Sono le ultime ore del 2001. È tempo di veglioni nei quali si sta svegli per divertirsi e dimenticare.
Di un altro tipo di veglia la fede biblica custodisce la memoria. Un invito pressante, ricorrente nella Bibbia e in particolare nei Vangeli, è, infatti, quello di essere vigilanti. Vigilanza carica di attesa e di speranza. Uno degli aspetti che la qualifica è il saper discernere il tempo, quello della quotidianità e quello che si esprime in eventi che connotano un’epoca. Un rimprovero severo, messo sulle labbra di Gesù, così risuona: “perché sapete conoscere il tempo meteorologico, se sarà sereno o verrà la pioggia, e non sapete discernere da voi stessi ciò che è giusto?”.
L’elemento determinante è “ciò che è giusto” nei tempi e nella storia: nel sacrario della coscienza e, contestualmente, nella esteriorità e materialità che connota la concretezza della vita umana. Nella Bibbia la stella polare che tutto deve guidare – il discernimento come giudizio critico, le parole da dire e le azioni da compiere – si concretizza in “ciò che è giusto”. Di fronte a questo non è possibile chiamarsi fuori dichiarando la propria incompetenza o estraneità. Dio stesso veglia perché la bussola di “ciò che è giusto” non vada perduta e chiama a non essere preda del sonno e a vietarsi la fuga nella illusione.
Vegliare vuol dire stare svegli, esercitare una vigilanza che è un continuo riprendere coscienza di quanto mi accade e di quanto succede nel mondo. Vegliare è esercitare uno sguardo di amore alla vita, al nostro mondo ed ai suoi abitanti, soprattutto quando il potere della morte sembra tutto travolgere.
Un esempio di vigilanza amorosa la troviamo nel messaggio che la presidente dell’associazione delle donne afgane ad Amburgo ha inviato a Bush:
“Noi donne diamo la vita, per noi è la cosa più importante. La vita di ogni essere umano. Portiamo il lutto per i morti del Suo popolo, signor Presidente. Il lutto per il nostro popolo non trova tregua.
Signor Presidente, lasci sopravvivere i nostri bambini, le nostre sorelle e i nostri vecchi. La vita è la sola cosa che possiedono. Non permetta che si bombardi la popolazione civile. Le bombe sono cieche. Cieche come i terroristi”.
La risposta al messaggio sappiamo quale è stata: l’uso delle bombe a grappolo, che per esperienza consolidata mietono vittime soprattutto tra i civili; colorate di giallo, dello stesso colore dei sacchetti di alimenti sganciati dagli stessi aerei, quale “aiuto umanitario”!
Anche stasera al telegiornale hanno detto che in Afghanistan continuano i bombardamenti aerei. Non si capisce che cosa ci sia ancora da bombardare. Dicono che stanno cercando il mullah Omar e lo sceicco Osama e allora bombardano. Tra le macerie si vede la scarpa di un bambino. Della guerra non si è visto quasi nulla. Del resto era stato preannunciato che essa sarebbe stata nuova e segreta. La CNN si autocensura e i giornalisti sono tenuti alla larga. Tuttavia non è possibile oscurare del tutto i “danni collaterali”: parola cinica e oscena con la quale si indicano le vite umane innocenti annientate e le strutture che servono a vivere distrutte dalle bombe.
Il presidente del nuovo governo afghano ha chiesto di porre fine ai bombardamenti aerei sulle popolazioni della sua terra, ma il Pentagono ha risposto che essi proseguiranno finché gli obiettivi non saranno stati raggiunti. Così i “danni collaterali” continueranno con metodica regolarità. La guerra ha le sue regole. Essa è regola a se stessa. “La potenza non necessita una giustificazione al di fuori di se stessa: essa è scopo e non solo mezzo. Già Kant, due secoli fa, scriveva: “la guerra non ha bisogno di alcun motivo particolare, il prestigio che essa apporta al vincitore è sufficiente… La potenza deve mostrarsi potente”. Il comandante supremo delle forze alleate in Kosovo Wensley Clark dichiarava alla fine delle ostilità: “Una volta che si è superata la soglia del ricorso alla forza militare, bisogna utilizzarla in modo tanto possibile quanto decisivo per raggiungere l’obiettivo”.
Negli Stati Uniti si erano levate voci anche autorevoli nel tentativo di orientare una risposta alla sfida lanciata l’11 settembre non basata sull’ottusità della forza delle armi. Una risposta che, introducendo una discontinuità, rompesse la routine della “guerra perpetua per una pace perpetua”. Invece, di nuovo, viene riconfermato che potenza e prestigio sono i demoni che guidano le mosse: supreme irrealtà rispetto alla concretezza della vita umana nel suo nascere, vivere e morire che avviene in ogni essere umano. Come al solito la loro azione si esercita a più livelli. Ciò che incatena, sottraendo agli esseri umani l’autonomia e la dignità profonda, è “legione” cioè pluralità che concorre a “demonizzare” la vita e le relazioni umane sotto la spirale meccanica della potenza e del prestigio.
Le considerazioni che seguono si propongono di manifestare il nostro vegliare con la parola ed il pensiero in questo momento storico oscuro ed angosciante.
Dove sta la parola vera
È difficile cucire parole sensate, capaci di svelare, almeno un po’, la tragedia “globalizzata” che sta vivendo il genere umano. Immagini e parole sono preda della propaganda: siamo immersi in una sequenza di bollettini di guerra, più o meno intelligenti o sfacciati. Si sente lontano un miglio che l’informazione è truccata, che la verità delle cose è altrove. Alcuni fotogrammi sono ossessivamente riprodotti, diventano essi soli l’ombelico della “verità” presentata. Quello che non conviene è occultato, “desaparecido” per sempre.
“Una delle prime vittime della guerra è la verità. Le guerre moderne sono ingaggiate nei campi di battaglia, ma anche soprattutto nei mezzi di comunicazione sociale. La menzogna e la manipolazione della verità, la demonizzazione dell’avversario e l’intossicazione della popolazione con desideri di vendetta e di odio, rendono difficile il negoziato…”.
Le parole, per poter pretendere un po’ di verità, dovrebbero uscire dal silenzio, nascere da una interruzione, essere eco di grida che, invece, si perdono nel deserto.
Sulla cattedra devono salire le vittime, non i piazzisti che le vendono come mercanzia per trarre profitto dall’ultima loro goccia di sangue.
Le vittime, dunque. Nella nudità del loro essere tali. Carne di una umanità annientata e distrutta. Nella loro uguaglianza e nobiltà nativa, prima che intervengano gli interessi di ogni tipo a stabilirne le classificazioni, i diritti di precedenza e di appartenenza.
Se si deve parlare di diritti umani – non è questa la bandiera che sventola l’occidente? – partiamo allora dai diritti delle vittime, dal diritto della loro umanità offesa.
Mettiamole insieme tutte in fila. Iniziamo pure da quelle delle Tween towers, con tutto il carico di orrore e disperazione e di morte.
Però subito allineiamo le altre. Già, tutte le altre.
Da dove partiamo? Dai bambini irakeni che da 10 anni muoiono per l’embargo occidentale dei medicinali? Dai milioni di morti di fame, non perché la natura sia matrigna, ma per gli abissali squilibri dei rapporti economici? Dalle vittime dei bombardamenti scatenati sul paese islamico più povero “per combattere il terrorismo” e dalle masse umane afgane fuggite chi sa dove verso l’inverno, attraverso campi minati… L’elenco può continuare…
Queste vittime sono invisibili, cioè inesistenti. Se è un crimine contro l’umanità uccidere gente che lavora per colpire il simbolo mondiale del potere economico, è identico crimine quello che continua ad essere perpetrato contro innocenti che vengono bombardati.
Questa prima parola serve a sollevare il velo della ipocrisia che vuole ammantare di eticità e di “umanità” una guerra il cui bersaglio passa inevitabilmente attraverso la popolazione civile. Il grido e il lamento della popolazione martoriata che noi non possiamo udire rappresentano la verità nella sua nudità ed infermità. Tutte le parole che “prescindono” da questa dimensione profondamente umana della verità, o intenzionalmente la oscurano, sono avvelenate, inducono una intossicazione collettiva delle menti e dei cuori.
Nelle tragedie greche la proclamazione della verità di quanto si stava svolgendo era affidata al coro, perché i protagonisti della scena erano in qualche modo preda di una cecità che li rendeva ottusi rispetto agli eventi di cui erano i soggetti. Shakespeare affida la verità ai buffoni di corte. Solo loro vedono il reale e solo loro, proprio perché buffoni, hanno la libertà di dire quello che agli altri è interdetto, per interesse, per paura di ritorsioni, per oscuramento del cuore, per complicità.
Nella Bibbia spesso la verità profonda delle cose è affidata al grido che, nella sua forma più matura, diventa lamentazione, protesta e invocazione. In mezzo al frastuono degli eventi storici si dice che Dio ode il grido degli oppressi, identificati con coloro cui sono negati i diritti di vita, espressi dalle tre figure dell’orfano, la vedova e lo straniero. Anche se l’inerzia della storia, dominata dai rapporti di forza, mille volte ha travolto i più deboli, paradossalmente proprio dalle loro labbra esce il grido più vero della creatura che anela ad un senso del vivere umano che viene negato, represso ed annientato.
Non in nome di Dio (e neanche in nome nostro)
Il rito della guerra prevede che Dio venga tirato in ballo. Naturalmente il pensiero corre al fondamentalismo islamico che ha conosciuto un notevole sviluppo in questi ultimi decenni. Su questo bastino le parole di Tahar Ben Jelloun, di origine marocchina, che ha recentemente pubblicato in Italia “L’Islam spiegato ai nostri figli”. In un’intervista al Corriere della sera, richiesto su quello che pensa dei Talebani, risponde: “sono musulmani, ma non rispettano la Parola di Dio e del profeta Maometto. Sono pazzi, pericolosi, ignoranti e barbari. L’Islam ha le sue malattie, ma non tutto l’Islam ha il cancro… Il terrorismo proviene da un Islam insegnato con odio e malevolenza. Agli adolescenti non è stata detta la verità su Allah e sul Profeta”.
Conviene soffermarsi pure sul divino evocato nella cultura secolarizzata e occidentale.
“Libertà duratura” è il nome dato alla guerra che, nel momento in cui scriviamo, si continua a combattere in Afghanistan. Tuttavia questo è un nome di seconda o terza mano. Quello coniato per primo conteneva una pretesa che va ben aldilà di quello narrato nella mitologia greca a proposito di Prometeo, che ruba il fuoco agli dei. “Giustizia infinita” era il nome originale, poi modificato, così è stato detto, per non avere ostacoli diplomatici con i paesi islamici moderati. Esso evoca uno sforamento, un aldilà di quello che è umanamente concepibile. Da un lato l’aggettivo “infinito” indica che non vi sono più confini, né di tempo né di spazio né di numero. Dall’altro, il temine “giustizia”, così qualificato, afferma una pretesa sovrumana, trascendente, assoluta, che appartiene al solo ambito del divino. Un tale nome dato ad una guerra, a questa guerra, rappresenta una infinita follia. Gli antichi Greci dicevano che la dismisura si trascina sempre dietro la Nemesi! Nessuna invocazione di benedizione divina (God bless America) può redimere una guerra che si propone senza misura.
Questo trova periodica conferma negli appelli che il presidente americano fa, quando parla, usando un linguaggio metafisico, della lotta del bene contro il male. Lo stesso faceva Reagan contro l’impero del male di allora, che era l’URSS; poi papà Bush contro il Rais irakeno ed ora…
La pretesa di incorporare tutto il bene, identificando l’altro come male, è quanto di più idolatrico si possa immaginare, perché per principio rifiuta anche il minimo riconoscimento del proprio male e delle proprie responsabilità oggettive. Anche in ordine alla lunga crisi afghana.
No, non c’è nessun Dio in questa guerra. Quel dio con l’elmetto è scimmia della verità, è il grande animale truccato con abiti divini. Ci sono solo scenari apocalittici ed infernali. Da qui non nasce nessuna speranza. Forse mai come in questo momento trovano piena attualità le parole di S. Weil: “Viviamo un’epoca priva di avvenire. L’attesa di ciò che verrà non è più speranza, ma angoscia”.
In una sequenza del film “Viaggio a Kandahar”, vi è un dialogo molto bello tra la protagonista e il medico americano di colore che era diventato tale dopo aver combattuto come soldato successivamente a fianco di due etnie tra loro avversarie. “Perché sei venuto qui in Afghanistan?”. “Per incontrare Dio… Poi un giorno ho visto due bambini feriti, uno accanto all’altro, appartenenti a due gruppi etnici tra loro nemici, e allora ho cominciato a fare il medico…”.
Vegliare in questo tempo
Vi sono i bombardamenti che avvengono in Afghanistan; e ci sono bombardamenti mediatici e politici che succedono qui e nelle varie parti del mondo.
L’obiettivo è raggiungere l’unanimità: tutti devono parlare la stessa lingua. Chi dissente è indiziato. Chi pone interrogativi è un disfattista.
Quello che si pretende è che tutti consentano nel dire che questa guerra è giusta, che è sacrosanta la partecipazione italiana, nonostante quello che dice la costituzione, che i metodi seguiti, cioè i bombardamenti a tappeto non solo degli obiettivi militari, decisi dall’alleato-padrone americano sono il metodo migliore, più sicuro e pulito, per battere il terrorismo, e che questa, e solo questa, è la difesa della libertà e del bene contro la barbarie e il male. Gli effetti si vedono nei dibattiti trasformati in stadi dove si deve fare il tifo o in un ring, le cui regole del gioco prevedono che siano solo due i contendenti. Ogni altra pluralità è interdetta. Come in un referendum il copione prevede solo due possibilità: o essere favorevole a questa “guerra infinita”, che per ora si svolge nel teatro afghano ma domani chi sa dove; oppure sei per il terrorismo, anzi, sei un suo fiancheggiatore e forse più, perché vai in piazza… O sei americano (“siamo tutti americani”!) o sei affetto di antiamericanismo. Non è previsto dal canovaccio che uno possa essere contro la politica economica e militare statunitense e vivere un sincero cordoglio per l’angoscia ed il lutto che ha investito tanti di loro, vittime di una strage di massa.
La “guerra” provoca una intossicazione generale che entra nei circuiti della vita e del lavoro, nei rapporti umani e nella convivenza. Questa tossicosi radicalizza le patologie ed i problemi già presenti, induce un degrado nel tessuto sociale. La grande ipocrisia legittima i metodi bellici applicati alla vita quotidiana. La legge del più forte viene avvalorata come metodo di ordine.
La miscela che esplode nelle teste è questa: chi possiede la forza ha dalla sua anche la ragione e quindi la giustizia, o almeno la giustificazione. I mezzi per farsi valere equivalgono al diritto di usarli. Una ragione senza forza non serve a niente, anzi, è colpevole. Chi ha la forza detta il diritto.
La guerra “semplifica” tutto. La riduzione della realtà al dominio della forza ed alla sua logica toglie lo spazio al pensiero ed ai colori, nonché alla possibilità di esprimere parole che pretendano di sottrarsi al campo circoscritto ed imposto dall’evento bellico. Per questo è necessario scontrarsi con questo ostacolo, se sta a cuore la conoscenza della realtà, evitando la fuga nell’oblio e nel sogno. S. Weil scriveva nel 1942 all’amico J. Bousquet, invalido della grande guerra: “la realtà della guerra è la realtà più preziosa da conoscere, perché la guerra è l’irrealtà stessa. Conoscere la realtà della guerra significa… cogliere l’unità dei contrari, giungere alla conoscenza del reale”. Significa cioè vedere la congiunzione tra l’applicazione della forza bellica, con tutta la sua logica distruttiva, e l’immensa infelicità umana che essa produce. È noto che noi fuggiamo l’infelicità come gli animali fuggono il fuoco. Lo sguardo vaga altrove, incapace di fissarla. Anche chi l’ha conosciuta nella propria carne cerca disperatamente l’oblio. Eppure l’infelicità è la sola realtà della guerra: esseri umani ridotti a puro oggetto di distruzione, a “effetti collaterali”, oppure esseri umani ridotti a oggetti che distruggono. “La guerra e le sue vittime sono la stessa cosa, il resto sono solo dollari che si muovono tra le banche” (Gino Strada).
Prescindere dall’infelicità prodotta dalla guerra vuol dire condannarsi ad essere preda della irrealtà. Moltissimi discorsi sentiti in questi mesi da chi ha il potere di occupare i media manifestano l’assoluta ignoranza della realtà della guerra, perché di tutto si parla, meno dell’infelicità umana che in essa viene prodotta che è la sola cosa assolutamente vera. Così la guerra, per chi non ne è colpito direttamente, resta un gioco di parole, un’astrazione, un tifo, una dialettica verbale; mentre per chi ha in mano le leve del potere è una occasione d’oro, da procurarsi o da cogliere, per estendere la dimensione bellica ai conflitti sociali e politici operando dei giri di vite tesi a restringere gli spazi sociali di agibilità partecipativa e di democrazia sostanziale all’interno di singoli stati, per imporre più facilmente oneri economici e la riduzione di diritti che si pensavano acquisiti.
Questa guerra, che si vuole all’altezza di un mondo globalizzato, va ad aggiungersi a quello che rimane il crimine fondamentale contro il genere umano, che consiste nell’abissale squilibrio organizzato, teorizzato e sostenuto con la potenza delle armi, che condanna alla perenne insufficienza di beni minimi vitali una grandissima parte di umanità. Questo crimine continua a consumarsi senza che si profili all’orizzonte l’alba di un giorno nuovo. I mezzi ci sono. Non sono mai stati tanto imponenti e abbondanti come in questi ultimi decenni. Mai tanto sperpero è avvenuto. La loro concentrazione e il loro controllo sono nelle mani di pochi. Una immensa infelicità di una umanità ridotta a puro oggetto pesa come un macigno sul mondo. Questo ordine mondiale si vuole mantenere promuovere e custodire in nome della civiltà e della libertà!.
Esso è chiaramente connotato da un male essenziale:
“Il male essenziale dell’umanità (è) la sostituzione dei mezzi ai fini… È questo rovesciamento del rapporto tra il mezzo e il fine, è questa follia fondamentale che rende conto di tutto ciò che vi è d’insensato e di sanguinoso nel corso della storia. La storia dell’umanità viene a coincidere con la storia dell’asservimento che fa degli uomini, oppressi e oppressori, il puro zimbello degli strumenti di dominio che essi stessi fabbricano, e riduce così l’umanità vivente a essere cose tra le cose inerti” .
Rimanere svegli sul “ciò che è giusto” significa mantenere vivo quel criterio, che troviamo enunciato nel Vangelo, dell’albero e dei suoi frutti. Sono questi che testimoniano della bontà dell’albero e della sua vera natura. Lo smarrimento dell’orientamento alla giustizia e al bene universale degli umani, sacrificati al “peso” dei mezzi ed alla corsa sfrenata per il loro controllo – questi occupano tutto lo spazio del valore delle cose – equivale a perdere la capacità del gusto a valutare la bontà dei frutti e, quindi, anche a discernere la qualità dell’albero che li produce. È questa la crisi profonda nella quale si dibatte la nostra “civiltà superiore”.
Un breve flash su quanto sta accadendo in Italia
Che vuol dire restare svegli e vegliare a casa nostra? Innanzitutto cercare più di prima di dare respiro al pensiero, alla comprensione della realtà, rifiutandosi di rinunciare al senso critico e di accettare come misura delle cose la legge del più forte. Vuol dire mantenere la barra della mente e del cuore orientata al discernimento di ciò che “è giusto” nel concreto.
Ed è proprio sul “ciò che è giusto” che è in atto un oscuramento profondo. Il potere forte che si è installato con il voto popolare vuole chiaramente determinare da sé e per sé “ciò che è giusto” ed esserne il padrone. È il dominio della forza che rivendica l’ultima parola sul diritto in termini di assoluto privilegio: quello di non essere giudicato da nessuno perché a nessuno è tenuto a rispondere, quello di essere “a priori” non giudicabile per pretesa impunità. È l’indecente arroganza padro-nale di collocare ai propri piedi lo stato di diritto, usando e sovvertendo le sue stesse regole, e creandone di nuove, funzionali alla rivendicazione del privilegio.
Contestualmente si erodono alla radice, con l’applicazione sistematica del fondamentalismo neoliberista, i diritti, costati decenni di lotte, che riguardano i bisogni essenziali e la dignità degli esseri umani nel lavoro, nella salute, nei tre soldi che servono per vivere decentemente gli ultimi anni della vita. Il privilegio che si struttura e si estende richiede come condizione, e provoca come conseguenza, l’appesantirsi dell’oppressione sociale: dalle condizioni materiali alla dimensione psicologica e spirituale. I redditi più alti ricevono nuovi vantaggi, quelli più bassi vengono tagliati.
Le manovre che hanno per oggetto le pensioni, la libertà di licenziare, l’intensificazione della flessibilità, la riduzione delle tutele sanitarie, i risparmi sul costo del lavoro, puntano tutte alla erosione sistematica delle garanzie collettive che, ovviamente, interessano le classi sociali più deboli. I risultati di queste operazioni conducono inesorabilmente all’aumento della condizione di precarietà ed insicurezza nella vita delle persone. Nella disumanità di una guerra che pesa come un macigno sull’umanità, si acutizza anche questa “lotta di classe” condotta contro la parte meno protetta della popolazione verso nuove forme di schiavitù e di totale sottomissione.
È un momento storico duro quello che stiamo vivendo. Un motivo in più per amare la vita e questo mondo ferito, non lasciando le ragioni a cui è legato il senso e la bellezza della vita umana alla retorica ed alla propaganda dei responsabili della loro distruzione. È questa la “lotta come amore” da sostenere con forza, per vegliare nel tempo con la lampada che illumina ciò che è giusto nella concretezza di questa unica vita.
Post Scriptum
Nel messaggio finale del sinodo dei Vescovi tenuto in Vaticano nel mese di ottobre vi sono 4 righe riferite all’atto terroristico dell’11 settembre, non vi è una sola parola sulla risposta bellica americana in Afghanistan. Una afasia impressionante (ADISTA 78/2001).
Non è stato, invece, afasico il card. Ruini aprendo i lavori del Consiglio permanente della CEI il 24 settembre scorso nel quale, unendosi al coro generale, dava un sostanziale avallo etico alla lunga guerra promessa da Bush e qualificando come “pseudo-moralismo” l’atteggiamento etico e culturale che “tende a vedere negli Stati Uniti la causa e la sintesi dei mali del mondo” (ADISTA 69/2001).
In questo quaderno riportiamo una parte dell’omelia tenuta in S. Ambrogio dal card. Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, pubblicata con il titolo “Le nostre complicità con l’ingiustizia” dal quotidiano “La Repubblica” del 7 dicembre scorso.
Per quanto ci riguarda, condividiamo in pieno un documento di pastori cattolici e protestanti dell’America Latina del quale riportiamo alcuni passaggi (ADISTA 69/2001):
«Condanniamo ogni e qualsiasi atto terroristico, come quelli dell’11 settembre scorso che hanno suscitato rifiuto e costernazione universali per la loro follia e per le migliaia di vittime che hanno provocato, anche tra i gruppi di soccorso. Si è udito, da ogni parte, un grande clamore per la giustizia seguito da gesti di compassione e solidarietà con le vittime e i loro familiari.
Per altro lato, l’indebita trasformazione di questa richiesta di giustizia in atti di vendetta e di rappresaglia, con bombardamenti aerei contro l’Afghanistan, è ugualmente terrorismo , praticato, ora, da governi che si presentano come democratici, civili, cristiani.
I bombardamenti stanno provocando innumerevoli vittime innocenti, compresi donne, bambini e anziani, la distruzione dell’infrastruttura, l’aumento della fame e della disperazione, l’aggravamento della situazione sanitaria, gettando sulla strada milioni di rifugiati. Si è incentivata, deliberatamente, una recrudescenza della guerra civile tra fazioni politiche rivali, con rinnovate sofferenze della popolazione (…)
La prolungata indifferenza internazionale di fronte a situazioni di disumana miseria che colpiscono una parte maggioritaria e crescente della popolazione mondiale sta lasciando una scia di sofferenza e di morte in tutto il mondo e sta generando risentimenti e rivolte contro i Paesi che impongono questo nuovo ordine internazionale e ne godono i frutti, con l’appoggio di organismi internazionali e delle loro politiche di aggiustamento economico. Queste politiche neoliberiste stanno provocando disastri economici e finanziari in molti Paesi piegati sotto il peso di un debito estero implacabile o colpiti da bruschi movimenti e attacchi alle monete locali da parte del capitale speculativo (…)
Dietro quasi tutte le guerre attuali, si muovono gli interessi delle industrie belliche e la disputa per il dominio dei mercati e per il controllo delle risorse naturali strategiche, come petrolio e gas (…)
A coloro che oggi intendono giustificare la guerra, ricordiamo la ferma parola del Concilio: “Qualunque azione bellica che miri alla distruzione indiscriminata di città intere o di vaste regioni con i loro abitanti è un crimine contro Dio e contro lo stesso uomo, da condannare con fermezza e senza esitazioni» (GS n. 479).