Editoriale
Forse occorre vivere quasi tutta la vita prima di percepire il senso del cammino vissuto. Ma non sempre questo accade, perché la frattura e l’interruzione vengono a visitare l’esistenza rendendola frammentaria, disarticolandola in quelle che parrebbero connessioni essenziali. In fondo l’enigma della vita, legata al tempo ed esposta alle sue alternanze – come insegna Qoelet, 3, 1-9 – ci accompagna sempre. Così si assapora il limite nel quale si è collocati: svaporano le illusioni che sono il falso pane quotidiano in cui ci si rifugia per resistere nella vita, ci è aperta la possibilità di porci le domande vere, di chiamare col loro proprio nome le cose e di scoprire il silenzio profondo, che consiste nel tacere anche dinanzi a Dio, rifuggendo da un vaniloquio religioso, più pestifero della bestemmia conclamata.
Tuttavia, con tutte le cautele del caso, a me pare che si possa deli-neare un senso profondo, che ha trovato espressione nelle centinaia di pretioperai che in Europa hanno dato corpo ad una singolare forma di vita. Le differenze, anche vistose, che si possono notare tra loro, non sono tali da oscurare l’orientamento di fondo che la loro storia mette in evidenza. L’occasione viene dal cinquantesimo anniversario dello stop imposto da Roma all’episcopato francese ed al centinaio di preti e religiosi transalpini entrati nelle fabbriche e cantieri operai, nonché ai seminaristi che si stavano formando, perché quella forma di vita veniva giudicata incompatibile con lo stato sacerdotale. Nel profondo c’era in gioco un modo di intendere il cristianesimo, il senso stesso della fede, l’incarnazione del Vangelo nel tempo, la concezione della chiesa e del ministero nel rapporto con le classi subalterne e con i poteri dominanti, con il mondo plasmato dalla rivoluzione industriale e tecnologica in sempre rapida evoluzione…
Alcuni nodi problematici sui quali è avvenuta la frizione sono tutt’altro che invecchiati. La tensione ed il conflitto che hanno attraversato l’esistenza dei pretioperai non appartengono alla particolarità corporativa di preti un po’ originali e di sinistra, ma assume un carattere rivelativo molto più ampio. È una cartina di tornasole. Per dirlo con l’espressione uscita da uno dei nostri convegni nazionali: “il preteoperaio rappresenta la febbre di un organismo malato”: è un sintomo, un segnale, in riferimento alla ingessatura clericale perdurante, quale forma patologica di cui la chiesa è affetta, ben descritta nel lontano XIX secolo dal riabilitato Rosmini ne “Le cinque piaghe della chiesa”.
Però, da un altro punto di vista, la comparsa dei pretioperai nella vecchia Europa secolarizzata è gravida di un’intuizione che apre “un’alternativa per il futuro” in un tempo caratterizzato dalla “fine della cristianità”; si offre quale “normale risposta evangelica ad una situazione dell’uomo totalmente inedita”. È quanto dice Balducci in un testo, tratto da L’uomo planetario, che viene riportato in questo quaderno.
La loro storia sulla scena europea si distende per 60 anni, dalla seconda guerra mondiale fino all’imporsi della globalizzazione a livello mondiale, passando per la nuova Pentecoste del Vaticano II, “ il primo grande evento ufficiale, in cui la Chiesa si è attuata come Chiesa mondiale” e che rappresenta una vera “cesura teologica”che anche se “non colta in maniera riflessa e chiara, può essere paragonata solo al passaggio dal cristianesimo giudaico al cristianesimo dei gentili” .
Questo quaderno si compone di tre sezioni. Nella prima avviene una rivisitazione ed una rilettura del congelamento imposto da Roma nel 1954 e ribadito nel 1959 con un documento dell’ex Sant’Ufficio, ma superato nei fatti dopo l’evento conciliare con il salto del muro attuato da centinaia di preti. Nella seconda vengono offerte riflessioni di pretioperai lombardi sotto il titolo : pensare Dio nel disordine del mondo . Sono intuizioni e abbozzi di pensiero che scaturiscono da persone che per decenni hanno sperimentato il disordine nel lavoro di fabbrica o dei servizi, ma in un orizzonte aperto alla dimensione internazionale. La terza, sguardi dalla stiva, raccoglie alcuni flash che esprimono prospettive dal basso , occhiate che provengono da chi sta sotto.
Ciascuna delle tre sezioni si presta a mettere in luce un aspetto di quel senso profondo che dal loro sorgere i pretioperai hanno tentato di manifestare nei “vasi di creta” della loro vita. Nel loro insieme offrono gli orientamenti essenziali sui quali si è snodato il loro cammino.
Discesa sotto coperta
Due testi sintetizzano in breve altrettanti punti da porre in evidenza.
“Mi chiedevo come doveva essere stata la vita ‘sotto coperta’. Centinaia di esseri umani incatenati a remi pesanti, costretti a stare seduti nel loro stesso sporco e puzzo, denutriti, destinati a morire in una lenta agonia, frustati e gettati a mare in pasto ai pescicani, mentre gli altri sedevano sopra coperta a bere, a fare l’amore, a godere di ogni minuto della vita sotto la luna crescente” (F. Uhlman, Un’anima non vile ).
I pretioperai hanno cercato la vita sotto coperta entrando nel lavoro, in particolare in quello operaio. Ecco: varcare il muro per entrare nel lavoro organizzato della società moderna, divenuta ora post-moderna, equivale alla discesa nel ventre della nave dove ciascuno diventa fattore economico, forza lavoro, da utilizzare per quello che serve e fin quando serve. I bisogni soggettivi impallidiscono di fronte a questa regola oggettiva, rimasta invariata nella sua logica interna, e ora, in epoca di globalizzazione, resa ancora più sfacciatamente rigida e crudele per il ricatto della concorrenza internazionale.
Ciascun preteoperaio, nel suo contesto con propria modalità, ha varcato questa soglia entrando in maniera stabile in un pezzo di mondo collocato sotto, per scoprire quella condizione e per viverla assieme ai compagni. La nuova quotidianità è dettata dalla organizzazione del lavoro, con obiettivi, modalità, cadenze e tempi stabiliti, ai quali ci si deve adattare. L’invio in Francia dei primi preti in fabbrica e nei cantieri ad opera del Card. Suhard, a metà degli anni ’40, aveva chiara una cosa: non si entra nella condizione operaia per fare una esperienza dalla quale imparare per poi fare altro. Ma rappresenta un cammino senza prospettiva di ritorno, nel senso che la vita ne rimane impigliata e compromessa per sempre. Non si trattava di fare l’ingresso in una realtà nuova come degli osservatori che vanno a studiare la situazione, per poi mettere a frutto quanto imparato, ma con una chiara intenzione di permanenza.
Il secondo testo aiuta a chiarire il come agire nella situazione abbracciata:
“Nel XVII secolo viveva a Cartagena un santo gesuita, Pietro Claver. Viveva con gli schiavi e per gli schiavi, tanto da morire contagiato da una delle loro malattie. Era certamente un santo al servizio degli schiavi, ma mai, neppure una volta, ha protestato contro la schiavitù. Viveva in un’epoca in cui anche i teologi giustificavano la schiavitù. Oggi una situazione del genere, aiuto senza denuncia, non è accettabile” (Gustavo Gutierrez).
Una delle costanti che emerge dalle narrazioni delle esperienze dei pretioperai, attuate nelle diverse nazioni europee, è la condivisione delle lotte nelle organizzazioni dei lavoratori per ottenere condizioni di vita e di lavoro più umane. Nulla viene regalato. Anche i più piccoli risultati si ottengono solo condividendo la lotta per ottenerli. Tuttavia non vi è niente che sia solidamente garantito. Oggi basta una decisione presa a New York oppure un cambio di programma del padroncino locale, che sceglie di trasferire la produzione in un paese dell’est perché a lui più conveniente, per spiazzare e mettere sul lastrico lavoratori e famiglie. Mobilità e precarietà si diffondono sempre più nei contratti di lavoro, mentre anche nei servizi pubblici si va perdendo la stabilità del posto. Grande è la difficoltà a fare programmi, ad immaginare un futuro con un minimo di garanzie. Per molti aspetti la condizione degli operai e dei lavoratori è, quindi, peggiorata rispetto agli anni nei quali la maggior parte di noi ha deciso di scendere nella stiva.
Proprio per questo vanno rimessi al centro quegli elementi che del movimento operaio sono stati “ la stoffa e la grandezza… solidarietà nella vita e nel lavoro, una dignità spesso ferita, ma sempre rivendicata e soprattutto l’appello ad una giustizia schernita da coloro che hanno potere e danaro. Appello ad una giustizia che vuole essere un diritto e non una carità umiliante ” (dal Messaggio dei pretioperai insoumis , riportato in questo quaderno).
La denuncia delle situazioni disumane, la lotta per la difesa di condizioni che garantiscano un minimo di umanità, l’appello alla giustizia e al diritto sono istanze di trascendenza, mancando la quale gli esseri umani sono semplicemente annientati nel loro valore. Eppure tutto questo appare sempre più come un grido che viene innalzato dentro il nostro occidente progredito , perché la logica ferrea dominante è tutt’altra: quella che alla fine degli anni ’80 con implacabile lucidità aveva enunciato Claudio Napoleoni, poco prima di morire:
“Vi è un’alienazione – spiegava Napoleoni – che domina tutta la storia dell’Occidente e si basa sul presupposto dell’assoluta manipolabilità del mondo: in forza di essa l’uomo guarda alla cosa, all’oggetto, come a nient’altro che il producibile , e si rapporta al mondo come a ciò che è destinato ad essere prodotto, e in questa producibilità universale finisce per trovarsi egli stesso incluso, diventando egli stesso un oggetto producibile, un prodotto, annullandosi come soggetto e rimanendo perciò contraddittoriamente identificato al suo opposto. Questa, secondo Napoleoni, era la vera radice del generale sistema di dominio e di guerra…”.
Pensare Dio nel disordine del mondo
Entrando nella stiva il preteoperaio si è portato il proprio Dio cucito addosso. Non è come togliersi la tonaca e mettersi la tuta da lavoro. Intendiamoci, non è cosa da poco, ma non è confrontabile con quella strana compagnia, segreta e misteriosa, che ci accompagna ovunque, che ci precede, ci N. 63-63 / LUGLIO 2004segue come un’ombra invisibile appiccicata addosso, che “ci scruta e ci conosce”: così racconta il salmo 139. Insomma, Lui non è rimasto attaccato alla tonaca appesa al chiodo. Tanto più che dalla generalità delle testimonianze risulta che, il motivo principe per il quale questi preti sono entrati sotto coperta era proprio per portare Dio in un mondo che appariva senza Dio. I primi sono stati inviati, e sono partiti, come missionari, perché “la Francia era paese di missione”.
In genere si parlava più di Gesù Cristo, del Vangelo, che di Dio. Si diceva anche che si andava per “far nascere la chiesa in classe operaia”. Una tale dizione poteva avere una certa plausibilità nelle situazioni più secolarizzate, dove si sono perse le tracce della chiesa. Era più difficile usare un tale linguaggio in Italia, dove la chiesa appariva ben piantata, dove anche nella più piccola frazione si può contare almeno un campanile, soprattutto in certe regioni, il Veneto ad esempio, dove dominava il regime di cristianità come miraggio e come potenza politica.
Ma una sorpresa davvero curiosa venne a scombussolare molte buone intenzioni missionarie. “Molti di essi (pretioperai) scoprirono, e ne dettero pubblica testimonianza, che c’era più vangelo vissuto tra gli operai atei che non nei seminari. Che il regno di Dio, ci si cominciò a chiedere, non sia fuori del regno di Dio?”.
Così, almeno per molti pretioperai, avveniva una trasmigrazione del luogo dove pensare Dio: se prima era la chiesa nella sua organizzazione e visibilità che dominava assoluta, lentamente ci si è spostati nei distretti sperimentati direttamente sotto coperta ed anche, per analogia, nei territori più ampi costituiti dai mondi umani e sub-umani. Ma in questa trasmigrazione ci si accorgeva che assieme al Dio incollato addosso, che ci doveva condurre “su ali d’aquila”, ci si doveva invece accollare anche un masso pesante che faceva venire in mente il mitico Sisifo che doveva portarlo sino in cima alla montagna per poi vederselo rotolare a valle.
Le grandi parole del cristianesimo, e soprattutto Dio, il Dio cristiano, erano non solo piene di zavorra, ma usate per difendere e nascondere altro. Tutta la storia aveva incollato su di esse del piombo o addirittura delle responsabilità terribili. Non solo la storia passata, ma anche la presente.
La discesa nella stiva è stato l’inizio di un lungo cammino, che si può anche raffigurare come una traversata del deserto, nella quale ci si è dovuti alleggerire, per poter respirare e camminare. E quando si parlava di queste cose il problema sempre più avvertito era: “come pronunciare una parola leggera, non appesantita da altro?”.
Cadevano le maschere di Dio, si abbandonavano senza rimpianti. Esse erano in qualche modo complici con quel disordine del mondo sperimentato direttamente sotto coperta, ma estesissimo ben oltre l’angolo della stiva che era toccato in sorte. Erano più o meno le stesse maschere che fratel Carlo Carretto aveva sotterrato nelle sabbie del deserto: “Il Dio della guerra, il Dio che rendeva l’uno nemico all’altro nemico, il Dio che veniva dall’alto, il Dio della trascendenza del potere, il Dio che fonda il trono dei potenti e sequestra nei cieli i tesori dei deboli; era il Dio di cui la cultura moderna dirà che è la proiezione dei sogni di onnipotenza dell’uomo, e della cui trascendenza non un ateo, ma Dietrich Bonhoeffer dirà che non è vera, autentica esperienza di Dio, ma un ‘pezzo di mondo prolungato’”.
Ora una domanda: queste maschere non sono forme idolatriche di Dio, sulle quali costantemente piove la denuncia biblica? Non solo la Bibbia ebraica, ma anche quella cristiana mette in guardia dal rischio dell’idolatria. “Figlioli, guardatevi dagli idoli” (1 Gv. 5,21): è il commiato, l’ultima parola di uno degli ultimi scritti del Nuovo testamento rivolta ai cristiani.
È forse eccessivo questo richiamo all’idolatria? Lasciando la domanda aperta, mi limito a citare un testo, tra i moltissimi che si potrebbero produrre, nel quale in occasione della convocazione del congresso eucaristico celebrato a Tripoli nel 1937 l’ Onnipossente viene chiamato in causa e ringraziato per il “suggello sacrale all’avvenuta espansione coloniale italiana in terra d’Africa”. La prospettiva storica, con la distanza del tempo, ci consente ora di toccare con mano l’evidenza e la banalità della caduta; però quanti altri esempi a noi contemporanei si potrebbero portare…!
Forse ora diventa più comprensibile e chiaro perché i pretioperai lombardi nelle loro comunicazioni ritornano periodicamente, in termini personali, ad interrogarsi su Dio. Già nell’editoriale del numero citato si diceva: “quando si parla in prima persona singolare il discorso si fa duro, sofferto. Emergono domande che non tollerano risposte a buon mercato, ma chiedono di essere tenute aperte; i pensieri comunicati non sono più il lusso dello spettatore, quanto piuttosto l’emergere di una pratica. E la pratica, la dislocazione operaia, segna le vite e i linguaggi…”.
Ecco le due domande che hanno guidato la nuova serie di comunicazioni pubblicate su questo quaderno:
1. di quale Dio possiamo parlare oggi?
2. a quale Dio possiamo rivolgerci?
Attenzione però: le domande vanno collocate in uno sfondo, e lo sfondo è il mondo, il mondo d’oggi, visto da sotto coperta. Dio e mondo insieme: non vi è Dio senza mondo. Lo sforzo è di pensarli insieme. Dio pensato sullo sfondo del mondo: il mondo vissuto e visto dalla stiva. Un esempio. Luigi Consonni comincia a delineare lo sfondo nel modo seguente:
250 – 80 – 12
Tre numeri che corrispondono a milioni di bambini sul pianeta terra … E se solo provassimo ad immaginare le conseguenze di questi tre spaventosi numeri…
– 250 milioni sono i bambini costretti a lavorare, invece di giocare e di andare a scuola insieme con altri bambini
– 80 milioni sono i bambini che vengono usati come giocattoli sessuali nei vari mercati della prostituzione / pedofilia
– 12 milioni sono i bambini che ogni anno muoiono in seguito a malattie curabilissime”.
Si potrebbero fare sintesi in cifre più complessive; per esempio, utile sarebbe fare una ricerca per contare quanti sono ogni anno sul pianeta
– i morti ammazzati dalle guerre
– i morti ammazzati dalla fame e/o dalla malnutrizione
– i morti ammazzati dal lavoro, o meglio: dallo sfruttamento capitalistico della forza lavoro.
In questo contesto la vera domanda è “quale Dio?”.
Messa in termini di invocazione essa si può articolare sfogliando i versetti di due salmi:
“Quando vedrò il volto di Dio?” (Sal. 42, 2)
E nel contesto del mondo visto dalla stiva:
“Come cantare canti in terra straniera? (Sal. 137,4).
50 anni dopo…
I pretioperai potrebbero anche concludere la loro parabola, però i problemi posti con la loro scelta di vita rimangono pressoché intatti. A titolo di esempio riportiamo uno stralcio del Messaggio inviato al termine dello scorso anno dalla comunità di Bose: “Oggi ci pare che la tentazione più seria che colpisce i testimoni del Signore… venga dall’irresistibile fascino della religione civile. È il fascino di un cristianesimo visto innanzitutto come cultura di un popolo, addirittura di un’identità nazionale, che assicura il ricompattarsi della società e che si ammanta di evidenti risultati culturali: una presenza cristiana che inevitabilmente apparirà sempre più come declinazione dell’equazione ‘cristianesimo uguale occidente’…
Purtroppo, come denunciava alla vigilia della sua morte Giuseppe Dossetti, oggi sono aumentati ‘quanti pensano che la fede non possa sostenersi senza l’appoggio dei poteri, senza politiche culturali, senza organicità sociale che la presidi e la difenda’, senza, insomma, diventare civiltà cristiana, ‘religione civile’ ”.
Non è questa una via maestra per rifare il… lifting della maschera di Dio?
Il titolo del messaggio è una domanda significativa: “Che ne sarà del cristianesimo?”. È la medesima domanda che è stata posta dai pretioperai nel loro lungo cammino.