La chiesa dei poveri
Il testo che segue non è un documento conciliare, né avrebbe potuto esserlo, se non altro perché non intende neppure proporsi come un insegnamento della Chiesa, ma semplicemente come un impegno solenne di un gruppo di vescovi presenti al concilio. Fu reso pubblico durante l’ultima sessione del Vaticano II, alla fine del novembre 1965.
E dai padri conciliari fu conosciuto con il nome di “schema XIV”, in riferimento allo “schema XIII”, che proprio in quel momento veniva discusso nell’aula conciliare, trasformandosi in seguito nello stesso testo della “Costituzione sulla Chiesa e il mondo”, ovvero la Gaudium et spes.
Lo aveva preparato un gruppo di vescovi che si era periodicamente riunito durante i quattro anni del concilio per studiare il tema della Chiesa dei poveri. Quando esso fu reso noto, più di cento vescovi vollero sottoscriverlo (e tuttavia non ci è possibile stabilire quanti, infine, vi abbiano poi realmente aderito). Il riconoscimento di “deficienze” e l’elenco di proponimenti che il documento presenta, mettono in evidenza ancora una volta l’intensità di quella ricerca di conversione, che abbiamo più volte segnalato come carattere distintivo di questo secolo.
(Le lingue originali di questo documento furono il francese e il latino. Per la nostra traduzione italiana ci siamo anche serviti di: H. FESQUET, Diario del Concilio. Tutto il Concilio giorno per giorno (ed. it. a cura di Ettore Masina, Milano 1967)
Noi vescovi, essendo stati illuminati sulle deficienze della nostra vita per ciò che riguarda la povertà evangelica, incoraggiandoci gli uni gli altri in una medesima iniziativa nella quale ciascuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione, Uniti ai nostri fratelli nell’episcopato, contando soprattutto sulla forza e la grazia di nostro Signore Gesù Cristo e sulla preghiera dei fedeli e dei preti delle nostre rispettive diocesi, ponendoci con il nostro pensiero e la nostra preghiera di fronte alla Trinità, di fronte alla Chiesa di Cristo, di fronte al sacerdoti e al fedeli delle nostre diocesi, nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza, ma anche con tutta la determinazione e la forza della quale siamo sicuri che Dio voglia darci la grazia, ci impegniamo a quel che segue.
l. Noi cercheremo di vivere secondo lo standard di vita ordinario delle nostre popolazioni per quel che riguarda l’abitazione, il cibo, i mezzi di comunicazione e tutto ciò che vi è connesso (cf. Mt 5,3; 6,33; 8,20).
2. Noi rinunziamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente nelle vesti (stoffe di pregio, colori vistosi) e nelle insegne di metalli preziosi (questi segni devono essere effettivamente evangelici) (cf. Mc 6,9; Mt 10,9; At 3,6).
3. Noi non avremo proprietà né di immobili né di mobili né conti in banca o cose del genere a titolo personale; se sarà necessario averne, le intesteremo tutte alla diocesi o a opere sociali o caritative (cf. Mt 6,19; Lc 12,33).
4. Noi affideremo ogni volta che sia possibile la gestione finanziaria e materiale della nostra diocesi a un comitato di laici competenti e coscienti del loro ruolo apostolico, per poter essere meno degli amministratori che dei pastori e degli apostoli (cf. Mt 10,8; At 6,1-7).
5. Noi rifiutiamo di lasciarci chiamare oralmente o per iscritto con nomi e titoli che esprimano concetti di grandezza o di potenza (per esempio: eminenza, eccellenza monsignore). Preferiamo essere chiamati con l’appellativo evangelico di «padre».
6. Nel nostro modo di comportarci, nelle nostre relazioni sociali eviteremo ciò che può procurarci privilegi, precedenze o anche di dare una qualsiasi preferenza ai ricchi e ai potenti (per esempio: banchetti offerti o accettati, «classi» nei servizi religiosi ecc.) (cf. Lc 13,12-14; 1Cor 9,14-19).
7. Noi eviteremo anche di incoraggiare o di lusingare la vanità di chiunque con la prospettiva di ricavarne ricompense o regali o per qualunque altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare le loro offerte come una normale partecipazione al culto, all’apostolato e all’azione sociale (cf. Mt 6,2-4; Lc 15,9-13; 2Cor 12,14).
8. Noi dedicheremo tutto il tempo necessario al servizio apostolico e pastorale delle persone o dei gruppi di lavoratori che sono in condizioni economicamente inermi o di sottosviluppo, senza che questo noccia ad altre persone o gruppi della diocesi. Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi e i preti che il Signore chiama a evangelizzare i poveri e gli operai e a condividerne la vita operaia e il lavoro (cf. Lc 4,18; Mc 6,4; Mt 11,45; At 18,4; 20,33; 1Cor 4,12; 9,1).
9. Coscienti delle esigenze della giustizia e della carità e dei loro mutui rapporti, noi cercheremo di trasformare le opere di beneficenza in opere sociali, basate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze come un umile servizio degli organismi pubblici competenti (cf. Mt 25,31; Lc 13,12-14; 33-34).
10. Noi faremo di tutto perché i responsabili del nostro governo e dei nostri servizi pubblici stabiliscano e applichino leggi sociali e promuovano le strutture sociali necessarie alla giustizia, all’eguaglianza e allo sviluppo armonioso e totale di ogni personalità in tutti gli uomini e giungano con questo allo stabilimento di un nuovo ordine sociale degno dei figli dell’uomo e figli di Dio (cf. At 2,44; 4,32-35; 5,4; 2Cor 8-9).
11. Considerato che la collegialità dei vescovi trova la sua più evangelica realizzazione nel farsi carico tra tutti delle masse umane in stato di miseria fisica, religiosa e morale – i due terzi dell’umanità –, noi ci impegniamo:
a) a partecipare, in ragione dei nostri mezzi, alle spese urgenti degli episcopati delle nazioni povere;
b) a favorire, conformemente al piano delle organizzazioni internazionali, ma come testimoni del Vangelo, come fece il papa all’ONU, la creazione di strutture economiche e culturali che non continuino a determinare nazioni proletarie in un mondo ogni giorno più ricco, ma che permettano alle masse povere di uscire dalla loro miseria.
12. Noi ci impegniamo a dividere nella carità pastorale la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, preti, religiosi e laici, perché il nostro ministero sia un vero servizio. A tale fine:
a) noi ci sforzeremo di «rivedere» la nostra vita con il loro aiuto;
b) prepareremo dei collaboratori per poter maggiormente animare il mondo;
c) cercheremo di essere più umanamente presenti e accoglienti;
d) ci mostreremo aperti a tutti, quale che sia la religione di ciascuno (cf. Mc 8,34; At 6,1-7; 1Tm 3,8-10).
13. Ritornati nelle nostre rispettive diocesi, noi faremo conoscere ai nostri diocesani queste nostre decisioni, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere.
Che Dio ci aiuti a essere fedeli.
Nel citare questo splendido testo. J.L. Martín Descalzo (Un periodista en el Concilio, Madrid 1966) commenta che non è necessario «aggiungere una sola parola a un documento di questo calibro». Se un cristiano potesse sognare (e sognare in modo evangelico), allora potrebbe forse aggiungere: che peccato che un impegno di questo calibro non sia stato firmato anche dal vescovo di Roma!
Perché quel suo gesto avrebbe allora finito con l’assumere il significato di una conferma nella fede dei propri fratelli, in linea con il compito specificamente affidato dal Signore a Pietro (cf. Lc 22,32).