“AMA IL TUO SOGNO SE PUR TI TORMENTA:
PASSIONE DELLA LIBERTÀ / OBBLIGO DELLA LIBERAZIONE”

 Viareggio 1999

Interventi



Provo una certa difficoltà ad entrare in questo tema vastissimo che presuppone la concezione dell’uomo. Parlare dell’uomo è impegnativo, così pure della libertà che diventa liberazione. Esperienze di liberazione che costruiscono la libertà… e più che un concetto essa è una pratica. Parlare della libertà significa esperimentare la libertà con dei processi che sono al plurale, mai esaustivi, diversi a seconda delle situazioni e che si rinnovano per non essere ingabbiati dagli schemi. Essere qui e guardare oltre: è il nomadismo culturale. Per entrare nella tematica,vista da un’angolatura particolare e che non vuoi essere esaustiva, prendo il brano di Luca 21, 25-28: «Ci saranno fenomeni nel sole, nella luna e nelle stelle. Sulla terra i popoli saranno presi dall’angoscia e dallo spavento per il fragore del mare in tempesta. Gli abitanti della terra moriranno dalla paura per il presentimento di ciò che dovrà accadere. Infatti le forze dei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il figlio dell’uomo venire sopra una nube con grande potenza e splendore! Quando queste cose cominceranno a succedere, alzatevi e state sicuri, perché è vicino il tempo della vostra liberazione».
Non voglio interpretare questo testo in chiave catastrofica da fine del mondo o fine della storia. Quello che mi interessa è il modo di affrontare l’evento, l’accadimento, che diventa processo di liberazione.
Il modo è duplice: guardarlo ed entrare dentro; oppure fuggire, cercando un rifugio altrove e ignorarlo. Quando succede qualcosa, alzati, leva il capo, sta sicuro, in piedi. Non sederti, se ti alzi significa che stai per iniziare un cammino. È il mangiare la pasqua in piedi col bastone in mano, pronti per il viaggio. «Quando queste cose cominceranno a succedere…». Quali cose? Che cosa sta avvenendo? È capire il momento.
Questi sono i punti che ritengo significativi, i segni di quello che sta succedendo, la cornice del quadro:

1. Ci troviamo di fronte ad un “novum” da cui veniamo interpellati: non c’è mai stata tanta gente che ha fame e che muore di fame come oggi, proprio quando l’umanità avrebbe più mezzi per nutrire tutti. E se si parla di “tutti” ci si riferisce ai 6 miliardi di persone su tutto il pianeta e non all’infima minoranza di benestanti (come quando ad es. qualcuno dice che bisogna sapere l’inglese perché “tutti lo capiscono”, dimenticando che questo “tutti” rappresenta solo il 15% dell’umanità).
2. L’affare della guerra fomentato dai mercanti d’armi e dalle “missioni umanitarie” che servono ad occupare territori strategici per la difesa dei propri interessi. I vecchi orrori che ritenevamo definitivamente sepolti ritornano anche nel cuore della vecchia Europa: pulizie etniche, deportazioni, rifugiati, stupri per imporre ai vinti il proprio sangue.
3. La corruzione politica ed economica: le multinazionali della fame (del grano, degli ibridi, dei semi, dello zucchero e del caffè, dei manzi e degli hamburger) con tutte le conseguenze sui paesi poveri.
4. L’esodo dal sud verso il nord, sia in senso geografico che economico.
5. La diffusione del modello “Mc Donald’s”, che significa formazione di un “mondo unico” improntato a modelli e stili di vita occidentali. La morte delle culture (il linguaggio dei computers è freddo, senz’anima).
6. La disoccupazione. Si liquida e si tagliano dipendenti di tutte le risme sempre proclamando e promettendo la ripresa che non c’è. Si sgretola il tenore di vita facendo appello alla fiducia. Si disintegrano istituzioni, si degradano conquiste sociali perché si ritengono “non adeguate”.
“È per salvarti meglio, piccina mia”… Tutto questo sempre in nome delle catastrofi sospese sopra le nostre teste, che ci vengono spiegate a colpi di “deficit” e di “buchi” da colmare con urgenza. La precarietà ormai è un modo di vivere a causa della crescita delle speculazioni finanziarie e dei mercati più o meno virtuali del “capitalismo elettronico”.
In un incontro del G7 a Lille del 1996 il direttore generale dell’organizzazione internazionale del lavoro precisava che dal 1970 al 1994 il numero dei disoccupati nei paesi del G7 è passato da 13 a 24 milioni. Senza contare i 4 milioni che hanno rinunciato a cercare un’occupazione e i 15 milioni che lavorano part-time in mancanza di meglio.
7. La violenza della calma, che è la più pericolosa, quella che permette a tutte le altre di scatenarsi senza ostacoli: essa proviene da una quantità di costrizioni che sono a loro volta frutto di una lunga tradizione dileggi clandestine. C’è un’assuefazione e non c’è più bisogno di mentire perché i “postulati” e il “credo” vengono inculcati poco a poco nelle coscienze anestetizzate. È il disarmo delle coscienze.
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Di fronte a questo contesto, come si inserisce il processo di liberazione? Il primo gesto è quello di prendere coscienza di quello che sta avvenendo. Il poeta Thomas Dylan afferma: “Non andare dolcemente entro questa buona notte. Arrabbiati, arrabbiati contro la morte della luce”.
Qualcuno in uno dei nostri incontri aveva accennato ad un fatto successo nei campi di concentramento durante il nazismo: una donna ebrea ogni mattina si puliva gli zoccoli. La consapevolezza, il ritenersi un essere umano, la coscienza di valere qualcosa, la coscienza della propria dignità, il non farsi vergognare. Tu mi calpesti ma io non mi lascio mettere sotto i piedi e che tu possa introiettare la tua violenza su di me. Niente paralizza come la vergogna; esso è un sentimento che altera sin dal profondo, lascia senza risorse, consente qualsiasi influenza dall’esterno, riduce chi la patisce a diventare una preda. È la vergogna che permette di fare le leggi senza incontrare proteste: è un elemento importantissimo del profitto.
Lo scorso anno ho usato l’immagine del tarlo, come strategia di liberazione. Il continuare, l’insistere richiama l’immagine biblica di Israele che circonda Cerico con Giosuè: esso continua a girare attorno alla città finché essa non cade. La potenza del cerchio! C’è anche la parabola evangelica di chi va di notte a chiedere pane all’amico e l’altro è costretto a scendere dal letto pur di toglierselo dai piedi.
Quando lavoravo in un comitato di quartiere nella periferia di Roma ho esperimentato a lungo questa strategia del tarlo che richiedeva nervi saldi, pazienza e soprattutto costanza. “Gutta cavat lapidem”. Lettere sempre protocollate, appuntamenti fissati per scritto, con scadenze precise, facendomi dare il nome di colui con il quale si è parlato, numeri telefonici. Documenti scritti e registrati sempre alla mano e soprattutto una strategia fatta e decisa da tutti, tenendo presente l’apporto di tutti.
In queste situazioni non si pone il problema di maggioranza e minoranza. Il processo di liberazione è nonviolento, direi circolare e non piramidale. Gli incontri, i momenti di discussione con il modo di prendere le decisioni sono momenti di liberazione e non di sopraffazione. Spesso si gioca al “chi vince e chi perde”, al più forte, a chi fa la voce più grossa.
Paulo Freire, nella “Pedagogia degli oppressi” a questo proposito afferma: «Il dialogo, come incontro degli uomini nel compito comune di saper agire, si interrompe se i suoi poli (o uno dei due) perdono l’umiltà. Come posso dialogare se non chiedo il contributo degli altri che mai riconosco e me ne sento perfino offeso? Come posso dialogare se temo il superamento e se solo pensandoci soffro e mi deprimo? L’autosufficienza è incompatibile con il dialogo. Gli uomini che non hanno umiltà non possono avvicinarsi al popolo. Non c’è dialogo neppure quando manca gran fede negli uomini. Neppure c’è un dialogo quando non c’è speranza. Ricominciare ad alimentare la speranza è anche un modo di mettere a tacere il mondo, di fuggirlo».
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Sopra ho accennato al processo di liberazione come nonviolento. Gandhi ha dato delle indicazioni, delle regole del comportamento nonviolento che io vedo importanti in qualsiasi processo di liberazione:

«Nei conflitti agisci,
agisci subito!
Agisci qui!
Agisci per convinzione!
Delimita bene il conflitto!
Definisci i tuoi fini chiaramente!
Cerca di capire i fini del tuo avversario!
Metti in evidenza i fini comuni e compatibili!
Descrivi i fatti rilevanti del conflitto in modo obiettivo!
Adotta un approccio positivo al conflitto!
Dai al conflitto un’accentuazione positiva!
Considera il conflitto come occasione per incontrare il tuo avversario!
Considera il conflitto come occasione per trasformare la società!
Considera il conflitto come occasione per trasformare te stesso!
Risolvi il conflitto!
Non continuare la lotta conflittuale per sempre!
Cerca sempre di negoziare con l’avversario!
Cerca di ottenere sempre trasformazioni positive!
Cerca di trasformare gli esseri umani! Te stesso e l’avversario!
Insisti sulle cose essenziali, non su quelle marginali!
Non barattare le cose essenziali!
Considerati fallibile!
Ricordati che puoi essere nel torto!
Ammetti apertamente i tuoi errori!
Sii generoso nei confronti dell’avversario!
Non sfruttare la debolezza dell’avversario!
Non giudicare l’avversario più severamente di te stesso!
Abbi fiducia nel tuo avversario!
Cerca sempre soluzioni accettabili per te stesso e per l’avversario!
Non forzare mai l’avversario!
Converti l’avversario in un sostenitore della causa!»

Mario Signorelli


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