REINVENTARE LA VITA: TRA CONTINUITA’ E DISCONTINUITA’
Incontro nazionale PO / Bergamo / 28-30 aprile 2005


 

Sabato mattina, 30 aprile, ultima giornata del nostro incontro nazionale, è arrivato tra noi Arturo Paoli in forma sorprendentemente “fresca e giovanile”, alla faccia dei suoi oltre novant’anni.
Stupisce e affascina sempre la sua spontanea chiarezza di esposizione, la sua lucidità penetrante nel valutare eventi e persone, la sua contemporaneità a tutto campo.
Con l’avanzare degli anni è diventato sempre più sensibile alle intersezioni e alle interferenze che non alle opposizioni e rotture: la sua fedeltà però al dire comunque sempre “si si, no no” (perché il resto viene dal nemico!) non viene mai meno. Dimostra una libertà interiore fantastica: si vede che vuole proprio “essere vivo fino alla morte”.

 

Come vedo il futuro

Così ha cominciato la sua conversazione. Non essendo stato registrato il suo intervento, evidenzio dalle mie annotazioni due pensieri attorno ai quali mi sembra si possa riassumere quanto ci ha comunicato, sapendo di ridurre molto l’ampiezza e profondità delle sue argomentazioni e la genuinità del suo linguaggio: me ne scuso.


Quale futuro per la Religione?

Usciamo da un lungo pontificato che per la Chiesa è stato come un “tempo di sosta”. Papa Wojtyla ce l’ha messa tutta per ricoprire il Concilio Vaticano II per renderlo innocuo, perché non risvegliasse i problemi: ed ha lasciato la Chiesa con tutti i suoi problemi, senza mettere in azione alcun vero tentativo di soluzione.
L’attuale Papa Benedetto XVI sarà capace di accettare la “svolta già in atto”, e non credere di essere lui a fare la svolta? Non può pretendere di avocare unicamente a sé e alla Chiesa il compito di progettare il cambiamento.
La sfida che la cristianità oggi è chiamata ad affrontare è questa: come cominciare ad essere cristiani a prescindere dai dogmi? A tale scopo sarebbe benefico per tutti rileggere e meditare l’incontro di Gesù con la samaritana. C’è infatti una forte dissonanza tra la vitalità, l’antidogmaticità, la potenza interrogante dell’annuncio evangelico e le formule o pronunciamenti del magistero ecclesiastico che spesso non fanno che incapsulare, e quindi governare la spinta rivoluzionaria del Vangelo.
Inoltre la “spinta di libertà” è il movimento di fondo del mondo moderno che nessuno può arrestare o costringere dentro i lacciuoli di un qualsiasi magistero, laico o ecclesiale che sia.
“Credere con la Chiesa” non significa doversi adeguare e attenere unicamente ai dettami della Gerarchia. Nel Vaticano II la Chiesa è definita “Popolo di Dio”: e lo Spirito Santo è stato effuso e guida tutto il Popolo di Dio.
Se Papa Ratzinger starà ad aspettare o rincorrere gli eretici, perderà tempo: perché la società d’oggi è antidogmatica.


Dio è relazione

La cultura occidentale/metafisica (giudicare la realtà dall’alto, da fuori, dal mondo degli assoluti) ha fortemente travisato la cultura biblica.
Quando il Vangelo ha cominciato ad essere accolto e tradotto nella “cultura metafisica” si è enormemente sviluppato a livello ideologico, ma ha perso il suo mordente, è stato cioè disincarnato: ha prodotto cristiani culturalmente elevati, ma incapaci di giustizia, cioè praticamente disumanizzati. Infatti le ingiustizie attuali si sono affermate, realizzate in un mondo cristiano: la Religione ha cominciato ad interessarsi delle anime!
Nell’annuncio evangelico la centralità è occupata dall’uomo storico: il Dio che si fa uomo (Fil. 2,5-11 9). Gesù non ha mai polarizzato la nostra attenzione su una Verità “fuori”: non ha mai parlato di Dio come essere, ma solo come relazione, come Padre in relazione con il Figlio e lo Spirito Santo. Un Dio che si conosce in cammino, nella esperienza; è il Dio che conosci nell’Esodo: che ascolta il grido del suo popolo, che lo libera dalla schiavitù, che lo guida, che fa con lui un’alleanza eterna (“Io sarò il tuo Dio, e tu sarai il mio popolo”).
Ne consegue perciò che la nostra identità di credenti in “questo Dio” si realizza attraverso le relazioni umane: è il fatto di essere relazione che obbliga l’uomo ad essere vero, cioè ad essere capace di convivere e amare. E la verità risveglia la responsabilità. La teologia del futuro non può se non essere “Teologia della liberazione”: partecipare alla passione dei propri simili, condividerne le sofferenze e le gioie, camminare con il povero e il bisognoso, perché su questo saremo giudicati.

 

Gianni Alessandria


 

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