Editoriale



Se c’è oggi una differenza fondamentale tra le persone,
una differenza anteriore a qualsiasi credo religioso o politico,
è proprio quella che passa tra coloro che non si vogliono arrendere
a questa situazione, resistono nella ricerca di nuovi sentieri
e chi invece vi si abbandona totalmente ignorando le conseguenze.

(Mario Cuminetti)

Menzogne

 

Trascorrono i mesi e sempre più chiare appaiono le menzogne che si sono vendute sulla guerra in Irak. Conviene ricordarne alcune, perché la velocità del succedersi degli eventi e la digestione del loro consumo, inducono la rapida perdita della memoria. La motivazione della guerra preventiva fornita da Bush e da Blair consisteva nella ostentata certezza della presenza in Irak di armi di distruzione di massa. Non sono state trovate. Come non pare sia stato trovato l’uranio che sarebbe stato comprato dal Niger per costruire la bomba atomica. Non solo gli osservatori dell’ONU, ma neppure l’ intelligence degli eserciti invasori hanno potuto fornire le prove, pur avendo setacciato tutto il territorio e torchiato per bene, dopo la cattura, esponenti di primo piano del regime abbattuto. Il mondo intero è stato ingannato.
La Civiltà Cattolica così sintetizzava, in un editoriale, la valutazione sull’invasione del territorio irakeno: ”questa guerra irakena ha sconvolto l’ordine mondiale, esautorando l’ONU, ferendo il diritto internazionale, creando un fossato tra l’Europa e gli Stati Uniti e suscitando nel mondo islamico propositi di rivincita contro l’Occidente invasore”.
Seconda menzogna: la guerra (quasi) lampo è finita. Le immagini dell’abbattimento della statua del rais al centro di Bagdad e lo sventolare della bandiera a stelle e strisce fanno il giro del mondo quali simboli della capitolazione. Anche due figli di Saddam, uccisi in uno scontro a fuoco, vengono esibiti cadaveri in pasto alle televisioni. Dunque la guerra è finita. È ora di costruire la pace. Parte anche dall’Italia la missione per la pace. Non si dice, come è la verità, che carabinieri ed esercito italiano sono stati inviati in una guerra dichiarata finita solo da una propaganda becera. L’Italia si scopre in guerra e comincia a contare i propri morti, come pure gli altri paesi satelliti degli USA, che hanno inviato forze per alleviare la fatica ed i costi americani ed anche, ma bisogna dirlo sottovoce, per non rimanere del tutto all’asciutto nella spartizione del bottino di guerra. Comunque rimane il fatto che sempre più la popolazione irakena nelle sue varie componenti manifesta ostilità verso i militari stranieri entrati in armi, il che si aggiunge alla guerriglia che con una certa efficacia costringe ora a dire che la guerra è tutt’altro che finita. Alla guerra iniziata con il motto americano “shock and awe”, colpisci e terrorizza, si risponde con gli strumenti possibili, cioè con guerriglia e terrorismo. Ritorna lo spettro del Viet-Nam.
A proposito di guerra la Costituzione italiana avrebbe qualcosa da dire. Ma ormai non si contano neppure più gli strappi inferti alla legge fondamentale che tiene insieme gli italiani.
La terza menzogna è quella della “democrazia esportata”: la guerra viene combattuta per far nascere la democrazia in Irak. È impresa titanica far credere che si possa trapiantare la democrazia a suon di bombe. Però ci provano, e insistono i vari ripetitori del verbo imperiale. Il nostro presidente-padrone, preso da eroici furori, si inventa come mosca cocchiera di Bush e, superando tutti gli altri, dichiara al New York Times che “la comunità delle democrazie occidentali deve essere pronta a intervenire come esportatrice di democrazia e libertà in tutto il mondo… e a questo punto potrebbe rendersi necessaria una modifica del diritto internazionale, che ha finora asserito che la sovranità di uno stato è inviolabile”.
Tuttavia, nonostante questi conati, si diffonde anche in occidente la convinzione che: “l’egemonia americana in campo militare, economico e politico, risulta sempre più dovuta a un rapporto di forza e non a una cultura più attenta ai diritti universali dell’uomo. Così, c’è chi si chiede perché tanta risolutezza nel voler imporre la democrazia in Irak e nessuno zelo analogo per popoli come quello ceceno, curdo o tibetano, né per il rispetto dei diritti umani in paesi come la Cina e la Birmania… La guerra contro l’Irak appare allora come una autentica guerra ‘ imperiale ‘, voluta in nome del concetto di ‘ impero’ , il quale si esprime andando a dominare là dove è conveniente, dove le risorse naturali e i nodi strategici rendono vantaggioso il controllo del territorio”.
Possiamo dire che una grande menzogna ci avvolge. La guerra non è solo quella delle armi, ma anche quella che quotidianamente si combatte attraverso i media in tutto il mondo. Anche il nazista Hermann Goering sapeva bene che: “i popoli possono essere sempre ricondotti al volere dei capi… Basta convincerli che stanno per essere attaccati, e accusare i pacifisti di antipatriottismo e di esporre il paese al pericolo. Funziona sempre così, ovunque”.
Ma, noi aggiungiamo, non è detto che funzioni sempre… anzi… la storia ci insegna che nessuno è mai riuscito a farlo funzionare a tempo indefinito. Ricordiamo il biblico gigante dai piedi d’argilla del profeta Daniele….
La strategia della menzogna, più che una manifestazione di forza rappresenta una crepa nell’egemonia militare, economica e politica, ed è segnale di una fragilità.

 

Rivelare

L’Occidente è entrato in una stagione che rivela la debolezza intrinseca della via imboccata. Così scriveva Balducci in un libro pubblicato nell’anno della sua morte: “L’ultima fase della civiltà… industriale è riuscita a realizzare un modello di vita il cui segno più generalizzato è un alto livello di consumi e quindi un alto coefficiente entropico. L’Occidente è una immensa struttura dissipativa che assorbe da ogni angolo del pianeta energia viva e la restituisce degradata…
L’opulenza non può più durare senza crimine. L’emancipazione dei popoli e la permanenza del suo modello di vita non possono conciliarsi”.
Il modello di vita occidentale è troppo dispendioso. È un problema strutturale e il tempo che trascorre lo rivela sempre più: l’incepparsi del sistema economico, l’esplodere del problema ecologico, l’estendersi della coscienza dei limiti delle risorse, le guerre periodiche e gli investimenti folli negli strumenti di distruzione…
I black out che ricorrono nei paesi occidentali sono un indicatore della rischiosità di sistemi di vita che da un momento all’altro possono andare incontro alla possibile paralisi, con conseguenze appena immaginabili.
Il modello di vita occidentale, apparentemente forte e potente, in realtà è debole intrinsecamente: perché non tiene conto dei i limiti congeniti al nostro sistema terra, anzi regolarmente li eccede, e perché presenta alti livelli di vulnerabilità.
È debole perché non è universalizzabile a tutti i popoli; ed anche al proprio interno sono in aumento gli squilibri tra la popolazione, mentre sono diminuiti la certezza del lavoro, la sicurezza dello stato sociale, la copertura del sistema sanitario… Un tempo vi era chi sognava che i vantaggi ottenuti dal sistema occidentale, ed i suoi valori civili, potessero sollevare gli altri popoli dalla miseria e dall’indigenza. Oggi nel mondo globalizzato diventa sempre più chiaro che l’emancipazione dei popoli non è conciliabile con gli interessi espressi complessivamente dall’occidente: solo l’esclusione degli altri può consentire la prosecuzione del banchetto e rafforzare la traballante identità. Ma fino a quando?
“Forse – scrive Panikkar – è venuto il tempo di scoprire una post-storia e di accorgerci che il periodo ‘storico’ – questi 6000 anni di esistenza umana con i suoi sconvolgimenti più o meno profondi – sta arrivando alla fine”.
In questi giorni mi sono tornati tra le mani alcuni scritti di Mario Cuminetti. Vi ho trovato un riferimento al poeta Octavio Paz che può essere illuminante:
“Parlando delle motivazioni per cui scrivere poesie… Paz osserva che (per la sua generazione), ‘…la cosa più importante non era scrivere poesie… ma cambiare la natura, cambiare la vita , cambiare il genere umano… Dopo tanti anni decisi anzitutto che la poesia non era fatta per cambiare il genere umano, ma per rivelare il genere umano’.
Ecco, mi pare di poter dire che la religione, come la rivelazione giudaico-cristiana, non è altra cosa”.
A proposito del rivelare come compito della poesia, mi ha colpito un testo del 1947 di Tomas Merton, in un momento di grande fulgore per gli Stati Uniti. E. Bianchi così presenta la poesia:

“Merton si è ritirato da qualche anno nella trappa del Kentuky e contempla da lontano l’affascinante New York dove aveva vissuto prima di entrare in monastero. Sono versi di chiaroveggenza profetica che paiono cogliere il tragico legame tra ingiustizia, orgoglio, distruzione e morte:

La luna più pallida di un’attrice, e ti piange, New York;
cercando di vederti attraverso i ponti a brandelli
e si china per udire il timbro falso
della tua voce troppo raffinata
i cui canti non si odono più!

Come sono state distrutte, come sono crollate,
quelle grandi e possenti torri di ghiaccio e d’acciaio,
fuse da quale terrore e da quale miracolo?
Quali fuochi, quali luci hanno smembrato,
nella collera bianca della loro accusa,
quelle torri d’argento e d’acciaio?

Le ceneri delle torri distrutte si mescolano ancora alle volute del fumo,
velando le tue esequie nella loro bruma;
“Questa fu una città
che si vestiva di biglietti di banca…
… era senza cuore come un taxi,
aveva occhi altocoturnati talvolta blu come il gin,
e li inchiodava, ogni giorno della sua vita
sul cuore dei suoi sei milioni di poveri.
Ora è morta nel terrore di una improvvisa contemplazione, annegata nelle acque del proprio pozzo inquinato”


Scontro di civiltà?

L’accelerazione e velocizzazione dei ritmi occidentali provocano una eclissi della memoria e l’appiattimento nell’immediato e nel momentaneo, ma non sempre e dappertutto è così. Anzi, in particolare nelle civiltà non occidentali si sta verificando il fenomeno del recupero delle proprie radici. Si approfondisce anche la coscienza dei propri rapporti con l’occidente e dei trascorsi storici che hanno caratterizzato tali rapporti.
In un recente articolo, Richard Rubenstein, decano dei pensatori ebrei della Shoà almeno in ambito nord-americano , riferendosi all’ipotesi sulla possibilità di uno “scontro tra civiltà” avanzata da Samuel Huntington all’indomani della fine della guerra fredda, scrive:
“Mentre l’ordine internazionale laico, nato alla luce dell’illuminismo, ha portato libertà, sicurezza, dignità per l’Occidente e per i suoi alleati, per la maggior parte degli Arabi e degli altri musulmani, lo stesso ordine è stato sperimentato come foriero di oppressione, sfruttamento, umiliazione. Senza il riconoscimento di questa realtà di fondo, c’è poca probabilità che un dialogo atto a limitare il danno potenziale dello ‘scontro di civiltà’ possa svilupparsi”.
Vi è il peso storico di come è stato “sperimentato” l’Occidente dai popoli non occidentali. Una memoria lunga si è sedimentata, una memoria di “oppressione, sfruttamento e umiliazione” subiti. Ma vi è anche un timore che riguarda il futuro: quello della perdita della propria identità culturale, della estinzione dei propri simboli e del senso del vivere quale orizzonte irrinunciabile.
Molti autori occidentali nelle loro analisi confermano le percezioni dei non occidentali. A titolo di esempio si riporta un testo di Balducci che compare in un libro pubblicato nell’anno della sua scomparsa :
“L’Altro è il terzo mondo, e cioè, in un medesimo tempo, l’area soggetta all’imperialismo economico e l’area della metodica distruzione delle culture, se non per via diretta per conseguenza dell’innesto del nostro sistema economico in un contesto culturale inadatto a riceverlo… Il massimo crimine dell’occidente è stato il genocidio culturale”.
Occorre notare che anche in riferimento alla stessa civiltà occidentale viene puntato il dito contro lo svuotamento dell’umano prodotto dal trionfo del razionalismo tecnologico che “abolisce qualunque orizzonte di senso” e che dissolve la stessa idea di salvezza per gli esseri umani.
Tornando all’articolo di Rubenstein, egli accosta l’illuminismo e la modernità, citando il testo famoso del filosofo tedesco Kant, e gli impianti scaturiti dalle Dichiarazioni americana (1774) e francese (1789), alle posizioni radicalmente opposte degli “avversari” islamici, in particolare il filosofo egiziano Sayyed Qutb, giustiziato da Nasser nel 1966, ed i suoi epigoni, per denunciare l’assoluta inconciliabilità “tra una certa idea di Occidente, cui europei e americani appartengono entrambi, e una certa idea di Islam che, pur politicamente e socialmente minoritaria, sembra oggi prevalere. Da qui la sua paradossale difesa dell’Occidente, paradossale in quanto pochi come Rubenstein hanno in passato denunciato i limiti e le debolezze di questa nostra civiltà figlia dell’illuminismo e della rivoluzione”.
Rubenstein cita testi autorevoli di esponenti islamici che rappresentano bene il carattere alternativo della loro concezione religiosa che sta alla base dell’orientamento militante. A titolo di esempio si riporta in nota la posizione espressa dallo Sceicco Al-Qaradhawi nel suo programma religioso settimanale trasmesso da Al-Jazeera, il canale satellitare in lingua araba.
Al termine dell’articolo l’autore utilizza le parole del prof. Kelsay per identificare la natura del conflitto che sta di fronte:
“Tanta parte dell’attuale ritorno all’Islam è dovuto alla percezione dei musulmani come una comunità che ha una missione da compiere. Che questa idea qualche volta porti al conflitto non sorprende. Nell’incontro tra l’Occidente e l’Islam, la battaglia si gioca su chi per primo riuscirà a definire un ordine mondiale. Sarà l’Occidente con le sue nozioni di confini territoriali, economie di mercato, religiosità privata e priorità dei diritti individuali? O sarà l’Islam, con la sua accentuazione dell’idea di missione, universale di una comunità transtribale, chiamata a costruire un ordine sociale fondato su un puro monoteismo naturale per l’umanità? Il problema suggerisce un confronto competitivo tra tradizioni culturali con diverse nozioni di pace, di ordine, di giustizia. Esso quindi implica una visione pessimistica in rapporto alla possibilità di un ordine del mondo fondato sulle nozioni di comunità umana”.
La conclusione di Rubenstein è come un grido dove convivono disperazione e speranza. La disperazione sembra razionalmente la più motivata, la speranza si affida ad un salto di qualità:
“Ebrei, cristiani o musulmani discendono tutti spiritualmente dal padre Abramo. Il riconoscimento del Dio di Abramo come nostro Dio ci unisce, ma una diversa comprensione di quanto il Dio di Abramo ci comanda è quanto ci divide… La scelta che ci sta davanti è il dialogo o la spada, e oggi la spada non è più una lama, ma un’arma di distruzione di massa. L’attuale crisi può essere gestita solo mediante il dialogo e la parola. Come discendenti spirituali di Abramo, la scelta che ci è posta di fronte è tra la fraternità o il fratricidio”.


Fallimento di Babele

Non vi sarà alcuna pax americana. Non vi sarà neppure una pax islamica. Nessuna parzialità riuscirà mai ad imporsi come totalità. Ogni tentativo che va in questa direzione è sempre costato fiumi di sangue e, nel tempo, conosce il fallimento. Oggi la spada è fatta di armi di distruzione di massa: una forma di onnipotenza del terrore che può ritorcersi sugli stessi che la usano. Vi è un’unica possibilità di vita sulla terra: quella della convivenza dei diversi. Storicamente la dialettica tra identità e alterità si è risolta o con l’assimilazione dell’altro al modello dominante oppure con la subalternità dell’altro dichiarato inferiore. Nel primo caso vi è la negazione della differenza in nome della identità, mentre nel secondo essa viene riconosciuta, ma come espressione di inferiorità. La terza via consiste nel pensare l’altro come dotato di una identità diversa dalla nostra, ma pure radicata anch’essa nella comune umanità. Questa appare come l’unica via percorribile perché l’umanità possa avere un futuro. Come scrisse Levinas, il senso dell’avvenire è l’epifania dell’Altro.
Balducci apre l’ultimo libro che ci ha lasciato con le parole con le quali Einstein conclude il suo Messaggio rivolto all’umanità nel 1957: “noi rivolgiamo un appello come esseri umani ad esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto” e così commenta: “con il realismo dello scienziato egli poneva, nei termini giusti, la nuova universalità a cui è chiamata, nell’era atomica, la coscienza morale. Questa universalità richiede in negativo, la messa tra parentesi della storia, e, in positivo, l’adozione della appartenenza alla specie come unico criterio sufficiente di scelta morale. Si tratta del capovolgimento puro e semplice dell’umanesimo di cui siamo figli”.
Il libro si conclude con una Appendice nella quale l’autore commenta l’evento di Assisi, quando il 27 ottobre 1987 i rappresentanti delle religioni mondiali si sono ritrovati insieme per pregare per la pace. “Ad Assisi le religioni si sono presentate con l’olivo della pace ‘come gli araldi – ha detto il papa – della coscienza morale dell’umanità come tale, umanità che aspira alla pace, che ha bisogno della pace… D’ora in poi il sentiero da percorrere sarà uno solo, sia che impariamo a camminare insieme nella pace e in armonia, sia che ci estraniamo a vicenda e ci roviniamo insieme: la sfida della pace – ha detto il papa – così come si presenta oggi a ogni coscienza umana, trascende le differenze religiose’.
Viste nella loro realtà storica le religioni hanno bisogno anch’esse di salvarsi dai richiami del loro particolarismo per mettersi al servizio dell’unità del mondo, segno e condizione dell’unità di Dio. Senza questa conversione anche Dio resta un idolo. La pace del mondo presuppone la distruzione degli idoli”.
Nel racconto biblico di Babele, che troviamo al capitolo 11 di Genesi, si narra del tentativo di costruire un impero duraturo e onnipotente, ma anche del suo fallimento. È una narrazione simbolica che interpreta l’esperienza umana.
“L’esperienza dell’uomo di quel tempo, come anche quella dell’uomo di oggi, è che tra le genti si instaura una potenza politica e religiosa che ambisce soggiogare e riunire i popoli sotto di sé; ma ciò che il testo dice della grande potenza babilonese è il tentativo che si ripete nella storia di oggi… A Babele c’è un’invasione totalitaria della creazione e l’annientamento dell’uomo”.
Nel capitolo precedente di Genesi troviamo la tavola dei popoli. Settanta popoli sono elencati in un tentativo molto imperfetto di mappatura dell’umanità allora conosciuta. Il suo valore consiste nella concezione sottesa: questi popoli, amici o nemici che siano, con le differenze di cui sono portatori, tutti appartengono all’unica umanità. Essi tutti vengono fatti risalire a Noè, col quale Dio conclude un’alleanza eterna e gratuita, e ad Adamo. La loro stessa diffusione, nella concezione biblica, rappresenta l’attuazione della benedizione di Dio che accompagna gli esseri umani nella trasmissione della vita di generazione in generazione. Questa unica umanità viene creata “a immagine di Dio”. Il testo dice esattamente: “Facciamo l’uomo (Adam) a nostra immagine, a nostra somiglianza… ”Gen. 1, 26). Adam è umanità, quell’umanità differenziata che storicamente si sperimenta. Una interpretazione seducente di quel “facciamo” lo intende come un appello alla stessa Adam-umanità. Come dire: diventa uomo! Umanità diventa umana! Assumi il compito di custodire la terra.
Questi capitoli di Genesi non sono la narrazione della preistoria, della storia degli inizi, “ma un panorama permanente della situazione umana nel mondo, una descrizione delle costanti del mondo in cui noi stessi ci troviamo… Il messaggio di Gen. 1-11 è così un messaggio sull’uomo e sulla sua esistenza concreta ”.
Possiamo dire che queste pagine sono una profezia su quello che l’umanità è nel pensiero di Dio. Si racconta il segreto dell’uomo, quello che ogni uomo (ha-Adam) è chiamato a diventare. E questo precede tutte le determinazioni storiche e le differenziazioni che fanno della umanità una realtà molteplice. È bellissimo che dalla storia antica di un singolo popolo, nasca una intuizione tanto alta non solo di se stesso, ma della umanità tutta, costituita dalla pluralità dei popoli.
Ma l’illusione di Babele rinasce sempre, con strumenti sempre più potenti. Contro questa illusione perversa occorre lottare. Fino in fondo.
Concludo riportando la tesi di H. Küng sul tema della pace e delle religioni:

Non vi può essere convivenza umana senza un ethos mondiale delle nazioni;
non vi può essere pace tra le nazioni senza la pace tra le religioni;
non vi può essere pace tra le religioni senza il dialogo tra le religioni”
.

Roberto Fiorini


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