“AMA IL TUO SOGNO SE PUR TI TORMENTA:
PASSIONE DELLA LIBERTÀ / OBBLIGO DELLA LIBERAZIONE”

 Viareggio 1999


 

Prima di affrontare il testo biblico, permettetemi di dire qualcosa sul contesto.
Siamo in guerra!
Noi ci incontriamo per parlare di “libertà/liberazione” mentre dal nostro territorio partono gli aerei che bombardano, uccidono, distruggono… L’occidente, paladino della libertà, svela il suo vero volto e mostra nei fatti cosa intende quando parla di libertà: “libera volpe in libero pollaio”! Affrontare il nostro tema in questo contesto storico è un po’ come disquisire della liberazione sedendo alla corte del faraone…
Certo, noi — immagino — ci dissociamo da questa sporca guerra. Rifiutiamo la logica bellica che divide il mondo tra alleati e nemici, perché sappiamo che la differenza discriminante è quella tra oppressori e oppressi (come insegnava don Milani).
Tutta la nostra vita dice che stiamo con questi ultimi, a qualunque popolo appartengano e lottiamo perché venga meno l’ingiustizia.
Ma il nostro “sogno” sembra perdente. La realtà ha i contorni dell’”incubo”, della guerra.
“Come cantare i canti del Signore in terra straniera?”.
E tuttavia, “Se ti dimentico, Gerusalemme, mi si attacchi la lingua al palato, la mia destra si paralizzi”.
Proprio quando le parole ci muoiono in bocca, intuiamo che non possiamo dimenticare il sogno che pur ci tormenta.
Per questo osiamo ascoltare, riflettere, confrontarci, discutere: non per estraniarci dalla storia ma per affinare l’udito, fino a saper ascoltare la voce del sangue degli uccisi che gridano vendetta al cospetto di Dio…

INTRODUZIONE



Questa relazione potrebbe avere il compito, relativamente semplice, di approntare una scheda sul tema “Liberazione – libertà nella Bibbia”. Dico “relativamente semplice”, in quanto, se la planimetria della valle appare un lavoro accessibile, a monte di ogni tema scritturistico stanno i macigni dell’ermeneutica e della teologia biblica. Cosa significa leggere un testo e leggerlo come parola rivelata? E perché proprio quel testo scelto da quella collezione di testi fra loro così diversi, che è la Bibbia? Domande che non possiamo affrontare direttamente in questa sede, ma che non possiamo nemmeno eludere, pena il tradimento di una parola che vuole essere “comandamento”.
La Scrittura è una strana dimora, dove convivono stili diversi, accostamenti stridenti. Per trattare il nostro tema dovremmo entrare in tutte le stanze senza tralasciarne alcuna: un percorso troppo lungo! Queste stanze eterogenee sono comunque tutte costruite su uno stesso fondamento. Ed è precisamente a questo livello fondante che vogliamo porre la nostra attenzione. Non risaliamo ad Adamo ed Eva, bensì a Mosè, perché all’origine non è lo stupore per la creazione “molto buona”, ma il grido che sale da una storia di oppressione: in principio non è la Genesi, bensì l’Esodo.
È qui che inizia la storia della salvezza.

 

L’EVENTO FONDATORE



Conosciamo i dati essenziali, dal punto di vista storico, di questa che è la “scena originaria”. In un’epoca che va dal sedicesimo secolo in avanti, un nucleo tribale ebraico era stanziato nella terra di Goshen, una fascia territoriale posta lungo la frontiera orientale dell’impero egiziano, zona adatta alla pastorizia. Verso la fine del XIV secolo-e gli inizi del XIII secolo, questa tribù, insieme con altri gruppi seminomadi, furono precettati per la ricostruzione di una capitale e di un centro strategico nella regione del delta. Sedentarizzati a forza per poter essere usati come mano d’opera, gli ebrei sono costretti a lavorare nei cantieri di stato per la costruzione delle città – emporio Pitom e Ramses (Es. 1,11). Es. 5 parla di un inasprimento ulteriore delle condizioni di lavoro per cui gli ebrei, controllati da sorveglianti egiziani e da ispettori ebrei, devono procurarsi da se stessi la paglia, che prima veniva loro fornita, necessaria per l’impasto dei mattoni. Nel libro dell’Esodo questa condizione di schiavitù viene descritta in modo particolareggiato. Il vocabolario della condizione di non-libertà è ampio: oppressione, umiliazione, controllo, maltrattamento, inimicizia.
Es 2, 23-24 dice che l’oppressione ridusse gli Israeliti ad una tale sofferenza che i loro gemiti erano inarticolati, non si rivolgevano direttamente a Dio.
Quest’ultimo; tuttavia si rivelò come il liberatore, colui che ascolta il grido e non distoglie gli occhi dalle ingiustizie.
Esodo, con tutto l’Antico Testamento, confessa Dio come “Colui che ha fatto uscire Israele dalla terra d’Egitto”. Notiamo che l’epopea della liberazione è introdotta da un discorso programmatico di Dio (Es. 3, 7ss): come dire che il seguito narrativo è lo svolgimento di ciò che Dio ha in precedenza concepito. Ciò che avviene è un preciso piano di Dio. Anche il vocabolario della liberazione è ampio. Prevale la connotazione socio-politica e quella giuridica dei verbi che indicano la liberazione, una liberazione che comporta conflitto e lotta. Grazie all’intervento divino gli schiavi ebrei non sono più servi del faraone, bensì liberi servitori del Signore; non abitano più la casa di schiavitù bensì la terra promessa.

Un midrash racconta che il faraone, colpito dalla piaga della morte dei primogeniti d’Egitto, convoca Mosè ed Aronne e chiede loro di far cessare questa piaga. Questi dissero: “Vuoi che cessi questa piaga? Di’ allora: eccovi padroni di voi stessi… In passato foste servi del faraone, d’ora in poi siete servi del Signore”.

Questa esperienza dell’Esodo è “evento fondatore” di tutta la storia della salvezza ebraico – cristiana, il legame originario (re-ligio) da non sciogliere. Alle nostre orecchie occidentali la parola “fondamento” dice qualcosa di necessario, di logicamente evidente. Di esso si parla argomentando filosoficamente. E se proprio si vuole parlarne narrando, allora il genere letterario adeguato è quello del mito. Non così nella Bibbia. Noi sappiamo che il testo biblico ha avuto una formazione complessa e plurale ed una gestazione di secoli. Diverse tradizioni, diverse teologie… L’Esodo compariva come una delle tante. Esso diventa “fondante” per scelta, non per necessità. E la scelta avviene durante la cattività babilonese, quando Israele sperimenta di nuovo la condizione dell’esilio e della schiavitù. Lì si chiarisce l’immagine di. Dio e appare chiaro che “non si può servire due padroni, Dio e Mammona” (Mt. 6, 24). Quest’ultimo è il garante dello status quo, sordo al grido degli oppressi che invocano salvezza. I suoi servitori sono coloro che si schierano per la conservazione dei propri privilegi. Dio, invece, il Dio delle promesse, è il Signore di tutti coloro che desiderano liberare la realtà, trasfigurarla. Essere credenti nel Dio liberatore significa credere ad una promessa e lottare perché non venga meno. Quando dunque Israele si ritrova tra i potenti della terra, costruisce su altri fondamenti. Ma quando gli ebrei subiscono oppressione, allora fanno memoria del Dio che ascolta il grido degli schiavi. Un Dio non tanto protagonista del mito dei vincitori, bensì compagno di lotta nella concreta storia degli oppressi.

“Illuminanti in proposito le osservazioni di J. B. Metz in Passione per Dio: “Spesso mi son chiesto quale sia propriamente il tratto che distingue l’Israele biblico, questo minuscolo popolo del deserto, culturalmente così insignificante e politicamente così oscuro, dalle grandi civiltà del suo tempo, quelle dell’Egitto, della Persia, della Grecia. Penso che lo distingua il fatto di essere un popolo inerme, povero, in certo senso incapace di superare le contraddizioni, gli orrori e gli abissi della realtà, ad esempio mitizzando o idealizzando le condizioni di vita…”.
E, ponendosi la domanda su quale tipo di fede vivere oggi, Metz continua: “In un’età post-moderna, così incline alle mitologie… la nostra spiritualità prevede troppi canti e poche grida, troppa esultanza e poca mestizia, troppo consenso e poco rimpianto, troppo conforto e poco desiderio d’essere consolati” (pagg. 26-29).


FARE MEMORIA



In qualità, dunque, di “evento fondatore”, l’Esodo va ricordato di generazione in generazione come un memoriale, una memoria viva da ri-attualizzare, una memoria pericolosa perché sovversiva. Uno dei passi salienti dell’Haggadà, la narrazione pasquale ebraica, invita ogni partecipante a considerare se stesso come personalmente uscito dall’Egitto: «In ogni generazione ognuno deve considerarsi come se egli stesso fosse uscito dall’Egitto, come è detto: “in quel giorno tu dichiarerai ai tuoi figli: questo si fa per ciò che il Signore fece a me quando uscii dall’Egitto”, perché il Santo, benedetto egli sia, non redense solo i nostri padri, ma redense anche noi con loro, come è detto: “Ci fece uscire di là per farci entrare e darci il paese che aveva giurato ai nostri padri”». Dunque l’uscita dall’Egitto, il cammino nel deserto e l’entrata nella terra promessa letti come momento fondante della religione ebraico – cristiana, ci danno una chiara indicazione riguardo al tema “liberazione-libertà”:
«Noi abbiamo libertà soltanto nell’esodo che ci fa uscire dalla schiavitù e nella lunga marcia attraverso il deserto. Noi cerchiamo la terra promessa. La libertà dunque è il fine di ogni liberazione e non il suo presupposto astratto». Infatti solo dopo l’esperienza esodica è possibile parlare più in generale di libertà. È quanto fa Genesi, universalizzando l’esperienza particolare di Israele. Fin dalla creazione del mondo Dio dice: “facciamo l’essere umano a nostra immagine”, cioè libero. E la relazione con Dio si presenta nei termini di una “religione della libertà” dove l’essere umano è partner in un rapporto di alleanza e non schiavo di un signore zeusico. Una libertà senza sconti, da rischiare nella storia, come mostra la vicenda di Abramo che esce continuamente dai territori conosciuti e cammina davanti allo stesso Dio (Gen.12 e 17). Una libertà che, lungi da essere privilegio per alcuni, deve essere per tutti. «La via che si estende dall’Egitto al Sinai può presentarsi come un passaggio da un grido che si innalza dall’abbrutimento della sofferenza, all’acquisizione di una condizione in cui ci si sente responsabili verso il grido che si eleva da parte di chi è tuttora colpito dalla sofferenza» (P. Stefani, Il nome e la domanda, pag. 249)

IL MESSAGGIO EMENDATO



La nostra scheda biblica potrebbe terminare qui. Certo, non abbiamo passato in rassegna tutta la Scrittura! Dovremmo almeno ricordare che con la speranza in un al di là e con l’apocalittica fu posta una nuova chiave ermeneutica per interpretare l’evento della liberazione. Tuttavia la risurrezione dei morti compare come estensione e non certo come smentita di quella risurrezione dei vivi oppressi che è l’obiettivo del processo di liberazione. In ogni caso, analizzando il momento fondante, possiamo dire di avere in mano i dati essenziali riguardo al nostro tema.
Ma fermarsi qui sarebbe come leggere la Bibbia in modo gnostico! E conseguentemente accontentarsi di una libertà gnostica, da conoscere idealisticamente. La Parola si sottrae a questa riduzione a “lettera”. Essa pretende di essere ri-cordata: cioè seminata nel cuore, inteso come centro operativo della persona. Solo così si capisce la strana risposta di Israele al dono della Torah: «Tutto quello che il Signore ci ha detto noi lo faremo e lo ascolteremo» (Es. 24, 7). «Solo il facitore della Parola è vero uditore» (Karl Barth). Altrimenti sperimentiamo quello che G. Scholem ha definito il “Nulla della rivelazione”: quando cioè la Parola non scompare e tuttavia non significa più.
La parola della liberazione, che dice l’indicativo teologico e l’imperativo etico, continua ad essere letta, proclamata, studiata, sottoscritta, eppure non è “fatta”.
«Là dove è il tuo tesoro sarà pure il tuo cuore» (Mt 6,21): e il nostro cuore non custodisce più la scena originaria della liberazione come tesoro prezioso. È attratto da altri tesori…
Del resto la passione per la liberazione ha sempre avuto vita difficile e breve. Non solo da parte degli umani — come accenniamo di seguito: anche Dio sembra dimenticarsi della sua identità di liberatore. La Scrittura parla di innumerevoli grida inascoltate, di profeti che per questo contestano Dio e lo citano in giudizio, di credenti che, nonostante questo, continuano a lottare per la liberazione contraddicendo l’atteggiamento divino (sulla contestazione teologica per le promesse mancate, solo a titolo di esempio si vedano gli scritti di S. Quinzio e di E. De Benedetti).
È stato così fin da subito. Nel momento stesso dell’esodo, vediamo gli ebrei contestare Mosè all’arrivo delle armate egiziane, gettatesi al loro inseguimento: «Forse perché non c’erano sepolcri in Egitto ci hai portati a morire nel deserto?» (Es.14, 11). E tutto il cammino verso la terra promessa è segnato dalle “mormorazioni”. La stessa generazione che ha vissuto personalmente l’evento esodico abitava ancora la casa di schiavitù, aveva interiorizzato l’atteggiamento servile . Non bastava trarre gli ebrei dall’Egitto, occorreva anche trarre l’Egitto dal cuore degli ebrei. È quanto ricorda la tradizione ebraica: “L’esilio vero di Israele in Egitto fu che gli ebrei avevano imparato a sopportarlo” (M. Buber, I Racconti del Chassidim, 647). La nostalgia della schiavitù, la complicità con il dominatore innescano nel cuore dell’epopea della liberazione un vero e proprio contro-esodo. Il seguito della storia della salvezza testimonia l’opposizione al progetto liberatore. Le dinamiche di oppressione sperimentate in Egitto troveranno posto anche nella terra promessa. I re di Israele non praticheranno il diritto e la giustizia, ma cercheranno il loro interesse, versando sangue innocente, operando oppressione e violenza (Ger. 22,17). L’attesa messianica sorge come esigenza di un re che avrebbe finalmente reso giustizia agli oppressi (confronta Is.11,4-5; Sal. 72 ecc.)
Gesù di Nazaret si presenta parlando il linguaggio della liberazione (Lc. 4,16ss) e proponendo un “discepolato di uguali” che caratterizza gli inizi del cristianesimo. Ma già all’interno degli stessi scritti neotestamentari notiamo il sorgere del sospetto nei confronti di questo linguaggio, l’infiltrarsi della consueta lingua parlata dai capi delle nazioni. È possibile individuare le tracce di un processo di graduale patriarcalizzazione della chiesa, che fece passare dalle strutture carismatiche ed egualitarie dei primi tempi a un ordine gerarchico in sintonia con l’ethos culturale dominante”.
È soprattutto con la “svolta costantiniana” che la chiesa si allea con i faraoni di turno, i profeti sono rimpiazzati dai cappellani di corte e il messaggio della liberazione viene così “emendato”. È questa la chiave di lettura suggerita da Dostoevskij ne “La leggenda del grande Inquisitore”, là dove il cardinale inquisitore confessa al Cristo, ritornato in terra e messo in prigione come elemento pericoloso, che la chiesa ha dovuto cambiare il vangelo per poter ottenere il consenso delle masse.
Uno strumento formidabile per “emendare” senza rinnegare il messaggio della liberazione è stata la lettura tipologica della scrittura. La materialità della schiavitù da cui Israele fu liberato viene riletta come parabola di un’altra liberazione: quella dalla schiavitù del peccato per poter accedere ad una terra promessa celeste ed invisibile. Il tema “liberazione-libertà” viene così totalmente de-politicizzato. Il cristianesimo diventa una questione tra Dio e l’anima (confronta Agostino, Soliloqui, 1,7). Ed anche le diverse dispute che si sono avute lungo il corso della storia sul rapporto tra libertà e grazia (Pelagio – Agostino; Erasmo – Lutero) si sono svolte all’insegna dell’oblio dell’esperienza esodica. Queste controversie teologiche provano a spiegare quella tensione che il cristianesimo ha sperimentato fin dal suo sorgere tra misericordia e giustizia, tra intervento gratuito di Dio ed adesione responsabile degli esseri umani; tensione tipica della fede ebraica ai tempi di Gesù (cfr. G. Boccaccini, Il Mediogiudaismo) . Ma scompare quasi del tutto l’altra tensione, quella tra il mistico e il politico. Per usare un’immagine di W. Benjamin, la cristianità non ha saputo tendere l’arco in modo da scoccare la freccia e colpire al cuore della storia. Dove “L’immagine dell’arco ha a che fare contemporaneamente con due capi, quello politico e quello mistico” (W. Benjamin e G. Scholem, Teologia e utopia, 165).
Per la chiesa cattolica il Concilio Vaticano Il parve segnare la fine dell’epoca costantiniana: una nuova pentecoste in cui lo Spirito ricordava alla chiesa la verità tutta intera (Gv. 16,13) e invitava ad una nuova conversione evangelica. Di fatto nel clima conciliare e grazie alla spinta del contesto socio-culturale degli anni ‘60-’70, ha trovato di nuovo cittadinanza il linguaggio della liberazione.
Basterebbe tuttavia ricordare la vicenda dei pretioperai o quella della teologia della liberazione per fare emergere i sospetti e le difficoltà poste a questo “recupero”. Oggi il “pensiero unico” è di casa anche in una chiesa incapace di metanoia evangelica. Ancora una volta la parola dell’esodo continua ad essere proclamata; addirittura con enfasi si dà spazio a quel memoriale della liberazione che è il giubileo biblico: ma è il “nulla della rivelazione” a risuonare per cuori rivolti altrove.
Come Giuseppe Flavio, il famoso storico ebreo, prima compagno di lotta degli Zeloti contro gli invasori romani e poi alleato di questi ultimi perché — diceva — “Dio sta dalla parte dei vincitori”; anche la chiesa cattolica, forte di un consenso pressoché totale, distoglie lo sguardo dai perdenti e canta nel coro dei vincitori. Eppure, ci ricorda Simone Weil, “la verità fugge dai vincitori”! La Parola di Dio, invece di aprire gli occhi sulla barbarie della nostra civiltà, provocando la giusta indignazione e la lotta per il cambiamento, viene usata come conferma o come supporto pubblicitario a favore dell’otto per mille! Da questa forma della fede occorre congedarsi senza esitazione.

 

UNA FEDE ESODICA



Ma se la Parola è ancora fuoco che non riusciamo a contenere (Ger. 20), non possiamo arrenderci di fronte a questo “nulla della rivelazione”. Nel convegno del 1994, “Paradosso cristiano nel crepuscolo dei XX secolo”, ci siamo posti il problema su quale fede vivere oggi. Ripensare radicalmente l’esperienza credente significa ritornare alla radice e cioè alla parola biblica intesa non come principio astratto bensì come comandamento vivo e vero per il qui e l’oggi (confronta D. Bonhoeffer Gli Scritti, pag. 616).
A me sembra che questa Parola esigente giochi una precisa funzione di pungolo nei nostri confronti. Il collettivo dei pretioperai si ritrova composto da poche persone, di età avanzata, in un contesto socio-culturale avverso. Nell’epoca del disincanto prevalgono i sentimenti dell’opportunismo, del cinismo o della paura. Impotenti, anche noi mettiamo da parte le grandi parole d’ordine della precedente militanza e pensiamo che sia già molto salvare la propria anima. Ma la Parola è una spada a doppio taglio che non ci permette di accontentarci di una fuoriuscita individuale dalla casa di schiavitù, rimandando l’obiettivo di una liberazione per tutti ad una terra promessa escatologica. Sarebbe come saltare la “tappa del Sinai”, dove viene rivelato il senso della libertà ricevuta: «Violare i dieci comandamenti significa misconoscere il liberatore e negare il diritto del fratello membro dello stesso popolo o creare disuguaglianza in una società che la liberazione di Dio ha voluto di uguali. Significa ripristinare quella situazione di schiavitù dalla quale si è usciti» (D. Garrone in Parola Spirito e Vita n. 23, pag. 40).
La scena originaria dell’Esodo mette in guardia da un certo “egoismo religioso” e indica una forma di fede che sa ascoltare con un orecchio il progetto divino della liberazione e con l’altro le grida degli oppressi…
Ma alle pendici del Sinai si arriva solo se, come Mosè, dapprima si rompe con la corte del faraone, condividendo la condizione servile e poi si esce dalla casa di schiavitù, attraversando il deserto e perseverando nell’afflizione. Es.3, 12 ci dice che si arriva «a servire Dio su questo monte dopo aver fatto uscire il popolo dall’Egitto».
Mi sembra che l’Esodo indichi una pedagogia del cammino di liberazione dove c’è un “prima” e un “dopo”. Non si può servire il Signore, se si è costretti a servire il faraone. Non si possono servire due padroni! Oggi assistiamo ad una versione del cristianesimo che fa giungere subito al Sinai, che propone un approccio magico – sacrale e non storico al divino. La fede esodica non crea “un mondo dietro al mondo”; è fede che smaschera la mistificazione, l’uso del divino come consolazione, come ideologia rassicurante. Le chiese oggi costruiscono “corsie preferenziali” per un’esperienza religiosa che non fa più i conti con la storia. Ancora una volta “Dio e l’anima e basta”! La spiritualità è tornata prepotentemente “à la page”, senza doversi più difendere dal sospetto di risultare alienante. La fede esodica non può esimersi dal mettere in guardia dalla coltivazione di una”interiorità blindata”.
 

SPIRITUALITÀ DELLA LIBERAZIONE



Mi permetto un’ultima considerazione su cosa possa significare per noi oggi una spiritualità della liberazione. La vicenda esodica, evento fondatore della storia salvifica, descritta con i toni dell’epopea, fu in realtà un evento minore nella grande storia di allora. Un evento dai contorni incerti (esodo-fuga e\o esodo-espulsione?), neppure degno di menzione nella storiografia ufficiale. Conosciamo il giudizio imperiale di allora espresso nella famosa stele di Merneptah: «Israele distrutto è ormai senza seme». Un giudizio distaccato, “politicamente corretto”, su questa vicenda richiederebbe uno sguardo ironico, capace di cogliere i risultati positivi, ma anche la limitatezza e l’insufficienza rispetto al panorama di ingiustizie che da sempre ci presenta la storia. Potremmo dire che nell’esodo di Israele dall’Egitto ci sono tutti quegli elementi che suggeriscono un senso di impotenza nei confronti dell’immane potenza del negativo. In clima post-moderno di destituzione delle grandi parole d’ordine neppure il messaggio biblico della liberazione sembra poterne uscire indenne! Dopo aver sperimentato i “deliri di onnipotenza”, anche noi ora sperimentiamo, spesso con angoscia, il senso d’impotenza. Non ci resta che annunciare con la parola una trasformazione che sappiamo non essere a nostra portata?
La Scrittura non si muove in questa direzione. La salvezza è annunciata ed illustrata con segni e con gesti concreti. L’esodo, come le guarigioni di Gesù, hanno valore di segni. Sono espressione e traduzione della buona novella della liberazione annunciata agli schiavi. La parola divina risuona attraverso gesti significativi, prove concrete della volontà che ha Dio di liberare gli esseri umani dai mali che li opprimono (cfr. J. Dupont, Seguire Gesù povero).
Certo, la terra veramente all’altezza della promessa, il regno di Dio, gioca il ruolo dell’utopia, ha carattere escatologico, spetta solo a Dio stabilirlo. Le nostre realizzazioni saranno sempre imperfette e provvisorie. Tuttavia non possiamo esimerci dal porre questi segni premonitori della liberazione. Diceva rabbi Tarfon: «Non spetta a te portare a termine il lavoro, ma non sei nemmeno libero di sottrartene» (Pirqè Avot, II,19).

Angelo Reginato


 

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