Editoriale
Gesù rivelò cose che solo a noi è dato di capire,
perché solo oggi la misura dell’iniquità ha raggiunto il colmo.
(Ernesto Balducci)
Sventura su coloro che non colsero il sogno
E dalla cui stupidità
Nemmeno la morte li redimerà.
(Paulo Leminski)
Questo numero è in gran parte costituito dai contributi dei partecipanti al nostro incontro di Viareggio tenuto nella primavera scorsa. La tematica è quella espressa dal titolo in copertina: “forza e debolezza dell’ ultimum nelle oppressioni della nostra storia”.
Abbiamo conservato l’espressione ultimum perché ci è sembrata la più appropriata per far emergere la differenza rispetto a tutte le altre parole che sono penultime, in qualche modo alla portata della nostra ragione e delle nostre articolazioni e manipolazioni linguistiche.
L’ ultimum non è l’ultimo della serie e neppure l’ultimo in ordine di tempo. L’ ultimum rappresenta la verità delle cose e della qualità delle decisioni assunte dai soggetti, esprime una interpellanza sistematica che incombe sulle opere e i giorni del vivere umano. La pretesa dell’ ultimum è quella di essere affermazione di giustizia compiuta che non concede l’ultima parola all’iniquità, nonostante tutta la sua forza distruttiva. L’ ultimum è quello che dichiara l’affidabilità della vita e la sua fondamentale bontà; è qualcosa che non si spegne mai, che risorge sempre a dispetto delle tragedie e dei lutti di cui è piena la storia. Non appartiene alle entità astratte, ma è concreto e veglia accanto al cuore di piccoli e grandi, come appello inevitabile: nessuno può sfuggire alla sua dichiarazione di responsabilità di fronte ai compiti che la vita assegna.
L’ ultimum attraversa come filigrana le pagine della Bibbia nelle quali il mondo e la storia degli umani sono sospesi tra perdizione e salvezza. L’ ultimum si collega con l’ in principio della creazione (Genesi) e addirittura con l’ in principio precedente la creazione (Giovanni) . In mezzo ci sta il frattempo: l’esistenza e la storia degli umani che si svolge tra necessità e libertà, alle prese con il difficile mestiere di vivere e, forse più spesso, di sopravvivere. Le narrazioni bibliche rappresentano una piccola, ma autorevole, esemplarità della vicenda umana globale che avviene in tutti gli angoli della terra. Così pure i due millenni che seguono fino ai nostri giorni, segnati dal dramma e dalla luce di Gesù il Cristo, si snodano verso la difficile coscienza di essere un’unica umanità, di cui nessuna delle singole entità collettive: razze, popoli, stati, imperi, chiese, religioni, può pretenderne la rappresentanza totale.
Oggi più che mai l’umanità e il mondo da noi abitato, oggettivamente partecipi di un destino comune, sono sospesi tra perdizione e salvezza. Nel secolo scorso è giunta a piena maturazione la possibilità tecnica che decisioni umane abbiano il potere reale di fare pollice verso al futuro di vita sul nostro pianeta. Un tale potere distruttivo è ampiamente in azione e i risultati di morte sono sotto lo sguardo di chi ha occhi per vedere. Il progetto di salvare una frazione di umanità a scapito dell’altra parte meno fortunata è un’idea folle. Il costo di questo sistema alla lunga distrugge la vita anche dei “fortunati”, erodendo dall’interno il senso stesso del vivere. La crisi di futuro che mina l’occidente rappresenta una perdita di orientamento, vanamente compensata dalle illusioni della propria forza.
In questo frattempo, in questo tempo difficile, ha senso accogliere il contatto consapevole con l’ ultimum, assumendo il suo carattere apocalittico, che vuol dire la sua capacità rivelativa (apocalisse= rivelazione!) nei confronti della nostra vita storica e della verità della posta in gioco affidata alla nostra responsabilità. La forza dell’ ultimum è tale da sollevarci dal rischio che la nostra capacità di pensare, e quindi di decidere veramente, finisca seppellita sotto il cumulo di immagini, notizie e trucchi che ogni giorno ci assalgono.
La rivelazione dell’ ultimum non è semplicemente l’atto finale di un dramma la cui trama rimane segreta. Per chi ha occhi e orecchie è già presente un disvelamento e riguarda la vita nella sua esteriorità e nel suo apparire ed è percepibile nel grido o nel lamento di miriadi di gruppi umani che hanno bisogno di trovare un posto decente in questo mondo, un fazzoletto di terra per poter esistere. Questi sono luogo privilegiato della rivelazione, icone di un ultimum che non si lascia snervare da nessuna tecnica della comunicazione.
Queste righe si propongono di coniugare brevemente l’ultimum con alcune espressioni chiave che incontriamo nella tradizione biblica. A fronte di un mondo diventato “villaggio globale” esse offrono uno sguardo di insieme teso ad illuminare finalità e senso delle cose. Con questo sguardo, è possibile osservare il mondo e la nostra storia, per mettere a nudo la grande bugia che avvolge il creato nella sua enorme tribolazione e per contribuire a riattivare il principio speranza, quello che ispira pensieri ed azioni davvero liberi e liberanti. Sono alcuni spunti, appena abbozzati, che vanno ad integrare i contributi raccolti nell’incontro di Viareggio.
Mia è la terra
“ La terra appartiene a me, il Signore, e voi sarete come stranieri o come emigranti che abitano nel mio paese ” (Lv. 25,23).
Si racconta che al tempo dei dinosauri un grande meteorite si è abbattuto sulla terra provocando uno sconquasso a seguito del quale i più potenti esseri viventi che abbiano mai calpestato il suolo sono andati incontro all’estinzione. Da qui è partito un altro ciclo di vita.
L’affermazione del Levitico, e molte altre con analogo contenuto se ne potrebbero riportare, sul piano assiologico ha la forza di quel meteorite. Il mondo che emerge dalla tradizione biblica, è quello affidato alla responsabilità ed alla gestione degli esseri umani, non all’arbitrio di un potere che si pretenda illimitato, con facoltà di usarlo ed abusarlo.
Un mondo dove tutto è sottoposto al limite. Guardare al mondo pensando che “la terra è di Dio” ha un effetto ottico straordinario: come le immagini del nostro pianeta “azzurro” che ci vengono rimandate dalle navicelle spaziali. Tutto ciò che appare grande e potente nella scena del mondo viene ridotto in miniatura, alla dimensione lillipuziana.
E tuttavia l’illimitato è in azione. “Sarete come Dio” (Gen, 3,5) è la grande tentazione e caduta che troviamo nelle prime pagine della Bibbia come parabola che interpreta la storia degli umani. La nostra storia. La dismisura, in tutte le sue apparizioni, è il segnale della caduta. La volontà padronale tesa al dominio potenzialmente assoluto, senza spazio per l’alterità.
“Ti darò tutti i regni del mondo” (Mt.4, 8-11): nella tentazione di Gesù si rivela e si esplicita la pagina della Genesi. Soprattutto si svela la trama disperante che puntualmente ricorre nei giorni della storia. Oggi come non mai.
L’illimitato è come la cellula cancerogena. Per nutrirsi ed ingrandirsi deve divorare l’altro. Non c’è inibizione da contatto, come nelle cellule normali. Qui il contatto è regolato dalla forza e si sviluppa con il prosciugamento dell’energia dell’altro. L’illimitato ha il bisogno fisico di nutrirsi dell’altro. O lo assimila, o lo distrugge. Non vi sono vie di mezzo. Questo cancro è una maledizione.
L’illimitatezza nella accumulazione del potere e dei beni, nella loro accezione più larga, il dominio reale delle fonti di ricchezza concentrato nelle mani di pochi, il conseguente impoverimento e riduzione alla miseria dei molti, è una maledizione per tutti.
“Mia è la terra”: la rivendicazione da parte del Dio biblico significa la secca negazione del suo accaparramento padronale. “Mia è la terra” equivale a dire che per ogni essere umano ci deve essere una zolla di terra, una reale possibilità di vita. I beni della terra che nell’impianto biblico rappresentano la benedizione perché sono la vita stessa per gli esseri umani, e quindi sono destinati a diffusione capillare, una volta sottratti all’uso solidale, si rovesciano nel loro contrario diventando occasioni e strumenti di morte.
Le enormi masse umane, dal quarto al primo mondo, “scaricate” dalla politica economica e militare dei “grandi” che vantano diritti su tutte le risorse della terra, condannate a morte o ad una vita sub umana, sono icona reale e vivente dell’ultimum.
Chi ha occhi per vedere e orecchi per sentire può percepire questa realtà.
Ma attenzione: vi è una constatazione amara e minacciosa che come ritornello ricorre nel salmo 38: “ma l’uomo nella prosperità non comprende: è come gli animali che periscono”.
È l’annuncio della possibilità per ciascuno del totale fallimento etico. È la morte etica per indifferenza verso gli altri.
Non si rimane umani quando di fatto si nega ad una parte (grandissima) di umanità di poter fruire dei beni essenziali. Negare agli altri il diritto alla vita coincide con la negazione della propria stessa umanità e, su questa strada, non c’è più limite ai processi di disumanizzazione.
La gestazione di un mondo nuovo
(Rom. 8,19-23)
“ Tutto l’universo aspetta con grande impazienza il momento in cui Dio mostrerà il vero volto dei suoi figli. Il creato è stato condannato a non aver senso, non perché l’abbia voluto, ma a causa di chi ve lo ha trascinato. Vi è però una speranza: anch’esso sarà liberato dal potere della corruzione per partecipare alla libertà della gloria dei figli di Dio. Noi sappiamo che fino ad ora tutto il creato soffre e geme come una donna che partorisce. E non soltanto il creato, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, soffriamo in noi stessi perché aspettiamo che Dio liberandoci totalmente, manifesti che siamo suoi figli”.
Questo testo bellissimo viene definito “la gemma della Bibbia” .
Mi sembra che esso possieda attualità e profondità di insegnamento unici, alla luce delle trasformazioni storiche avvenute in questi ultimi secoli ed anche in presenza di diffusi livelli di coscienza. Dai tempi di Paolo ad oggi, a partire dall’occidente, si è verificata una radicale trasformazione, della relazione tra uomo e natura. Da una condizione umana caratterizzata dalla dipendenza praticamente completa (alimentazione, lavoro, ritmi di vita, universi simbolici, espressioni religiose) si è passati ad un dominio sempre più ampio fino a considerare il mondo esclusivamente come qualcosa che l’uomo può utilizzare ai propri scopi. L’associazione sapere/potere e l’accoppiamento scienza/tecnica hanno reso possibile ed operante questo cambiamento radicale, mentre l’ideologia onnipervasiva diventa quella espansionistica e l’atteggiamento di fondo quello della conquista. La natura viene ridotta a campo di intervento senza limiti, interamente disponibile all’attività umana, senz’altra finalità che quella che le viene imposta, quale materiale indifferenziato, dall’intervento tecnologico.
Ma fino a quando e fin dove sarà possibile?
L’esistenza umana è strutturalmente corporea; ha una dimensione biologica che la pone in un sistema di relazioni e di complesse interdipen-denze senza le quali qualunque vita sarebbe impossibile. Pertanto il dominio sulla natura finisce per diventare inevitabilmente dominio sulla stessa vita umana.
“L’ecologia … ha mostrato che la sfida lanciata dal binomio scienza e tecnica, se è vincente per l’uomo soggetto di dominio, è perdente per l’umanità soggetto di bisogni e abitatrice del cosmo. L’ecologia ha riscoperto la ‘natura’. Il mondo extra-umano come luogo di qualità, di nessi e complessi non puramente matematici che se ignorati e violentati, compromettono l’abitabilità dell’universo”.
Questi brevissimi cenni possono servire ad incorniciare nel nostro oggi la “perla della Bibbia”, consentendo, con il nostro aumentato livello di coscienza, una crescita di valore dello stesso testo biblico.
Oggi siamo in grado di meglio comprendere quello che significa “la condanna a non aver senso per il creato” e il suo bisogno di liberazione dalla situazione di soggezione “al potere di corruzione”. Possiamo anche apprezzare tutta la verità del gemito e della sofferenza che attanaglia l’umanità assieme al mondo abitato. Diventa importante sentirsi ripetere che questo soffrire non è il preludio della morte del creato, ma assomiglia alle doglie del parto in vista della generazione di una nuova umanità in un mondo rinnovato. Possiamo scoprire una nuova coscienza del rapporto di alleanza che ci lega al nostro mondo, dove gli esseri umani possano pervenire alla verità della propria autentica dimensione e così trovare un rapporto creativo con la terra quale terreno da coltivare, non da depredare e distruggere. Questo ormai si impone come unica possibilità perché i nostri figli possano ritrovarsi un pianeta ancora vivibile.
Si può affermare che questo testo rappresenti l’ ultimum in azione. Per noi del XXI secolo è un richiamo estremo, senza possibili rimandi. Veramente “il tempo si è fatto breve”. Si è approssimato il punto di non ritorno.
Non uccidere
“ Dalla terra il sangue di tuo fratello mi chiede giustizia ” (Gen. 4,10).
I primi capitoli del Genesi sono costituiti da racconti parabolici nei quali gli uomini di tutti i tempi possono specchiarsi. Una delle domande che attraversa queste composizioni letterarie si può così formulare: perché la violenza omicida e perché questa violenza si moltiplica in forme sempre più virulente ed estese?
La escalation testimoniata dalla storia umana viene, in certo senso, sintetizzata dalla terribile legge di Lamech: “mogli di Lamech fate bene attenzione: per una ferita ricevuta io ho ucciso un uomo e per una scalfittura un ragazzo. Se Caino deve essere vendicato sette volte, Lamech lo sarà settantasette volte” (Gen. 4,23-24). La violenza omicida si esprime mediante un processo moltiplicatore.
Mentre scriviamo si sta intensificando la pressione psicologica per arrivare alla guerra contro l’Iraq. Le prime pagine dei giornali e telegiornali sono ormai occupate da questo evento che sembra inevitabile come la legge di gravità. La guerra infinita continua avvolta nella grande menzogna che si rinnova. ( Questo aspetto viene ripreso nell’intervento introduttivo all’incontro di Viareggio ).
Nel secolo scorso in occidente si sono inventate le guerre che fanno il maggior numero di vittime tra i civili. Non per errori compiuti, ma perché seminare il terrore tra la popolazione “nemica” fa parte integrante della strategia bellica. La guerra è il più grande atto terroristico.
In essa avviene l’inversione totale delle beatitudini:
“Le voci dicono: Guai ai deboli! Maledetti gli infermi! I forti possede-ranno la terra! Chi piange è un vile e non verrà mai consolato. Chi ha solo fame e sete di giustizia va a pescare la luna e a pascolare il vento”.
Nella guerra l’ ultimum subisce una eclissi totale. L’impero della forza raggiunge la sua pienezza ed occupa tutto lo spazio della comunicazione. Tutto il resto tace, come al tramonto del venerdì di passione. Resta il sangue versato a gridare muto l’attesa di una giustizia e a lasciar balenare il sospetto che “la morte non chiude la storia”.
Gli ultimi
Gli ultimi hanno una stretta parentela con l’ ultimum. Sono tutti quelli che stanno sotto .
Luigi Consonni nel suo intervento sviluppa questo aspetto. “Ormai la folla sempre più numerosa degli ultimi si articola di fatto in tre strati sociali: poveri–miseri–rifiuti (i desechables di cui parla uno scritto di Galeano che qualche anno fa abbiamo riprodotto su questa rivista)”.
S. Weil dalla sua esperienza di vita operaia trae due insegnamenti che ci aiutano a comprendere la vastità delle categorie di persone che si possono annoverare tra gli ultimi:
“In conclusione, ho tratto due insegnamenti dalla mia esperienza. La prima, la più amara e la più impreveduta, è che l’oppressione, a partire da un certo grado di intensità, non genera una tendenza alla rivolta bensì una tendenza quasi irresistibile alla più assoluta sottomissione. L’ ho constatato su me stessa.
Il secondo insegnamento è questo: che l’umanità si divide in due categorie: le persone che contano qualcosa e le persone che non contano nulla. Quando si appartiene alla seconda categoria si arriva a trovar naturale di non contare nulla – il che non significa che non si soffra….
Non c’è nulla che paralizzi il pensiero più del senso di inferiorità necessariamente imposto dai colpi quotidiani della povertà, della subordinazione, della dipendenza. La prima cosa da fare per loro è aiutarli a ritrovare o a conservare, secondo i casi, la coscienza della loro dignità“.
In più parti della Bibbia agli ultimi è promesso il rovesciamento della loro posizione (Beatitudini, Magnificat, parabole, salmi…). L’ ultimum diventa così l’affermazione della dignità degli ultimi, che può venire ferita e calpestata, ma la cui radice non può essere rinsecchita o annullata perché riposa su qualcosa che è sottratto al flusso ed alle tempeste che appartengono al penultimo della storia. Ne deriva il compito senza fine di coltivare la dignità proprio lì dove viene negata, farla fiorire nelle zone più desertificate, difenderla dove viene aggredita.
Un compito terribilmente difficile perché come giustamente avverte la Weil “si è sempre barbari verso i più deboli. Oppure, per non negare ogni potere alla virtù, si potrebbe quanto meno affermare che, salvo a prezzo di uno sforzo di generosità raro quanto il genio, si è sempre barbari verso i deboli”.
Le chiese cristiane in questo frattempo
Anche se la chiesa di Cristo è per definizione una, noi dobbiamo parlare di chiese al plurale perché questa è la configurazione reale che nella storia e nel mondo esse hanno assunto. E tutte, dalla più grande e numerosa, la cattolica, alle più modeste, tutte hanno un ultimum , a cui sanno dare un nome, che le incalza e mina dall’interno la loro pretesa di porsi come definitive.
A tutte può succedere quello che si racconta nel vangelo di Matteo a proposito dei Magi che hanno raccolto informazioni esatte per incontrare il “segno”, cioè il bambino con sua madre, da persone ed istituzioni certamente competenti e legittime, le quali però non si sono mosse dalle loro sedi per incontrare l’evento.
Siamo convinti che l’ ultimum e i pochi punti chiave della tradizione biblica con i quali si è accennata la coniugazione, rappresentino una priorità assoluta ed universale, un mandato inevitabile, a fronte della attuale (e prevedibile) configurazione del mondo. La visione ecclesiocentrica delle cose, quella che nei fatti e nei comportamenti pretende di possedere l’ ultimum o, peggio ancora, di sostituirlo, facendo della propria chiesa e dell’ampliamento della sua influenza il fine di tutto, si propone come esempio di quello sguardo che, invece di osservare la luna luminosa nel cielo, si fissa sul dito che la indica chiudendo in tal modo il proprio campo visivo.
Vi è una priorità che oggi appare assoluta, precedente a tutte le altre determinazioni. Essa viene ben rappresentata da una pagina di Balducci attraverso il racconto di un evento drammatico, eppure carico di speranza, offerto come simbolo di un cammino assolutamente urgente e doveroso. Una pagina indirizzata non solo alle chiese, ma a tutte le religioni presenti nel nostro “villaggio globale”.
“Il 3 febbraio 1943, nelle acque della Groenlandia, la Dorchester , colpita da un siluro tedesco, stava per affondare. Chi non aveva il salvagente era perduto. ‘Nella lotta selvaggia per la vita’ racconta un testimone, ‘quattro uomini rimasero calmi e consapevoli, quattro cappellani militari: un rabbino, un sacerdote cattolico e due pastori evangelici. Si erano legati l’uno all’altro per non cadere dalla coperta viscida. Tutti e quattro avevano avuto la loro cintura di salvataggio, ma ciascuno aveva offerto la propria ad un uomo dell’equipaggio. Allorché la Dorchester s’impennò, prima di colare definitivamente a picco tra i flutti, si videro i quattro per l’ultima volta. Stavano ritti e immobili tenendosi per mano, addossati contro il parapetto: pregavano’.
Da quando ebbi notizia del fatto, la catena dei quattro uomini di Dio è entrata a far parte del mio mondo interiore: è come l’orizzonte simbolico in cui mi imbatto quando mi volto indietro per fissare il momento in cui cominciò ad inabissarsi il passato di cui sono figlio e a prender forma quel futuro a cui non riesco ancora a dare un volto. Nel gesto dei quattro eroi… non c’è solo un atto individuale che più di ogni altro avvicina l’uomo a Dio, c’è la fine dell’età delle molte religioni, la fine volontaria che ha partorito l’unica religione all’altezza della nuova età della nostra specie: la religione che assume come valore sommo la salvezza dell’uomo anche mediante il dono della vita. La novità della situazione storica è che ormai l’umanità si trova raggruppata in un breve spazio nel quale si stanno consumando le pareti di separazione tra le molte etnie, e, quel che più conta, raggruppata sotto una medesima minaccia di morte. Che senso avrebbe, mentre il naviglio va a fondo, che le religioni continuassero a discutere tra loro per rivendicare il titolo dell’universalità? Se davvero esse vogliono rendere onore a Dio, si liberino della cintura di salvataggio e accettino il rischio comune. Come dire: muoiano al proprio passato e dimostrino con i fatti che a generarle è stato non il timore, ma l’amore. Il sospetto che le religioni siano niente più che cinture di salvataggio è molto fondato. Anche sotto i nostri occhi, a dispetto della situazione totalmente nuova, perdurano i sintomi da cui il sospetto nacque. Se un gruppo, non importa se minuscolo, è minacciato nella sua identità, e dunque nelle ragioni stesse che danno senso alla sua vita, la religione si rivela come l’ultima garanzia di quella identità, come la cintura di salvataggio. Anche Stalin…nel mobilitare il suo popolo nella guerra contro il nazismo, usò i termini ‘fratelli e sorelle’.
Durante l’età delle religioni, i cappellani militari avevano ciascuno il compito di mantener viva, anche nel più modesto soldato, la convinzione che la sua morte per la patria era cosa gradita a Dio, al suo Dio.
Ma ormai dove sono le patrie? La minaccia di morte, che investe tutti i popoli della terra, ci sta venendo incontro in vari modi, ciascuno dei quali di dimensione planetaria: come una selva di missili, o come catastrofe dell’equilibrio ecologico, dentro il quale l’umanità è incastonata, o come irruzione caotica dei popoli della fame dentro lo spazio in cui banchettano i popoli dell’opulenza. In una situazione siffatta, i punti di vista da cui giudicare le scelte umane, anche le più private…sono ridotte in unità. Ogni giudizio che non tenga conto di questa unità indissolubile del destino dell’uomo è già per questo immorale”.
Chiudiamo questi pensieri, appena abbozzati, ricordando un testo evangelico, proclamato qualche settimana fa nella liturgia domenicale.
La parabola del “grano buono e della zizzania” che troviamo nel capitolo 13 di Matteo, quello delle sette Parabole del Regno, non va applicata solo al mondo o ai singoli, ma anche alle chiese, intese come comunità e strutture. Questa compresenza, senza una possibile, chiara e definitiva separazione tra le due sementi e i loro rispettivi frutti, prima del compimento ultimo, rappresenta un chiaro invito all’esercizio del discernimento ed alla assunzione di responsabilità anche all’interno delle singole chiese.
Non ci si può nascondere dietro l’autorità o l’ombra di qualcuno, oppure affidare la gestione della propria vita a qualche piccolo o grande movimento o struttura abdicando alla propria capacità di discernere e pensare, di parlare ed agire.
“Gesù rivelò cose che solo a noi è dato di capire, perché solo oggi la misura dell’iniquità ha raggiunto il colmo”.
E’ l’ultimum che ancora una volta viene a visitarci. A chiedere conto a ciascuno.