“«Ama il tuo sogno se pur ti tormenta»:
passione della libertà / obbligo della liberazione”
Incontro nazionale PO / Viareggio, 30 aprile – 2 maggio 1999
Interventi
Questo intervento riassume alcuni dei principali “risultati” di un anno di lavoro dei PO piemontesi, che si ritrovano regolarmente ogni mese.
Abbiamo volutamente cercato di approfondire gli aspetti etici, ben convinti che ogni dichiarazione di diritto e ogni atto politico senza fondazione etica appare estremamente povero di contenuto e può ridursi a puro risultato di un rapporto di forza: sappiamo molto bene che nei rapporti di forza non vince colui “che ha ragione”, ma colui che vince impone le sue “ragioni”, anche quando sono contrarie a ogni rispetto dei valori dell’uomo. La arroganza che ha scatenato la guerra nei Balcani ne è esempio eloquente.
L’impegno etico invece esprime la capacità di imporsi delle norme valide sia per il comportamento individuale che per quello politico.
Per non scadere in un discorso del tutto astratto e astorico è necessario anzitutto contestualizzare le nostre riflessioni. Solo in riferimento a precise situazioni storiche e ad altrettanto precise esperienze personali e collettive prendono senso termini quali “liberazione” e “libertà”. Forse nella nostra esistenza non possiamo mai parlare di “libertà” in assoluto, quanto piuttosto di un continuo processo di liberazione, in risposta alle concrete situazioni storiche.
Voglio personalmente esemplificare attraverso la mia esperienza con i giovani detenuti del carcere minorile con cui trascorro ogni giorno tre ore di lavoro e di dialogo. Essi tendono naturalmente a vedere nel giorno dell’uscita dal carcere il giorno della “libertà riacquistata”. Non è facile far intendere loro che “quel giorno” è soltanto l’inizio di un nuovo momento della loro esistenza, nel quale dovranno verificare la propria capacità di vivere liberi, responsabili dei propri atti, nel rispetto di norme che tendono a garantire la libertà e l’incolumità di ogni cittadino. Non è sufficiente uscire dal carcere per “essere liberi”…
1. Il contesto in cui siamo “chiamati a libertà”
L’oggi in cui siamo chiamati a vivere libertà e liberazione pare lasciare sempre meno spazi a chi non si adegua a decisioni che non solo non condivide, ma che sono state prese al di fuori e al di sopra di ogni possibilità di “partecipazione”. Viviamo in democrazie fortemente manipolate, non solo da gruppi di potere interni alle singole nazioni, ma da potentissime organizzazioni che agiscono a livello “planetario”.
È ormai banale ripetere che viviamo in un mondo “globalizzato”. È necessario entrare più in profondità in un fenomeno che altro non è se non il risultato dello sviluppo di rapporti sempre più intensi e veloci reso possibile dalla “comunicazione in tempo reale”. In quanto tale la “globalizzazione” non è definibile in termini etici: è un processo umano che apre a nuove prospettive e suscita inevitabilmente nuove problematiche. Potrebbero essere prospettive di grandi solidarietà, di confronto e di scambio di esperienze.
Come ogni processo umano partecipa dell’ambiguità di una umanità segnata dal peccato. È un processo in cui si è ancora chiamati a lottare contro la disumaniz-zazione, lo sfruttamento, l’oppressione, sapendo che, come possono essere “globalizzati” gli elementi di disumanizzazione, così può essere globalizzata la lotta e la resistenza.
Oggi si tende a parlare della “globalizzazione” soprattutto come fatto economico, dal momento che è caratterizzata da velocissimi scambi monetari, di cui oltre l’80% sono di puro carattere speculativo e parassitario, dal momento che il denaro non viene spostato per l’acquisizione di merci o servizi, meno ancora per creare occasioni di lavoro, ma per solo lucro derivante dalla speculazione sui cambi e i tassi di interesse, sul valore di titoli di borsa, spesso lievitato proprio da “razionalizzazioni” produttive che si traducono in reali perdite di posti di lavoro. In realtà è un fatto politico: una occupazione dei potere che esautora non solo il singolo cittadino, ma le stesse realtà nazionali: gli “stati nazionali” avevano creduto di risolvere il problema della libera partecipazione dei cittadini attraverso il “suffragio popolare”. Già in questa situazione la “macchina politica” trova modo di manipolare ampiamente la “opinione pubblica” e l’espressione del voto. Ma ormai da decenni le singole economie nazionali di trovano a dover fronteggiare situazioni sempre più gravi: “Si assiste a uno spettacolo insolito: la crescita di potere delle imprese a livello planetario, di fronte alla quale i contropoteri tradizionali (stato, partiti, sindacati) appaiono sempre più impotenti” (Le Monde Diplomatique, giugno ’98).
Il liberismo ideologico e pratico, sempre più povero di cultura umanistica, ripiegato sulla semplice giustificazione a ogni costo di ogni arricchimento, che nega ogni vincolo etico e giuridico ai processi economici, si presenta come un fenomeno sempre più accelerato e incontrollato: ciò rende sempre più difficile il controllo delle economie degli stati e rende sempre più impossibile “far quadrare il circolo: ricerca di benessere economico – coesione sociale – libertà politica”.
Ne deriva necessariamente la sensazione (e non solo la sensazione) di essere sempre meno liberi, con le conseguenze che tali situazioni comportano: sfiducia e rassegnazione alla dipendenza, diffusa deresponsabilizzazione, ecc…
Ancora pare possibile citare come esempio l’assurda guerra balcanica, con i suoi scopi non denunciati, ma ben palesi, di umiliazione di una “Europa Unita” che si è dimostrata del tutto incapace di proporre e far valere una propria politica all’interno della NATO: una umiliazione anche “economica” che si manifesta chiaramente nell’incremento continuo del valore del dollaro rispetto all’euro, a partire dai primi giorni dei bombardamenti. Sul piano economico e delle strategie di potere internazionale appare quindi come una vera “guerra all’Europa”: una “guerra” che da tempo l’America del Nord già conduce sul piano del commercio internazionale della frutta e delle carni.
2. Per individuare proposte di liberazione
Esistono ancora possibilità di reagire? Un economista americano di “anima liberal” Paul Samuelson, scriveva recentemente (15/10/98): “la sfida decisiva del prossimo secolo si giocherà proprio sulla necessità di trovare un giusto equilibrio tra la libertà individuale e la responsabilità sociale”, facendo eco in questo al Premio Nobel 98 per l’economia, Amartya Kumar Sen, il quale parla di “libertà individuale come impegno sociale”.
I primi spazi possibili per reagire e continuare una lotta per autentiche liberazioni si offrono proprio sul piano della assunzione di responsabilità: quello che è sempre stato basilare per ogni affermazione di libertà. In questo senso si è orientata la “pedagogia degli oppressi” di Paulo Freire: far crescere persone “responsabili”, capaci di assumere in proprio strategie e iniziative di lotta.
Si rimane deboli, quando tutto viene ridotto a una “rivendicazione di diritti”: si rischia di correre dietro agli eventi, conducendo battaglie di retroguardia.
Può essere significativo richiamare alcuni concetti che non sono affatto “nuovi”, ma che richiamano pur sempre a una maggior proprietà di linguaggio a proposito di “libertà”:
a) “libertà da…”: dalla schiavitù, dallo sfruttamento, dalla fame, dalle vessazioni autoritarie, dalle pressioni dei “media”, ecc… È lunga la catena delle realtà che possono dimostrarsi oppressive, pur sotto l’apparenza degli apparati democratici formali: è pure una catena che tende a rinnovarsi con il mutare delle situazioni. È in fondo la libertà dei “diritti rivendicati”, priva di forza innovativa. Ciò non significa che non debba essere ricercata: è vera libertà o, meglio, vera condizione di esercizio di libertà.
b) “libertà di…”: di agire secondo le proprie convinzioni, di partecipare alla vita politica, sociale ed economica con proprie proposte e iniziative; di accrescere il proprio bagaglio culturale e il proprio patrimonio di capacità di dialogo e di libero rapporto con le culture “altre”, in particolare con quell’Altro che viene spesso negato proprio per la sua “alterità” (immigrato, nomade, portatore di handicap fisico o mentale, ecc…); di costruire il proprio spazio di libertà contribuendo a far crescere il livello delle libertà di tutti, compresi coloro che ci sono “contro”!
Non dimentichiamo che sono queste le libertà più difficili: sono quelle che vengono negate in modi più recisi e per prime: “non avete le competenze per occuparvi di queste cose…”. Senza contare il solito ricatto: “prima dei diritti vengono i doveri”! Una concezione dinamica della liberazione che abbina alla coscienza dei bisogni e dei diritti la coscienza di ciò che in prima persona è possibile fare per ottenerne la soddisfazione smonta all’origine un ricatto del genere, frutto di false e forse non del tutto disinteressate contrapposizioni.
c) “libertà per…”: per realizzare progetti di comunione e di socialità; per “donarsi e donare” nella gratuità più totale, non in una prospettiva di “volontariato” assistenziale o di supplenza a carenze politiche, ma nella prospettiva del pieno coinvolgimento personale che non accetta manipolazioni o limiti.
È un tema su cui molto ha saputo esprimere il filosofo ebreo Lévinas, pur nella ermeticità del suo linguaggio: la libertà dell’Altro (scritto sempre con la maiuscola), i suoi bisogni, le sue esigenze, anche le più “materiali” costituiscono, per chi lo incontra un vero imperativo morale. L’uomo, essenzialmente, è un “essere per…”.
Questa libertà spesso non viene compresa, se tutto si riduce al livello dei “diritti”; una rivendicazione di questa libertà è ben difficile a trovarsi; diventa difficile farla accogliere come vera libertà, dal momento che costringe a uscire dal chiuso di se stessi per riscoprire e assumere le proprie responsabilità. In definitiva costituisce una vera e propria proposta di fede: una vera “sequela” nei confronti del Crocefisso: “Chi vuol venire dietro di me, prenda la sua croce…”. La “croce” dell’impegno, del pagare di persona, del non fermarsi di fronte ad alcun ostacolo.
Comporta una capacità di lotta e di azione libera da calcoli secondari; che non sta neppure a contare quanti “ci seguono” o ci contrastano: il ‘lievito” è sempre “poca cosa”…