Editoriale


 


“In tempi oscuri ci aiutano quanti hanno saputo
camminare durante la notte”
(E. Sabato)

“Chi ha consapevolezza costruisce la propria ora,
non aspetta che accada”
(canzone brasiliana)

Questo numero nasce dall’incontro nazionale dei pretioperai avvenuto nell’aprile scorso a Bergamo. Sono riportati alcuni degli interventi ed anche contributi particolari offerti come piccole icone, quasi finestre aperte per offrire orizzonti.
Il titolo dell’incontro, “Reinventare la vita: tra continuità e discontinuità”, può sembrare strano, forse presuntuoso, nonché soggetto a fraintendimenti. In maniera molto semplice è stato scelto a partire dal cambiamento della situazione materiale della nostra vita. La grandissima maggioranza dei pretioperai ha varcato la soglia della pensione, evento che per chiunque rappresenta una cesura importante nella vita. Anche negli altri paesi europei è avvenuta la stessa cosa. In Francia i pretioperai ancora in attività sono poche decine, mentre i pensionati sono centinaia. I giovani preti che aderiscono a questa prospettiva di vita si contano sulle dita. Un piccolo resto per dirlo col profeta Isaia.
I pretioperai sono comparsi nell’Europa emersa dalle rovine della seconda guerra mondiale: industrializzata e ricca ma con forti conflitti del lavoro, secolarizzata ma con chiese strutturate e potenti, con un movimento operaio cresciuto in gran parte al di fuori del mondo cristiano, ma con al suo interno una tensione verso la giustizia sociale e la solidarietà tra compagni di lavoro. Una presenza che dura da oltre 60 anni. Da subito i pretioperai sono apparsi come elemento di contraddizione dentro la chiesa ed anche al di fuori delle sue mura.
Vi è chi pensa che “il movimento dei pretioperai doveva istituzionalizzarsi” evocando la necessaria routinizzazione del carisma, secondo la lezione di Weber, perché questo è il destino di ogni movimento per poter durare nel tempo (vedi ad es. in Pretioperai 62-63/2002). Alla prova dei fatti sembra che neppure il gruppo transalpino, il più numeroso ed antico, quello maggiormente consolidato e strutturato, integrato in un dialogo aperto e continuativo con i rappresentanti dell’episcopato francese, riesca ad evitare la grave crisi di nuove vocazioni. Si affaccia quindi, anche per loro, la prospettiva dell’insignificanza sociologica sotto il profilo numerico, con la presenza di un piccolo resto ad evocare il senso di un cammino.
La lettura che per me è stata sempre la più convincente è quella che don Sirio Politi annunciava nella pagina che apriva il primo numero della nostra rivista nel lontano 1986. Parlava di “una storia bellissima, così tanto da meritare di essere quasi o tutta raccontata”. Una storia, dunque, una parabola dotata di forza simbolica che si esprime nella fragilità delle vicende umane nella grande corsa del tempo. La logica non è quella dell’efficienza misurabile – l’ottica della sociologia della religione, dei movimenti o delle istituzioni – ma piuttosto quella che troviamo diffusa nella Bibbia: esistenze e generazioni che vivono e raccontano, cogliendo l’ora, il Kairòs, che va compiuto dentro la storia e negli anni nei quali è dato di vivere e disegnando un senso, indicando una direzione. Il cammino tracciato, “la storia che merita di essere raccontata” vanno oltre le proprie vicende personali o di gruppo, per dare forma a qualcosa che indica un possibile vantaggio per tutti (per i molti direbbe il Vangelo di Matteo). Nel loro midollo intimo i pretioperai rappresentano, in vasi di creta, l’incarnazione di una parabola evangelica che appare nella crisi del XX secolo e nella transizione di un mondo la cui figura è in rapido cambiamento. Le parabole di Gesù utilizzano elementi della vita quotidiana nella semplice laicità ed immediatezza del loro offrirsi per raccontare i segreti del Regno (il grano seminato nel terreno, la pesca nel lago, il lievito nella farina, la donna che cerca la moneta in casa, il lavoro degli operai a giornata…). Ecco: in decenni di vita quotidiana di lavoro, comune a uomini e donne di tutto il mondo, crediamo di avere appreso qualcosa di importante da raccontare, non tanto per noi stessi, ma per i molti. Qui offriamo qualche accenno che indirizziamo anche a quanti svolgono importanti responsabilità nell’ambito delle comunità cristiane, delle quali devono rispondere direttamente al Signore. E, come dice la Bibbia: “chi ha orecchi ascolti”!


Il peso delle condizioni materiali della vita

 
E’ determinante rispetto al pensare, al sentire, all’apprezzamento da attribuire alle cose. Chi vive soltanto del proprio salario sa bene quale sia il reale valore dei soldi: per campare e mantenere la famiglia, non per accumulare o scialare. Chi ha il lavoro a rischio conosce l’angoscia, la solitudine, l’impotenza e il buio verso l’ignoto e soffre della impossibilità di fare qualsiasi progetto.
Chi è costretto a dipendere dagli altri sperimenta “come sa di sale lo pane altrui”.
Molti di quelli che lavorano conoscono che nelle condizioni in cui operano sono esposti a malattie professionali, al precoce invecchiamento, ad un futuro incerto…
Lavorare in fabbrica, nei cantieri ed anche nei servizi per tanti anni significa l’esposizione quotidiana a ferite e bruciature che minano la propria integrità, la propria gioia di vivere, la stima di sé e l’equilibrio nel rapporto con gli altri.
Nel mondo “il lavoro ogni giorno uccide più delle guerre e degli incidenti stradali” (vedi editoriale di Pretioperai 64/2004). Rispetto al resto dell’Europa l’Italia è al primo posto nella percentuale di infortuni e di morti sul lavoro (circa 4 al giorno). Su questo domina l’oblio e l’oscuramento dell’attenzione pubblica. Mai visto un funerale di stato per i caduti sul lavoro (a dire il vero neppure per decine di militari che hanno avuto la sfortuna di morire di leucemia o tumore causate dall’uranio amico, invece che dal fuoco nemico). Mai visto un volantinaggio nelle chiese per la difesa della vita sul lavoro.
Ecco, aver fatto il preteoperaio per oltre 30 anni significa che queste cose non si scollano più dalla pelle e dal pensiero e si fiuta a distanza di miglia i trucchi ignobili dell’industria culturale che occulta totalmente queste realtà, creando mondi illusori. Mentre sul fronte della spiritualità, di matrice cristiana, ma non solo, diventano intollerabili le rimozioni alle quali sono condannati gli elementi che appartengono alle condizioni materiali, e dunque anche esistenziali e spirituali delle persone, come pure i rapporti reali di dominio e sfruttamento del lavoro, di adulti e bambini, uomini e donne, che esistono sotto tutti i cieli del mondo. Nell’economia dominante il lavoro umano è ridotto a merce, eppure non esiste produzione di valore reale che non sia frutto di lavoro. Il “fattore umano” scompare mentre il “pensiero unico” capitalista si è impiantato come un assoluto indiscutibile.
La condizione di vita condivisa per tanti anni ci ha messi sulla lunghezza d’onda del mondo reale popolato da gran parte dell’umanità e non ci è più possibile credere o pensare prescindendo da quello che continua ad accadere nei “sotterranei della storia”, nelle pieghe nascoste dove le voci sono condannate al silenzio.

Può essere utile citare una sottolineatura a proposito del fare teologia, della sua crisi e delle possibilità di ritrovare veramente se stessa a partire dalla sofferenza reale vissuta dalle popolazioni: “Essa (la crisi della teologia) è in rapporto con l’assenza di luogo caratteristica della teologia nella società democratica post-moderna…invece di considerare in modo nuovo la questione del luogo della teologia nella società sulla base di teologie del soggetto post-idealiste, per es. la teologia politica e le teologie della liberazione, i teologi fuggono sempre più in un nuovo pensiero sistematico. E’ pur vero che nel discorso di questi neoidealismi si prende in considerazione la libertà, ma al temine ‘liberazione’ si dà tutt’al più un’importanza secondaria. Che queste teologie siano entrate in crisi, è fin troppo evidente perché un simile discorso sulla libertà perde sempre più di significato per la gente, restando pur sempre legato a un concetto troppo astratto, e così la tendenza sociale oggettiva, che produce sofferenze concrete, può agevolmente considerare morto questo discorso sulla libertà.
La teologia «ritrova se stessa quando smette di essere un espediente per occuparsi dei problemi dei teologi, e diventa un metodo, gestito dai teologi, per interessarsi dei problemi degli uomini». Per essere all’altezza di questo compito, la teologia dovrebbe essere rielaborata con più forza come uno strumento che aiuti a dare voce ai senza voce. Alle «sorgenti del Sé» ( Ch. Taylor ) una teologia perviene, in realtà, non attraverso filosofie idealistiche, ma soltanto se e quando essa parla della sofferenza quotidiana, spesso nascosta o addirittura liquidata come una cosa banale. Il suo compito politico consisterebbe in primo luogo nell’aiutare le persone a verbalizzare i propri pensieri e sentimenti…a rendere visibili le sofferenze…” (J. Manemann, La permanenza della teologia politica, in Concilium 3/2005 67-68).

Anche noi, come già altri hanno sostenuto, affermiamo che deve essere riconosciuta nel cristianesimo la cattedra di coloro che soffrono e lottano ogni giorno nelle situazioni concrete, sociali e storiche, cercando una vita che possa dirsi umana. Significa porsi davvero in ascolto, riconoscendo loro effettiva autorevolezza. E’ condizione indispensabile perché il cristianesimo non evapori nell’astrattezza o addirittura non si collochi come religione teologica dei vincitori (Metz).


“Giustizia, il valore più alto della vita” (von Rad)


Nel linguaggio quotidiano di casa nostra la giustizia è stata confinata nello stretto recinto dei giudici e nel conflitto tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario. Anche nei discorsi che si fanno in chiesa raro è l’uso di questa parola, riferita al rapporto tra gli umani, mentre inflazionato è il ricorso ai termini amore, carità, ecc. Quando se ne parla capita di sentir dire che amore e carità sono più della giustizia, perché questa esprimerebbe solo un minimo, mentre i primi due un massimo. Addirittura “la carità nella comune accezione è stata ed è intesa quasi come un’alternativa alla giustizia dovuta” (Sergio Quinzio).
Su questo punto scottante ed urgente offro in sintesi brevi cenni, rimandando agli autori citati.
Secondo von Rad. “non vi è nell’Antico Testamento nessun concetto d’importanza così centrale per tutti i rapporti dell’esistenza umana come quello di giustizia…. Si può senz’altro definire come il valore più alto della vita, come ciò su cui ogni vita poggia quando è nell’ordine” (G. Van Rad, Teologia dell’Antico Testamento, Brescia 1972, 418).
Mi sembra anche utile riportare un testo della Weil perché mette bene in luce le conseguenze perverse che derivano dalla separazione tra amore e giustizia. “Il Vangelo non fa alcuna distinzione tra l’amore del prossimo e la giustizia. Siamo noi che abbiamo inventato la distinzione tra giustizia e carità. E’ facile capirne il perché: la giustizia, come noi l’intendiamo, dispensa dal dare colui che possiede…. Bisogna tener conto che nessuna bontà può andare oltre la giustizia, a meno di diventare una colpa sotto una falsa apparenza di bontà.”
 (S. Weil, Attesa di Dio, Milano 1972, 106-107. E’ utile la lettura dell’intero capitolo dal titolo Forme dell’amore implicito di Dio).

Sulla relazione tra Antico e Nuovo Testamento è illuminante la riflessione di Rizzi: “Il ‘vivere secondo giustizia’ viene ora (nel nuovo testamento) tradotto nella terminologia dell’agape, e sotto la mutazione semantica sta indubbiamente una mutazione d’accento: dal promuovere il prossimo in obbedienza alla volontà di Dio, al promuoverlo in forza dell’amore che viene Dio. Ma di accento appunto si tratta… due facce che, insieme, sono costitutive della stessa realtà.” (A. Rizzi, Pensare la carità, Fiesole 1995, 50-51).
Il capitolo che porta il titolo significativo: L’amore come giustizia, sviluppando l’identità tra i due termini, si conclude con queste parole: “Partire dagli ultimi vuol dire considerare la giustizia come l’orizzonte ultimo. Non c’è nulla oltre la giustizia; c’è solo il dispiegamento integrale nella gloria” (p. 58).
Sono soltanto brevi accenni, ma sufficienti per orientare il necessario sguardo sul mondo e sugli effetti della organizzazione prodotta dalle decisioni umane. Questa, infatti, è la destinazione della parola biblica: illuminare i nostri occhi per conoscere il mondo sullo sfondo dell’orizzonte ultimo
“Ogni minuto di ogni giorno, 22 bambini al di sotto dei cinque anni muoiono per mancanza di cibo, di acqua potabile, di medicine di base; ogni minuto di ogni giorno, 3,5 milioni di dollari se ne vanno in spese militari; ogni giorno, un miliardo di persone cerca di sopravvivere con meno di un dollaro; nel 2025 i due terzi della popolazione mondiale non avranno accesso all’acqua se continuiamo a consumarla con il ritmo attuale.” (
L.M. Saffiotti, Ministri e ministero nella chiesa, Rischiare la Parola, in Il Regno 14/2005, 490).
Non mi soffermo ulteriormente sui dati, facilmente reperibili in varie combinazioni e raffronti, da fonti attendibili. Nel nostro tempo «il mondo è in extremis», come dice David Couturier, frate cappuccino, con questa immagine efficace e veritiera che rappresenta l’immane sofferenza che grava sull’umanità. (
D.B. Couturier, “Itinerarium in Extremis: Franciscan Formationand teh Anthropology of the Fraternal Economy”, Relazione al VII Consiglio plenario dell’Ordine, Assisi 13.3.2004). 
Ora, non è possibile annunciare alcun Vangelo se non assumendo in pieno ed in via prioritaria l’impegno della giustizia nel mondo. Oltre a scelte precise, questo impone anche una revisione del linguaggio, cominciando col prendere coscienza della banalizzazione e consunzione che hanno subito le parole amore, carità, solidarietà…a fronte dell’eclissi della parola giustizia dopo essere stata da esse scissa ed emarginata e attuando una effettiva resistenza al potente condizionamento culturale prodotto in maniera capillare dalla “religione del mercato”.

In una lunga e dotta intervista pubblicata su Il Regno 14/2005, 425-440, Il card. Scola, patriarca di Venezia, nomina una sola volta la parola giustizia e in questi termini: “Anche dopo l’89 la fisionomia dell’uomo contemporanea è cambiata, non è più quella della modernità. Mi pare infatti che la nostra epoca post-moderna sia meglio interpretata dalla categoria del travaglio, con la conseguente prospettiva gioiosa del parto, che da quella della crisi. Se ragione e giustizia erano le parole più diffuse della modernità, oggi esse sono state sostituite da felicità e libertà. Come mai forse in altre epoche, oggi per la Chiesa c’è la possibilità di intercettare domande che prima non emergevano”. Convengo con lui sul fatto che giustizia oggi non è parola diffusa. Ma il problema vero si pone al livello della realtà delle cose ed alla paurosa sordità ed indifferenza dinanzi al grido che sale da un mondo prigioniero dell’ingiustizia.

Non è più possibile parlare di amore se non dichiarando contestualmente che esso è giustizia da compiersi, non episodicamente, ma come asse centrale connesso con la rivelazione dell’antico e nuovo testamento.
Occorre partire dalla consapevolezza “della nostra tragica situazione”, assumendola come un chiaro segno dei tempi.

“L’idea pervicace, ma a mio modo di vedere estremamente debole, è che «i segni dei tempi» debbano sempre essere per loro natura, segni positivi, segni di un futuro radioso, Gesù invitava a riconoscere i segni dei tempi, e venne la croce. Neanche dopo duemila anni è lecito dimenticarlo” (S. Quinzio, Il «tempio»si faccia consapevole della tragica situazione umana. E parlerà agli uomini d’oggi, in Italia, il fattore C, in Adista 69-70/1995, 11-12).

Non è un optional, ma è quello sul quale avviene il giudizio dell’unico Signore, secondo la parola di Matteo (25, 31-46). Anche le chiese, non solo i singoli, sono sottoposte a questo giudizio, che viene emesso sulle “omissioni di soccorso”. La parola non pronunziata da chi ha il mandato di annunciarla lo riduce a sale insipido e a luce occultata. La condanna è l’assoluta inutilità.


Clericalismo: ostacolo al Vangelo

 
Noi conosciamo il clericalismo perché siamo chierici. L’abbiamo vissuto e lo viviamo ancora sulla nostra pelle. L’immersione nella laicità del lavoro è stato come un acido corrosivo, per usare una espressione uscita in uno dei nostri convegni, che lo ha profondamente intaccato. Però non siamo sicuri di esserci davvero e fino in fondo liberati.
Di una cosa, tuttavia, siamo certi: il clericalismo rappresenta un ostacolo al Vangelo perché lo riduce, lo circoscrive, lo mescola ad interessi particolari, lo vincola ad un relativo incrinando l’assolutezza e nitidezza della parola. L’eroismo e la povertà dei santi non basta a riscattare una storia pesante che ha accompagnato il cristianesimo. Nel periodo post-conciliare se n’è parlato in lungo e in largo. Le radici del clericalismo sono molto profonde ed attive. Non sono solo un residuo del passato. Anzi…! Qui si offre solo qualche cenno di carattere generale.
 
1. Maggiorazione della tradizione. “Ciò che caratterizza la storia dell’idea di tradizione della chiesa…è una tendenza spontanea e irreversibile a maggiorare l’importanza della tradizione della chiesa quale si incarna nelle sue istituzioni, nella sua disciplina e, soprattutto nei suoi insegnamenti. Questa tendenza è il «male cattolico»”.

(A. Naud, Il magistero incerto, Brescia 1990, 19-20). E continua: “Un male profondo, grave, ben radicato, divenuto come una seconda natura. Noi definiamo il male cattolico come la congiunzione di un pensiero sulla tradizione imperfettamente formulato con dei modi di pensare spontanei e delle pratiche – teologiche e pastorali – che vanno tutte nel senso di una esagerata maggiorazione dell’autorità della tradizione della chiesa intesa nel senso più ampio”.

Nel corpo dirigente della chiesa con le sue forme di rappresentanza, nella figura dominante del ministro ordinato si addensano incrostazioni o “maggiorazioni” che non hanno nulla di teologico e sono lontane dalle caratteristiche del servizio al Vangelo come emergono dal nuovo testamento. La relazione popolo di Dio – pastori rimane squilibrata, con una perdita per tutti.
La nostra esperienza di pretioperai ci attesta che le frizioni con l’ambiente ecclesiastico, non hanno tanto riguardato la nostra fede o l’annuncio del Vangelo, quanto la diversità che si è in noi configurata. A seguito dell’inserimento pieno nel mondo del lavoro, nel contatto diretto e continuo con la secolarizzazione nei vari ambiti, compresa la nostra libertà di movimento in ambito politico e sociale, al di fuori di ogni controllo dall’alto, lo stile di vita ha avuto un processo di semplificazione e di spoliazione, difficilmente inquadrabile nel modello presbiterale dominante. La nostra semplice appartenenza al mondo dei lavoratori, cioè ad un “mondo altro”, con i suoi interessi, cultura, modalità di aggregazione, lotte… ha rappresentato l’acquisizione di un nuovo habitus con un rapporto più paritario, meno clericale, con le persone. Non è scomparsa in noi la dimensione ministeriale, ma essa, mediante la condivisione di vita quotidiana con i suoi tempi e difficoltà, è diventata più spoglia ed essenziale.

 
2. Ideologia. La ricerca biblica ha messo in luce che il processo di tradizionalizzazione che ha portato ai testi canonici è profondamente permeato dall’ideologia, cioè da interessi particolari, non solo economici, legati ai momenti storici, al genere, alle distinzioni etniche ecc. che inevitabilmente si accompagnano ai soggetti umani. Una corretta ermeneutica non può prescindere da questi elementi nel proprio lavoro interpretativo. (W Brueggemann, Introduzione all’antico testamento, Torino 2005, 24).
La medesima cosa, cioè la presenza di ideologia portatrice di interessi di gruppo, si può riscontrare come dato di una lunga tradizione ed anche come realtà attualmente presente nella classe dirigente della chiesa fino ai più modesti incarichi ecclesiastici. Fingere l’immunità dall’ideologia e mettere tutto sotto l’ombrello del “servizio a Dio e al bene delle anime” è un pessimo favore fatto alla nitidezza del Vangelo.

Sarebbe conveniente per la chiesa italiana fare un esame di coscienza confrontandosi con un testo (dimenticato) della Gaudium et spes: “(la chiesa) non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità civile. Anzi essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove esigenze esigessero altre disposizioni” (76).

La nostra esperienza ci ha fatto scoprire, ad esempio, la libertà che proviene dalla “gratuità” del ministero, resa per noi possibile dalla scelta del lavoro. E ci ha fatto apprezzare in pieno la testimonianza di S. Paolo che lavora con le sue mani, scindendo chiaramente gli atti ministeriali da forme di retribuzione. Qual posto nella chiesa viene riservato a questa tradizione paolina?

 
3. Un frammento della Weil mi sembra debba farci molto pensare:
“Scivolamento terribilmente facile. Una Chiesa è una collettività. E coloro che credono al Cristo a causa della Chiesa, e non il rovescio, sono degli idolatri” (S. Weil, Écrits de Londres et dernières Lettres, Paris 1957, 158).
Il rovescio: unica possibilità per rimanere nella chiesa in maniera non idolatrica è unicamente la fede in Gesù Cristo, escludendo qualunque altro motivo o interesse particolare (autorità, sicurezza, identità, appartenenza, spirito di corpo, convenienza, civiltà ecc.).
Ne deriva che un “eccesso” di chiesa, con la pesantezza di presenza che ne consegue, non riflette la luce di cui parla la Lumen Gentium, ma diventa occupazione ed oscuramento.

Mi pare utile riprendere un appunto del compianto Mario Cuminetti che risplende di lucentezza folgorante:
“In fondo il problema delle chiese (e delle religioni) è quello dello statuto da dare alla presenza – assenza di Dio. La scrittura, ma anche la chiesa, è prodotta da un lutto. L’assente fa scrivere. Non cessa di scriversi. Colui che dovrebbe esserci non c’è. Da qui l’antica preghiera cristiana: ‘che io non sia separato da te’ ‘ Maranethé’ (= Signore vieni). Il rischio è di riempire questo lutto con una presenza (quella della chiesa). Recuperare la laicità è recupero del lutto… Ma bisogna star qui, non fuggire, non superare la soglia. E’ la condizione di tutti. La chiesa ha preteso di superarla” (23.9.93 in Per Mario).

Nell’ebraismo l’attesa del Messia viene rappresentata da un posto a tavola che deve rimanere“vuoto” .
Anche nell’Apocalisse la parola ultima messa sulle labbra della sposa è “Vieni”. La rivelazione scritta si chiude con questa invocazione ripetuta per tre volte.


Un Cristo con il volto di Gesù di Nazareth

 
Quest’ultimo punto lo affido a due citazioni senza aggiungere commenti.
La prima denuncia la forma centrale di “eccesso” nella chiesa che trova la fondamentale motivazione nell’oscuramento del volto di Gesù:
“Il deficit cristologico…si concretizza nel richiamo ad un Cristo senza Gesù, che per questo non ha volto, e si trasforma in un’aureola di divinità alla quale si può dare il volto del potere ecclesiastico, che viene così sacralizzato. In questo modo si disconosce l’affermazione fondamentale delle prime confessioni di fede: «il Cristo è Gesù», «il Signore è Gesù». E’ il volto di Gesù quello che dà contenuto alle categorie di potere e di messianicità; non il contrario…Dimenticando Gesù, la sapienza di Dio (1 Cor. 1,30) rimane priva di volto e viene tacitamente sostituita dalla sapienza del potere mondano. L’abbassamento di Dio in Gesù (Fil. 2,7) viene sostituito dalla trasfigurazione della classe ecclesiastica in potere sacro” (J.I. Gonzàles Faus, Crisi di credibilità nel cristianesimo in Concilium 3/2005, 56-57).

Il secondo testo è dell’allora mons. Ratzinger, arcivescovo di Monaco che manifesta il suo pensiero parlando di Nazareth e di padre Charles de Foucauld. Cita una lettera del piccolo fratello inviata alla sorella dalla Siria: “lavoriamo come i contadini, lavoro infinitamente proficuo per l’anima, durante il quale si può pregare e meditare…Si comprende bene cosa sia un pezzo di pane quando si sa per esperienza quanta fatica costa il fabbricarlo…”.
Il futuro papa commenta: “Charles de Foucauld, seguendo le tracce dei ‘misteri della vita di Gesù’ ha trovato il lavoratore Gesù. Ha incontrato il vero Gesù storico…Laggiù, nella meditazione vivente su Gesù, si aprì, così, una nuova via per la Chiesa. Perché lavorare con il lavoratore Gesù e immergersi in ‘Nazareth, costituì il punto di partenza dell’idea della realtà del prete al lavoro. Fu per la Chiesa una riscoperta della povertà. Nazareth ha un messaggio permanente per la Chiesa. La Nuova Alleanza non comincia nel Tempio, né sulla montagna santa, ma nella piccola casa della Vergine, nella casa del lavoratore, in uno dei luoghi dimenticati della ‘Galilea dei pagani’, dalla quale nessuno aspettava qualche cosa di buono. Solo partendo da lì la Chiesa potrà prendere un nuovo slancio e guarire. Non potrà mai dare la vera risposta alla rivolta del nostro secolo contro la potenza della ricchezza, se nel suo seno, Nazareth non è una realtà vissuta” (
I piccoli fratelli, 2/2005). 9-10.
Caro papa Ratzinger: la chiesa deve ripartire da Nazareth per guarire. E’ un peccato giovanile o è somma sapienza?

Roberto Fiorini


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