Editoriale
“Ho paura del futuro”.
“Penso che il futuro in generale sarà peggio, l’uomo diventerà più cattivo”.
“Io non vedo il mio futuro, non riesco a vederlo”.
Sono espressioni tristemente significative di giovani ed adolescenti intervistati nel corso di una ricerca sull’esperienza religiosa dei giovani (M. Midali, R. Tonelli, M. Pollo (a cura di), L’esperienza religiosa dei giovani, (5 volumi), LDC Leumann (TO) 1995-1997. Cfr. “Il Regno” 10/97 pagg. 260-262).
Emanuele, un bambino di 9 anni che ho visto nascere e crescere, mi ha inviato questa poesia con il titolo scritto in rosso:
Dentro il nulla
Guardando il nulla,
non vedo niente, non
odo niente, una sensazione
di solitudine,
cuore spento.
Alla mamma che lo invitava a finire la poesia rispose che essa era già completa così!
I giovani e i bambini sono un termometro sensibile della realtà che si respira. Sono testimoni ed anche protagonisti di uno smarrimento che concerne la sostanza e il midollo stesso dell’esistenza umana. Al di là della retorica delle proclamazioni sul valore della vita, nei rapporti reali, quotidiani e strategici, altri sono i criteri dominanti. E questo, appunto, si respira. L’organizzazione attuale del mondo, lo sfruttamento intensivo e selvaggio delle risorse, la corsa al vantaggio economico immediato e la cultura pervasiva che ne consegue prescindono dalla responsabilità verso le generazioni che verranno dopo di noi. Anche se oscuramente, i giovani percepiscono che il mondo che si prepara risulta per loro sempre meno ospitale ed accogliente. Forse per questo il futuro fa paura e non si riesce a pensare al proprio futuro!
Dare significato all’esistenza umana
Nel settembre dello scorso anno in Germania, Gustavo Gutierrez, esponente di spicco della teologia della liberazione, ha presentato un testo ad un incontro tra il Consiglio episcopale latino-americano (CELAM), la Congregazione della dottrina della fede e alcuni esponenti della teologia latino-americana. Al termine dello sforzo teso a riformulare la teologia della liberazione nel nuovo contesto sud americano e mondiale, il teologo concludeva con queste semplici parole:
“Il tempo presente ci mostra l’urgenza di qualcosa che può apparire anche estremamente elementare: dare significato all’esistenza umana… La teologia è l’ermeneutica della speranza vissuta come dono del Signore, perché è di questo che si tratta: di proclamare, come chiesa, la speranza al mondo nell’ora presente; l’ora che stiamo vivendo”
(Gutierrez G., Un nuovo tempo della teologia della liberazione, in “Il Regno” 10/97, pagg. 298-315).
Nel corpo della trattazione Gutierrez analizza la situazione dei “destinati all’insignificanza”, cioè all’esclusione sociale in tutte le sue forme sino all’estremo, quando “la povertà significa morte”. Tutto questo in una dinamica che, secondo l’ultimo rapporto dell’ONU del ‘96, prevede che “il mondo è sempre più polarizzato, e la distanza che separa i poveri dai ricchi s’accresce sempre più” (ibidem, pagg. 306-307).
Il teologo cita poi un classico della tradizione economica liberale. Keynes in una conferenza del 1930 dal titolo Prospettive economiche per i nostri nipoti, afferma con onestà lucida ed agghiacciante l’insensatezza “necessaria” alla quale l’umanità deve essere costretta fino a quando avverrà un ottimistico risveglio:
“Quando l’accumulazione non avrà più tanta importanza sociale (…) potremo infine liberarci di una gran parte di quei principi pseudomorali che abbiamo tenuto in piedi per 200 anni (…). L’amore per il denaro come possesso (…) sarà riconosciuto per ciò che realmente è, ossia qualcosa di morboso e disgustoso”. Ma verrà il momento in cui, dice Keynes, finalmente sarà possibile chiamare le cose con il loro nome e dire “che l’avidità è un vizio, che la pratica dell’usura è un delitto e l’amore per il denaro è qualcosa di detestabile”. Ma poi aggiunge rassegnato: “Attenzione! Non siamo ancora in quel momento. Almeno per altri 100 anni dobbiamo continuare a fingere, con noi stessi e davanti a tutti gli altri, che quel che è giusto è male, e ciò che è male è giusto “.
Il motivo di questa inversione di valori è molto semplice:
“Ciò che è ingiusto è utile e ciò che è giusto non lo è. L’avidità, l’usura e la precauzione devono essere i nostri dèi ancora per un po’ di tempo. Infatti, solo essi possono condurci fuori del tunnel della necessità economica e portarci alla luce del giorno”. Insomma, è ancora troppo presto per poter sentire con piacere “la voce della morale”.
È un testo molto efficace perché etica ed economia sono distinte, e quindi mantengono la loro differenza. Esse sono “provvisoriamente” incompatibili almeno per 100 anni!
L’etica deve essere confinata in una necessaria irrilevanza perché, commenta Gutierrez
“invidia, egoismo, cupidigia sono divenuti i motori dell’economia, mentre solidarietà e sollecitudine verso i più poveri sono giudicate come realtà che non solo ostacolano la crescita economica, ma finiscono addirittura per diventare controproducenti, al fine del conseguimento di uno stato di benessere, del quale possono un giorno beneficiare tutti”
(ibidem, pagg. 306-307. Vedi anche citazioni di Keynes in Gomez Camacho F., Il mercato: storia e antropologia di una istituzione socioeconomica, in “Concilium” 2/97, pagg. 29-31).
Come salvare capra e cavoli
Il n° 2/1997 della rivista “Concilium” porta un titolo significativo: “Fuori dal mercato non c’è salvezza?”. In clima di secolarizzazione il vecchio adagio ecclesiologico: “fuori della chiesa non c’è salvezza” viene così trasformato, inducendo una voluta ambivalenza nella parola salvezza. I curatori del volume miscellaneo così precisano: “Al di fuori del capitalismo non c’è salvezza? Qui con ‘salvezza’ indichiamo ‘alternativa economica più umana”.
Nell’articolo: “Il mercato nella prospettiva teologica della liberazione” (Concilium 2/97 pagg. 138-159) E. Dussel tratta la tematica etico-teologica del mercato moderno. Si riferisce al classico Adam Smith, il quale cerca di risolvere il problema dell’aporia tra “vizi privati” (egoismo ed interesse privato della borghesia) e “beneficio pubblico” (ricchezza nazionale, salario per i poveri…), ricorrendo all’ideale scientifico che dominava le scienze della natura.
Smith si rifiuta di accettare il cinismo di Medenville, inaccettabile per un cristiano. Infatti lo Smith cita, nel suo saggio “Teoria dei sentimenti umani” l’autore contro il quale reagisce riportando di lui queste parole: “Tutto il senso civico, pertanto, tutta la preferenza dell’interesse pubblico a quello privato è mera frode e inganno del genere umano; la virtù, di cui tanto ci si vanta e che è l’occasione di tanta emulazione tra gli uomini, non è che frutto della lusinga generato dall’orgoglio”.
Come vi sono le leggi naturali che regolano la natura, così le azioni umane, mosse da passioni e sentimenti, sono soggette a costanti che guidano la società come la forza di gravità regola i rapporti tra corpi. Il mercato è lo spazio nel quale avviene la meravigliosa metamorfosi “grazie all’intervento di un Dio provvidente, che regola il tutto come un orologio… L’interesse proprio di ciascun individuo… produce come effetto il pubblico beneficio o l’amore verso il prossimo, grazie all’intervento di un Dio provvidente”. Una “mano invisibile” persegue il fine generale proprio attraverso ogni individuo che, tendendo alla massimizzazione del proprio profitto, inconsapevolmente concorre a quella medesima finalità generale.
Così la legge di mercato ha una valenza ontologica e teologica. Un qualsiasi potere estraneo che volesse interferire su questo “complicatissimo e perfetto orologio” finirebbe per guastare il meccanismo “provvidenziale”, con inevitabili conseguenze negative per tutti, anche per i poveri. Dussel continua poi presentando la linea più radicale dell’economia borghese odierna, riportando il pensiero di F. Von Hayek, della scuola austriaca. Rimane assodato che “l’ordine del mercato è un ordine naturale, spontaneo, non intenzionale, e non abbisogna di interventi volontari”. Inoltre esso garantisce l’unica possibilità per potersi orientare con razionalità – mediante il valore elementare indicato dai prezzi – per operare con sufficiente conoscenza. “La conoscenza umana parziale, grazie al calcolo monetario del prezzo all’interno del sistema mercato, semplicemente formale, diviene ora l’orizzonte privilegiato di ogni razionalità possibile”, a fronte della situazione moderna caratterizzata dalla atomizzazione della conoscenza.
Tuttavia il sistema mercato — e questa è la novità — ha bisogno di un fondamento per poter funzionare. Questo consiste “nell’ordine morale vigente, che fornisce le usanze e le istituzioni mediante le quali si realizzano i meccanismi del mercato (le norme fondamentali sono: rispetto della proprietà privata positiva, riconoscimento della libertà effettiva di ogni concorrente, obbligo di onorare i contratti stipulati, correttezza nell’osservare le regole della concorrenza, disciplina del risparmio ecc.)”. A questo ordine si è pervenuti attraverso una evoluzione naturale millenaria. Soltanto seguendo questa strada l’umanità avrà la possibilità di sopravvivere. Dussel commenta: “In fondo non è che una tautologia: si parte dalla morale borghese vigente e formalmente preesistente al mercato; si elencano poi per deduzione i suoi presupposti normativi ritenuti ancora una volta a priori; li si definisce come norme fondamentali e, partendo da esse (che, come abbiamo visto sono dedotte dalla nozione di mercato), si pretende ora di fondare ontologicamente – eticamente e storicamente evolutivamente il mercato medesimo. È questa una ‘etica funzionale’ con le sue teologie (la ‘dottrina sociale’ di qualche chiesa…) anch’esse funzionali”.
In sostanza allora “questa etica funzionale viene dedotta: a) da una scienza sociale funzionale (in questo caso estremo da un’economia neoliberale, conservatrice, dove la logica del mercato globale da sé sola consegue più efficacemente la sopravvivenza dell’umanità; b) da un sistema capitalista realmente esistente”.
Non è difficile collegare queste proposte etiche con le volgarizzazioni che di esse vengono fatte nell’ambito delle scelte di politica economica, in ambito nazionale, europeo e mondiale, e delle relative giustificazioni a sostegno. Esse sono più vicine a noi di quanto possa apparire. Anche l’etica è stata chiamata alla corte di quel pensiero unico, che è organico al sistema economico dominante.
Uno sguardo irriducibilmente altro
Noi riteniamo che l’etica, per essere veramente tale, abbia bisogno di occhi per vedere ed orecchi per ascoltare l’umanità nella sua concretezza. Solo quando lo sguardo e l’ascolto funzionano e percepiscono i corpi nella loro dimensione fisica e la dignità spirituale ad essi immanente, si può veramente attingere alla trascendenza, senza ricadere a peso morto nell’immanenza del pensiero unico.
Ora ascolteremo messaggi che provengono da contesti diversi. Da essi traspare in maniera netta uno sguardo ed una passione — un’etica appunto — che fanno riferimento ad un significato alto della vita umana, riconosciuta nella concretezza delle condizioni storiche e materiali.
Gutierrez, nel testo più volte citato, pone un criterio chiaro e decisivo perché si possa parlare di etica: “Le ripercussioni sui più deboli sono un criterio per decidere in merito all’ingiustizia esistente in una società. È un punto di vista fondamentale, soprattutto se si tiene conto che questi emarginati sono molte volte le vittime di un sistema economico-sociale” (Gutierrez, art. cit., pag. 307) . È questo un criterio alternativo perché si rapporta all’altro essere umano nella sua concretezza materiale e spirituale. Le ripercussioni sui più deboli, viste, analizzate nella loro realtà ed attualità, sono la lente decisiva per osservare e giudicare la qualità etica dei rapporti sociali. In sostanza è la responsabilità dell’altro (Levinas) che entra come elemento determinante sul quale sta o crolla qualunque discorso e pratica che si intendano eticamente ispirati. Occorre notare che questo criterio affonda le radici non solo nella grande tradizione biblica, ma anche in antichi testi religiosi e sapienziali extrabiblici:
Riportiamo a titolo di esempio un brano bellissimo tratto dal Libro dei morti dell’Egitto, risalente a circa 5000 anni fa: “Non ho derubato un povero dei suoi beni (…). Non ho fatto soffrire la fame (…). Non ho aggiunto (peso) alla misura della bilancia. Non ho falsato il peso della bilancia (…). Non ho messo all’acqua corrente nessun ostacolo (…). Non ho rubato con violenza (…). Ho dato il pane all’affamato, acqua all’assetato, ho vestito chi era ignudo e ho dato una barca al naufrago” (Citato da Dussel, art. cit., pagg. 138-139).
Inoltre non può avere alcuna nobiltà etica una prassi politica che sistematicamente sottragga la parola e l’ascolto delle vittime e dei “destinati all’insignificanza”. Riportiamo una parola recentemente comparsa su un giornale messicano:
“I più anziani tra gli anziani dei nostri villaggi ci hanno parlato con parole che venivano da molto lontano, di quando le nostre vite ancora non erano, di quando la nostra voce era muta. E la verità camminava attraverso le parole dei più anziani tra gli anziani del nostro popolo. E dalle loro parole abbiamo appreso:
che la lunga notte di dolore delle nostre genti giungeva per le mani e le parole dei potenti,
che la nostra miseria era ricchezza per alcuni,
che sulle ossa e la polvere dei nostri antenati e dei nostri figli è stata edificata una casa per i potenti,
e che in questa casa non poteva entrare il nostro piede,
e che l’abbondanza della sua tavola si riempiva con il vuoto dei nostri stomaci,
e che la possanza dei suoi tetti e delle sue pareti si ergeva sulla fragilità dei nostri corpi,
e che la felicità che riempiva i suoi spazi era il frutto della nostra morte
e che la saggezza che là viveva si nutriva della nostra ignoranza,
che la pace che la proteggeva era guerra per la nostra gente”.
(“Entramos otra vez en la historia”, messaggio dell’EZLN, Chiapas-Messico, in “la Jornada”, martedì 22 febbraio 1994, citato da Dussel, pag. 151)
Un’etica sorda a queste parole ed alle mille che si alzano in ogni luogo della terra non ha alcun diritto di chiamarsi etica, perché chiude orecchi ed occhi ai soggetti umani che con la loro carne e con il loro spirito reclamano la possibilità di vivere. E vivere adesso!
La parola ai pretioperai francesi
Dopo aver seguito due autori latino-americani, veniamo in Europa per sentire un po’ anche le nostre campane. Nel maggio scorso i PO francesi si sono incontrati al loro convegno che ha una cadenza triennale. Sono radicati nella realtà operaia e produttiva di un capitalismo ricco e maturo. Le loro parole ben rappresentano le dinamiche che hanno come teatro l’intero vecchio continente con un processo che in gran parte accomuna le singole nazioni.
Cedo la parola a don Carlo Carlevaris, che ha partecipato all’incontro, citando uno stralcio del suo reportage:
“Essere e agire come loro, per la prima parte del convegno, ha significato domandarsi chi sono, come vivono, che cosa subiscono gli uomini e le donne e in particolare i lavoratori di questa società in rapida trasformazione. La legge ferrea del mercato, la priorità assoluta del denaro, la privatizzazione delle imprese e dei benefici e una speculazione finanziaria più remunerativa dell’investimento produttivo sono fatti che si vanno imponendo a livello mondiale e costituiscono il pensiero unico a servizio della globalizzazione della produzione, circolazione e consumo di tutte le attività umane. Quale posto ha l’uomo, quale vita, quale destino nella morsa di questa linea di montaggio di un nuovo modo di essere dei rapporti tra l’uomo e le cose che produce e consuma?
Un saldatore con in mano la canna di saldatura lavora a pochi passi dal robot che fa lo stesso lavoro con una velocità, regolarità e precisione sconcertanti. Alla domanda: che cosa pensi di questo tuo concorrente? La risposta è: lui mi uccide. Dei vari compagni è rimasto lui solo a continuare questo combattimento perso contro la marcia ineluttabile del progresso tecnico di cui lui stesso ammira il risultato. Il robot è infaticabile, mentre lui sente la fatica del lavoro e constata così la sua fragilità e la sua diversità psichica. Sente anche la sua superiorità umana perché lui può mettere il robot in difficoltà, così come il tecnico che l’ha costruito, ma a che serve sapere se lui è così forte da farlo mettere alla porta con i suoi compagni?
Un numero sempre più alto di lavoratori o di potenziali impiegati resta fuori dalla produzione; i disoccupati sono in aumento e questa tendenza è destinata a crescere nella logica di questo sistema. Se non ci sarà più lavoro, come si manterranno coloro che resteranno fuori del circuito produttivo e dei servizi?”
(C. Carlevaris, Il vangelo dei poveri nel tempo neoliberista, in “Il Regno” 12/97, pagg. 380-382).
Il messaggio di Graz
Oltre 10.000 persone e 150 chiese provenienti da tutti i paesi di Europa si sono incontrati a Graz (Austria) dal 22 al 29 giugno di quest’anno. Alle spalle ci sono secoli di divisioni, ma dinanzi vi sono problemi comuni da affrontare, oltre che la condivisione di realtà fondamentali della fede cristiana.
In questa sede mi limito a riportare un paio di brani utili nel contesto del nostro discorso e un’intuizione molto felice, contenuti nei documenti finali.
“L’Europa è un continente fondamentalmente ricco, non solo in termini delle sue risorse naturali, ma anche nella sua tradizione di iniziativa umana e creatività. E tuttavia aumentano le schiere dei disoccupati, di quanti dipendono dall’assistenza sociale, dei senzatetto e degli indigenti. La libertà politica e il consolidamento della democrazia nei nostri paesi, che hanno registrato progressi così consolanti dal 1989 ad oggi, hanno incrementato ancora di più le differenze delle condizioni economiche e sociali. Ne soffrono soprattutto gli anziani, le famiglie numerose, le ragazze madri e i giovani. I disabili sono emarginati più di prima, sebbene alcuni paesi abbiano tentato di migliorare le loro opportunità per il raggiungimento di una realizzazione personale. Le persone in cerca di asilo sono sempre più rifiutate in tutt’Europa, mentre i casi di razzismo sono ovunque sempre più frequenti.
Alla luce della misericordia di Dio, questa società basata sulla concorrenza e caratterizzata da gretti interessi finanziari e da una crescente e spasmodica ricerca del profitto, appare profondamente violenta e priva di misericordia. Noi nelle chiese sosteniamo lo sviluppo di sistemi economici che abbiano lo scopo di proteggere i deboli in ogni parte della terra, e siano rispettosi dell’intrinseca dignità di ogni persona. Stiamo cercando sistemi che permettano loro di sviluppare creatività non solo per profitto ma anche per solidarietà e per risolvere i problemi sociali attraverso la collaborazione tra lo stato e l’iniziativa individuale e collettiva. È insensato e dannoso voler fare dell’Europa una fortezza che cerca di difendersi dalle necessità di altri continenti. Anche il diritto alla vita delle generazioni future esige che noi che formiamo l’attuale generazione non continuiamo a scaricare sul futuro i costi del nostro modo di produrre e consumare”.
Poco sopra il documento riporta una chiara autocritica delle chiese che riguarda il passato, ma anche il presente:
“Molte delle nostre chiese hanno avuto un ruolo influente nello sviluppo di un senso di superiorità europea, in base alla quale ha trovato giustificazione la dominazione europea sui popoli della terra. Nella maggior parte dei casi, le nostre chiese non hanno avuto abbastanza discernimento e forza per fermare la distruzione di altre culture, per prevenire genocidi o combattere il mercato degli schiavi. Abbiamo spesso dato una legittimazione religiosa agli imperi ed alle strutture di potere. Questo tipo di superiorità europea continua ancora oggi nella pretesa di impossessarsi delle ricchezze e dei mercati degli altri continenti, nel non tener conto dei loro gravi problemi e nel respingere i loro cittadini bisognosi di aiuto”.
L’intuizione, cui sopra accennavo, consiste nell’invito a “mettersi alla scuola della compassione” assumendo questo punto di vista, come fa il documento di Graz, nell’affrontare i vari problemi. Una compassione che deve saper mantenere bene le distinzioni tra “aggressori e vittime”, tra “giustizia e ingiustizia”. Forse proprio nella compassione risiede il cuore dell’agire etico. Tanto che si può aggiungere all’assioma riportato una variazione in più: “senza compassione non c’è salvezza!”.