Editoriale
Ciò che noi sappiamo sin d’ora è che la vita sarà tanto meno inumana
quanto più grande sarà la capacità individuale di pensare ed agire
(Simone Weil)
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Nei giorni della guerra in Kosovo noi pretioperai ci siamo ritrovati a Viareggio a riflettere insieme nell’incontro annuale prendendo lo spunto dal titolo, riportato in copertina, “Ama il tuo sogno se pur ti tormenta: passione della libertà obbligo della liberazione”. Il clima di guerra, con il carico di angoscia e di impotenza che pesava nell’anima, non ci ha impedito di incrociare i nostri pensieri su queste grandi parole; anzi, proprio la tragedia che si stava consumando sotto i nostri occhi, ci ha dato — osiamo sperarlo — più grande consapevolezza e gravità, facendoci avvertire l’importanza e l’urgenza che queste grandi parole diventino pratica concreta e quotidiana. La loro carica utopica, che affonda le radici nella antica narrazione biblica e nella versione laica del pensiero dell’occidente, a contatto stretto con la drammaticità della guerra, viene vaccinata, se ancora ce ne fosse bisogno, dalle facili illusioni per allearsi con il disincanto, il che consente un guadagno in concretezza e realismo.
In questo quaderno della rivista, nato in questo milieu, vengono offerti una parte della documentazione dell’incontro di Viareggio, rimandando ai prossimi numeri la pubblicazione delle altre testimonianze, e riflessioni sulla guerra con un mini-dossier di documenti a cura dei PO di Milano.
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Durante il conflitto sono stato invitato a cena, assieme ad un amico che come me lavora in ambito sanitario, da un comune compagno di sindacato, oggi in pensione. Come era inevitabile, il discorso è caduto sugli eventi drammatici che si stavano consumando. Ci siamo trovati e lasciati divisi, senza mediazioni possibili. Le immagini televisive venivano a visitarci ben schierate a caccia di sostenitori della “guerra etica” per la difesa dei “diritti umani”. L’intera famiglia era unita e compatta, con un tifo da stadio, contro i Serbi. Nella guerra non si fanno distinzioni, o meglio si fa un’unica distinzione: da questa parte ci sono “i nostri” e dall’altra gli altri, tutti gli altri, cioè i nemici, come nei film western. È una semplificazione necessaria, tutto sommato riposante per la mente, finalmente in grado di stabilire con precisione la propria identità di collocazione.
La guerra non distrugge solo le cose materiali, l’organizzazione della vita civile o le vite umane, ma, come i proiettili all’uranio impoverito, ha la terribile capacità di penetrazione nelle regioni più intime dell’animo umano e, similmente alle bombe alla pirite, ha il potere di indurre cortocircuiti della mente e conseguenti black-out spaventosi, fino al rifiuto del dubbio, delle interrogazioni, necessari ad ogni percorso di conoscenza critica della realtà. Soprattutto, con una facilità sconvolgente, può disattivare qualunque forma di repulsione o disgusto per il sangue inutilmente versato e prosciugare la compassione per le vittime, incrementando i processi di disumanizzazione.
In una lettera inviata a Bernanos, Simone Weil fa riferimento alla comune tragica esperienza vissuta sui fronti contrapposti nella guerra civile di Spagna, lui schierato con i franchisti, lei con i repubblicani.
«Per quanto mi riguarda, ho avuto la sensazione che quando Le autorità temporali o spirituali hanno messo una categoria di esseri umani fuori da quelli la cui vita ha un prezzo, non c’è niente di più naturale per l’uomo che uccidere: senza rischio di castigo o di biasimo; si uccide, o almeno si circondano di sorrisi incoraggianti coloro che uccidono. Se per caso si prova un po’ di disgusto, lo si fa tacere, e presto lo si soffoca per paura di sembrare privi di virilità» (Simone Weil, Lettera a Bernanos, in Morale e letteratura, ETS Editrice 1990, p. 86).
Gli unici che hanno diritto di parola e che potrebbero dire una parola vera, perché fatta di dolore e di sangue, di oppressione subita e di paura, sono le vittime. Tutte le vittime della guerra e del dopo, anche quelle che non sono ancora nate e che pagheranno nel corpo e nella psiche lo sfacelo di una natura violentata e di un habitat devastato. Ma esse non parlano. La ribalta si apre su una parte di loro, finché servono come ostaggi per commuovere e convincere i tifosi della “giusta causa” per poi scomparire nel nulla. Comparse di uno spettacolo destinato ad essere presto sostituito da un nuovo copione. I riflettori ormai da tempo sono puntati altrove.
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Noi crediamo che sia perverso l’uso di termini del tipo “guerra umanitaria”. La perversione delle parole implica anche una falsificazione della realtà ed il suo occultamento.
Parlare di guerra umanitaria “sarebbe come dire che una delle parti è umanitaria, mentre l’altra è diabolica”. Una semplificazione del genere “potrebbe condurre ad una discriminazione tra le vittime, che verrebbero così distinte in vittime ‘buone’ sul versante dello schieramento umanitario e vittime ‘cattive’ tra coloro che si oppongono ad un intervento ‘umanitario”». (Cit. del Presidente della Croce Rossa internazionale, nell’articolo di Alain Gresh, Le leggi della guerra, in Le monde diplomatique, settembre 1999 p. 1).
Vi sono due caratteristiche delle guerre dell’Occidente praticate in questo ultimo decennio contro l’Iraq e contro la Serbia con i moderni sistemi di bombardamento: il bassissimo costo umano pagato dagli eserciti occidentali e la devastazione inferta non solo al presente, ma nei decenni futuri.
Osserva il filosofo americano M. Walzer:
«“il tiro al piccione non è una battaglia tra combattenti. Quando il mondo è irrimediabilmente diviso tra chi lancia le bombe e chi le subisce, la situazione diviene moralmente problematica”. Perché mai si dovrebbe esitare a scatenare un conflitto armato, sforzandosi di esaurire tutte le opportunità della diplomazia, quando il ‘prezzo della guerra’ è così basso?» (Ibidem, p. 1).
La seconda caratteristica si riassume in una semplice frase: “Bomb today, kill tomorrow” (bombarda oggi, uccidi domani!). Secondo un rapporto dell”Unicef le distruzioni provocate in Iraq e l’embargo hanno prodotto il raddoppio del tasso di mortalità infantile. Persino Kissinger si chiede:
«che tipo di umanitarismo si esprime nel rifiuto di subire perdite militari e nella devastazione dell’economia civile dell’avversario per i decenni a venire?» (Ibidem, p. 1).
Come si può parlare di guerra umanitaria quando la regola fondamentale della Convenzione di Ginevra è stata apertamente violata? Così recita l’art. 59 del primo protocollo:
«le operazioni militari devono essere condotte nella costante preoccupazione di risparmiare la popolazione civile e i beni di carattere civile».
È noto a tutti che progressivamente nel corso della guerra i ponti, gli acquedotti, le ferrovie, le centrali elettriche, le fabbriche, i sistemi di telecomunicazione… sono diventati obiettivi militari, mentre l’uso massiccio delle bombe a frammentazione aveva come effetto intrinseco inevitabile quello di provocare la distruzione di popolazione civile. In termini reali quale maggiore “nobiltà” hanno questi metodi rispetto a quelli — certamente da condannare in maniera inequivoca — usati dal regime di Milosevic, (gli stessi, peraltro, messi in atto dall’UCK prima e dopo che le parti si sono rovesciate)? Dove sta la maggiore “umanità”? Non è forse vero che assistiamo ad una semplice “trasposizione della crudeltà”? (ibidem p. 1).
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Da che mondo è mondo la storia ufficiale è sempre stata scritta ad uso e consumo dei vincitori. Il dire o il non dire dipende dall’interesse strategico di chi ha il potere. Per risalire al rovescio della medaglia c’è da fare una dura fatica. Un giorno quando la verità non ha più ormai alcuna possibilità di “nuocere”, oppure quando cambia il gruppo di potere egemone, forse verrà a galla. Chi sa: può darsi che in un domani verrà fatta venire alla luce la verità su Ustica. Una verità certamente conosciuta dagli alleati della NATO, sicuramente nota ad alti gradi del nostro esercito che dovrebbe difendere i cittadini, ma che non può essere rivelata ai parenti delle vittime ed agli italiani, anche se in cuor loro già la conoscono.
La strategia, però, può prevedere di buttare in faccia ai propri cittadini-sudditi, agli alleati e ai nemici la cruda verità, cioè il richiamo puro e semplice alla legge della forza, la forza al servizio degli interessi politici ed economici. Il 29 marzo scorso Thomas Friedman, consigliere di Madeleine Albright, segretario di stato USA, scriveva sul New York Times:
«Il pugno della forza americana è ciò di cui il mondo ha bisogno adesso, perché la globalizzazione funzioni. L’America non può aver paura di agire da superpotenza onnipotente quale è. La mano invisibile del mercato non funzionerà mai senza questo pugno. Mc Donald’s non può prosperare senza Mc Donnel Douglas, il progettista degli F-5. E questo pugno, che tiene al sicuro il mondo per la tecnologia di Silicon Valley, si chiama Esercito americano, Forza aerea, Marina militare e marines».
Gli alleati europei lo sanno, ma fingono di non saperlo appellandosi alla necessaria lealtà dell’alleanza atlantica. Tanto più il passato politico degli attuali leaders è stato… discutibile dal punto di vista della superpotenza, tanto più convinto deve essere il loro sostegno e convincenti i loro appelli ai cittadini-sudditi. Certamente il nostro presidente del Consiglio era un sorvegliato speciale, visto l’orribile passato comunista. La lealtà va provata senza ombra di dubbio. Da quanto risulta sembra che la prova sia stata superata brillantemente.
Come mille volte è avvenuto nella storia, anche in questo caso la lente giusta per leggere gli eventi è quella indicata 2500 anni fa dai forti ateniesi contro i più deboli abitanti dell’isola di Melos:
«Sapete bene quanto noi che nel mondo degli uomini gli argomenti giuridici hanno un peso soltanto nella misura in cui le parti in causa dispongono di mezzi equivalenti. Altrimenti, è il più forte a trarre il maggiore vantaggio possibile dalla propria potenza, mentre al più debole non resta che piegarsi».
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La forza però non basta a se stessa. Come nella favola del lupo e dell’agnello, il forte pretende per sé ragioni rispettabili per l’uso della propria forza. La forza si ammanta di etica, si accaparra tutta l’etica, sottraendo qualunque legittimità di azione e dignità di pensiero a chi dissente. I dissenzienti, infatti, necessariamente devono essere amici dei massacratori della pulizia etnica, in qualche modo loro complici, o almeno nel migliore dei casi utili idioti. Quando la guerra diventa etica non vi è scampo alcuno: se vuoi essere etico devi sostenere quella guerra, altrimenti sei contro i diritti umani.
Con il sequestro dell’etica, la forza pretende per sé la rispettabilità e la pulizia morale propria di questa altissima qualità dell’agire umano. La ostenta come il movente, l’unico movente per la messa in moto ed il funzionamento della raffinatissima macchina bellica. Così le ragioni vere dell’azione militare sono nascoste sotto il grande manto della rispettabilità pretesa. È vero, a volte succede che un colpo divento alzi un lembo del mantello, lasciando intravvedere ben altro. Ma poi l’ideologia etica riprende velocemente il sopravvento azionando ripetitori fedeli in grado di fugare qualsiasi ombra di dubbio.
Questa commistione tra etica e forza, la confusione tra bene e male ha effetti devastanti sull’animo umano. È una spirale che induce ad entrare in uno stato confusionale, ad una situazione di caos del pensiero. E quindi ad una dipendenza, ad una forma di stupidità per dirla con le parole di Bonhoeffer.
Un po’ alla volta quello che prima destava indignazione diventa normale, anzi doveroso. Accade un po’ come nel racconto della rana bollita. Se non si reagisce subito si è condannati ad essere omologati alla temperatura dell’ambiente.
“La rana, messa in un recipiente d’acqua bollente, immediatamente balza fuori. Se invece l’acqua è a temperatura ambiente, la rana resta calma, senza manifestare alcun tentativo di fuga. Ora, se il recipiente è posto su una fonte di calore e la temperatura viene lentamente aumentata, dapprima la rana non reagisce e anzi mostra di gradire il tepore dell’acqua. Col crescere del calore, l’animale diviene sempre più confuso, frastornato e debole, tanto da non poter compiere il facile balzo che lo salverebbe. La rana resta ferma e finisce bollita. Il suo apparato percettivo è programmato per rilevare cambiamenti improvvisi di ambiente, non modificazioni lente e graduali” (Senge, Disturbi dell’apprendimento, 1990).
All’inizio parlavo del senso di angoscia e di impotenza vissuto e riscontrato anche in altri. Quasi una paralisi del pensiero a fronte del dominio della forza.
Lentamente si è fatto luce un orientamento che ha trovato una felicissima espressione in un pensiero di Simone Weil, riportato all’inizio dell’incontro di Viareggio:
«Si dice spesso che la forza è impotente a dominare il pensiero: ma perché questo sia vero, occorre che vi sia il pensiero.
Là dove le opinioni irragionevoli tengono il luogo delle idee, la forza può tutto.
È assolutamente ingiusto, ad esempio, dire che il fascismo annienta il libero pensiero: in realtà è l’assenza di libero pensiero che rende possibile l’imposizione con la forza di dottrine ufficiali interamente sprovviste di significato.
Per la verità, un regime del genere riesce ad accreditare ancora considerevolmente l’imbestiamento generale, e c’è poca speranza per le generazioni che saranno cresciute nelle condizioni da esso determinate» (Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Adelphi).
Lavorando in un gruppo di persone di varia estrazione culturale, che si è dato come nome Sentieri di pace. Ricerca di gruppo come autoformazione, un mio amico ha così inquadrato la situazione: noi non abbiamo nessuna possibilità di contrastare direttamente gli eventi a cui stiamo assistendo, il nostro ambito di azione è quello della vita concreta e reale che facciamo. È a questo livello di tessuto relazionale che possiamo attestarci nelle nostre convinzioni, indurre delle modificazioni, elaborare parole e messaggi da consegnare ai nostri figli.
Creare spazi sociali che favoriscano l’esercizio del pensiero, della riflessione critica e del ritrovarsi tra umani forse oggi è diventato presupposto non superfluo per non cadere preda di quello che è stato chiamato “l’imbarbarimento del borghese” e per poter sperare in una possibile azione efficace.
Roberto Fiorini
«La guerra in Kossovo ha cambiato il mondo. In mesi di devastazioni materiali ed umane è stato messo in campo non solo un formidabile dispositivo militare ma un incredibile apparato ideologico e mediatico volto ad occultare la realtà delle cose e a creare, in particolare nei paesi europei, un consenso attivo da parte della cosiddetta “opinione pubblica”.
La realtà è però sotto gli occhi di tutti e gli avvenimenti di questi giorni non fanno altro che confermare ciò che noi, con gran parte del movimento pacifista, avevamo previsto sin dall’inizio: si stanno creando le basi politiche, economiche e militari per la separazione del Kossovo dalla Jugoslavia, per la deportazione di tutte le minoranze non albanesi (innanzitutto serbi e rom), per la creazione di un’immensa base Usa nel cuore dei Balcani al fine, tra gli altri, di continuare nell’opera d destabilizzazione dell’area e di porre sotto controllo una delle vie di approvvigionamento energetico dell’Europa o di scambio con la Russia.