente per indicare una colpa) ma anche nel senso positivo di assumersi la responsabilità e portarla fino in fondo.
Questo “così mio” è quanto c’è di più immanente dentro di me; e questa è la gratuità, la dimensione di gratuità dell’etica. Ma nello stesso tempo, è anche la mia risposta a quel determinato appello, imperativo, a quell’obbligazione che non scaturisce da tutto il mio bagaglio di costituzione naturale, ma che è la prima originaria esperienza della trascendenza.
Obbligatorietà e gratuità sono dimensioni tutte e due presenti nell’atto etico. Il “sì” che io dico all’altro nel bisogno (o nella forma più positiva di rendermi attento al suo bisogno, o almeno nella forma di negazione della negazione come il “non uccidere”) questo “sì” è così mio che non c’è altra parola per dirlo se non il termine di gratuità. Ma dall’altra parte, a questo “sì” sono obbligato da una esperienza di alterità; da una presenza interpellante cui devo rispondere con radicale obbedienza.
Ridico la stessa cosa ponendo due esempi.
Primo: fare qualcosa per l’altro, come il buon Samaritano. In questa parabola è evidente la dimensione di gratuità: è il positivo il cui contrapposto è il non fare, cioè la neutralità e l’indifferenza. Si è tentati di dire: ma dove sta l’obbligazione? Una volta mi invitarono a parlare sul Terzo Mondo, e il tema era: solidarietà e restituzione. Sono partito scalzando questa connessione; non che non sia vero che dobbiamo anche restituire al Terzo Mondo, ma non è questa la ragione fondamentale del rapporto.
L’obbligazione della solidarietà non ha bisogno di esser basata su una restituzione, su un debito contratto perché prima ho sottratto qualcosa; l’obbligazione è in se stessa l’esperienza di esser in debito anche se l’altro lo vedo per la prima volta e quindi non posso dire biograficamente di essere in debito con lui. Nel momento in cui io incappo in lui, sento la mia esistenza come fondamentalmente segnata da un debito. Non è un debito derivante da una colpa da risarcire, semmai è un debito con cui paghiamo in anticipo una pienezza futura.
Oppure, possiamo dire, è un debito con cui paghiamo il dono stesso dell’esistenza. L’esistenza è un debito con cui pago il dono dell’esistenza.
Però non è che tutto questo sia formulato dentro l’atto etico, perché altrimenti presupporrebbe una visione religiosa.
L’esperienza etica è, come tale, esperienza della vita come debito; perciò mi spinge a restituire e condividere ciò che ho ricevuto.
Anche dove opero con il massimo di gratuità come il Samaritano, non faccio nulla di veramente in più; e questo è anche il senso della frase: “siamo servi inutili”: dove l'”inutili” vuol dire: siamo arrivati al punto dove dovevamo arrivare, non di più. Credo che ci sia bisogno di lottare contro “l’in più”, contro il sentimento di non pagare debiti ma di acquistare meriti o crediti. Questa cultura dell’accumulo spiega il senso della polemica paolina contro il fariseismo: il menar vanto, il gloriarsi davanti a Dio o alla propria coscienza perché ho fatto un di più di quello che avrei dovuto fare. Proprio non esiste il “di più”.
S. Bernardo dice che la misura dell’amore è quella di amare senza misura e l’antologia spirituale è abbondante su questo tema. Dunque, la dimensione di gratuità è sottesa dalla dimensione di obbligazione, non ne è l’antitesi ma l’altra faccia.
Facciamo ora il caso opposto. Mi trovo tra le mani uno che ho la possibilità di uccidere per vendicare un torto oppure per trarne un vantaggio, un guadagno… in quel momento, dalla sua posizione inerme, indifesa (che egli mi implori o nemmeno se ne accorga perché svenuto, addormentato o incosciente della situazione), proprio dalla sua posizione di nuda presenza, mi viene l’appello: “non uccidere”. Qui è evidente la dimensione di obbligazione, ma sembra completamente assente la dimensione di gratuità. Dove sta la gratuità del non uccidere? Eppure, se colui che ho risparmiato viene a sapere del fatto, mi ringrazia dicendo: “mi hai graziato”. Riflettete sul senso di questa frase: mi hai graziato (vedi l’episodio di David e Saul: 1Sam 24).
È diverso dal fatto che uno sia uscito illeso da una casa che è crollata; in questa casa non c’è un soggetto che l’abbia risparmiato, mentre nel fatto precedente c’è un soggetto che l’ha risparmiato o graziato.
Anche quella semplice negazione della negazione (“non uccidere”) che è l’espressione più elementare dell’obbligazione etica, anch’essa si porta dentro la dimensione di grazia di fronte all’altro. È davvero come gli dessi la vita, lasciandogliela là dove avevo ragioni soggettivamente valide per togliergliela: il lasciargliela è come dargliela. Sottolineo: ragioni soggettivamente valide: l’averlo risparmiato vuol dire che io ho messo queste ragioni ai piedi della sua vita. La sua vita vale per me più di ogni ragione che io sentivo fino a un momento prima, anche di quella ragione che addirittura sembrava dare senso alla mia azione ed alla mia vita: vendicarmi, arricchirmi… Metto queste ragioni ai suoi piedi, e la sua vita diventa la cosa più preziosa per me, perciò lo grazio.
Ci sono allora delle azioni etiche in cui è più evidente la dimensione di obbligazione ed è invece più recondita la dimensione di gratuità; e ci sono azioni in cui è più evidente la gratuità, non a modo di eccedenza sull’obbligazione (per cui “sono bravo”) ma una gratuità dentro l’obbligazione, dove tuttavia la gratuità è l’elemento più visibile.
3.
La testimonianza, allora, è la visibilità del momento di gratuità, presente in ogni atto etico ma non sempre visibile.
Ogni atto etico è inabitato dalla gratuità, ma c’è un certo tipo di atto etico dove la gratuità si fa visibilità, un fare positivo e percepibile per cui l’atto etico è anche una testimonianza. Non solo fa, ma tradisce – nel senso che lascia trapelare, trasparire – che quel fare viene da altrove. Direi che la testimonianza è la gratuità che si fa volto dispiegato dell’atto etico.
Ma dire volto non è ancora dire nome; perciò la testimonianza etica non è confessione o professione di fede. Se volete, c’è un cuore, una dimensione nascosta dell’atto etico, c’è il farsi volto, nel caso nostro la gratuità che diventa testimonianza, e poi c’è un dare il nome e dire magari: questo è Dio, il Dio di Gesù Cristo.
Vedrei la testimonianza come quel momento intermedio, quel movimento dell’etica che tende a farsi confessione. Non è detto che arrivi a farsi tale e non c’è nemmeno bisogno che arrivi a farsi tale. Non dico che non sia importante aggiungere un nome; ma direi che è meno importante che dare un volto.
Mi chiedo sempre di più se dentro la comune vocazione umana all’eticità, che è sempre obbligazione e gratuità, prima di aver fretta di dare un nome alla presenza che inabita segretamente e che ispira e sollecita l’atto etico, se non dovremmo, proprio come Chiesa, dare un volto alla gratuità che inabita l’atto etico. La testimonianza consiste nel dare questo volto, e il rivolgersi della Chiesa al mondo dovrebbe esser proprio un andare in questa direzione (secondo quello che diceva Ruggieri).
Ritraduco in questi termini: testimonianza è dare visibilità al segreto divino che abita l’eticità, senza bisogno di dirne il nome. Il nome lo diciamo tra noi come questa mattina nell’Eucarestia. C’è il momento esoterico, per così dire, della comunità ecciesiale ed e lì dove diciamo il nome. E il momento dossologico, liturgico, catechetico, narrativo… E c’è un momento e un tempo rivolti al di fuori, nella testimonianza della gratuità; ed anche questo va fatto con gratuità, non riducendo la testimonianza ad una prima avance per poi dire il nome.
Non parlo mai di Dio se non quando faccio le conferenze: non esibisco il nome di Dio a meno che l’altro mi domandi perché faccio questo o quello (“ma chi te lo fa fare?”). Allora rispondo tematizzando, raccontando la storia del Dio di Israele e di Gesù Cristo.
Concludendo: questa mattina, mentre scendevo da casa mia per arrivare da voi, pensando a questo tema mi sono accorto che quello che vi avrei detto era la stessa idea che alcuni anni fa avevo esposto a Pescara al convegno dei teologi italiani. Solo che l’itinerario è al rovescio. Là partivo dalla Chiesa (poiché il titolo del convegno era: ‘Verità e missione della Chiesa”). Partivo dalla Chiesa: la missione della Chiesa è dire Dio; ma cosa significa dire Dio? Il primo dire Dio è l’atto-gesto dell’eticità. Con voi il percorso è stato rovesciato: si è partiti dall’eticità e, in essa, da cosa sia il momento della gratuità e della testimonianza. Dall’eticità si potrebbe arrivare anche al ruolo della Chiesa.