Bergamo, 27-29 aprile 2006
INCONTRO NAZIONALE 2006 PO E AMICI

“A 40 anni dal Concilio: dov’è la Chiesa dei poveri?”


 

Il gruppo lombardo mi ha chiesto di aprire questo nostro incontro, visto che al tema che ci riunisce ho recentemente dedicato tempo e riflessione per arrivare alla pubblicazione degli ultimi due numeri della rivista. Le mie parole vogliono semplicemente essere un avvio alla condivisione di pensieri ed esperienze su un nucleo generativo che certamente ha avuto uno spazio privilegiato nella nostra vita. Parlare della chiesa dei poveri e della chiesa povera significa per noi attingere ad una sorgente di acqua pura e ad una memoria viva che non ha mai smesso di zampillare.
40 anni nella vita di un uomo sono davvero tanti. In termini biblici significano il trapasso da una generazione all’altra: da quella che è uscita con l’esodo dal paese inospitale dei lavori forzati e della pulizia etnica – che come Mosè non ha potuto andare oltre il monte Nebo – a quella che ha attraversato il Giordano per calpestare la terra della promessa. Per la maggior parte di noi la cesura del Vaticano II si è fortemente impressa nel pensiero e nella biografia: la nostra interpretazione del Concilio si è concretizzata nell’opzione di vivere la fede in Gesù e la stessa appartenenza ecclesiale immersi e mescolati nella storia concreta di uomini e donne alle prese con il lavoro e la fatica quotidiana. Chi di noi non ha portato nel cuore le parole che aprono la Gaudium et spes :
Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono anche le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore …”?
La nostra non è stata un’esperienza temporanea, ma condizione accolta e scelta come itinerario di tutta una vita, rispetto al quale credo che possiamo onestamente dire: “Confesso che ho vissuto”.
Se per noi è passata un’epoca intera, non così accade per i Concili, i cui tempi sono molto più lunghi. A distanza di quasi mezzo millennio il Concilio di Trento non ha ancora smesso di contare.
Noi, in gran parte, siamo stati plasmati sul modello tridentino. Se siamo diventati diversi, percorrendo strade inusuali per i ministri ordinati, possiamo certamente riconoscere l’influenza esercitata dall’evento conciliare che ci ha sorpresi nell’età in cui si adottano gli orientamenti fondamentali della vita. I decenni da noi vissuti sono solo un piccolo tratto di strada mentre l’energia scaturita da quell’evento, che papa Giovanni indicava come una nuova Pentecoste, non ha esaurito la sua capacità propulsiva.
Ricordo lo sconcerto da cui ero preso alla lettura dei primi documenti che uscivano dall’assise conciliare. È stato lo scompiglio dei paradigmi teologici e spirituali sui quali ero stato formato – quelli della chiesa come societas perfecta – arrivando alla convinzione di dover rimettere mano al mio processo formativo e successivamente alla impostazione della mia esistenza in campo aperto ed inesplorato, fuori da recinti protettivi. È stato anche il momento di avvicinamenti importanti e di situazioni nuove che abbiamo avuto il dono di incontrare e siamo pure andati a cercare: terreni sconosciuti nei quali misurarci e trapiantare la vita.
Nel mio caso, ho avuto la fortuna di conoscere di persona ed incontrare mons. Ancel, vescovo ausiliare di Lione, autore di Cinque anni tra gli operai , spesso in Italia per diffondere la spiritualità del Prado. È stato uno dei padri conciliari che partecipava al gruppo della chiesa dei poveri che fin dalla prima sessione del concilio si ritrovava privatamente al collegio belga di Roma, con la presenza trainante di Paul Gauthier, prete operaio a Nazareth. Probabilmente ha funzionato una sorta di “catena umana”– è così che la traditio opera nella quale noi stessi siamo stati coinvolti per diventarne a nostra volta parte attiva.
Sono convinto che l’attuazione da noi realizzata con l’immersione nella condizione operaia, nonostante i limiti ed errori che possiamo aver compiuto, sia stata un atto di obbedienza alle stesse indicazioni emerse dal crogiolo niente affatto tranquillo che si è sviluppato nella dinamica conciliare.
In questo mio intervento offrirò alcuni spunti di riflessione, con abbondanza di documentazione e di riferimenti, che spero utili per avviare i nostri lavori. Naturalmente va messo in conto anche quanto è stato recentemente pubblicato sugli ultimi due numeri di Pretioperai .

CHIESA DEI POVERI: LA PROFEZIA DEL VATICANO II

 

L’ottica fondamentale alla quale mi attengo è quella dichiarata nell’ultimo editoriale di Pretioperai:
Sono convinto che per affrontare seriamente il tema della povertà della Chiesa, essendo insufficiente parlare della Chiesa per i poveri e dei poveri, sia necessario rivisitare con coraggio tutto il lavoro svolto negli intensi anni del Concilio. È da lì che occorre ripartire. Non che manchino importanti contributi successivi, ma il contesto conciliare, nell’ambito della dialettica fiorita in quella adunata universale ed autorevole, aiuta a meglio cogliere la libertà di parola e la collegialità francamente e responsabilmente esercitate nella Chiesa.
Andando oltre i testi ufficialmente deliberati, occorre aprire orecchi ed occhi alla dimensione profetica, cioè quella che sa fiutare l’orientamento di fondo nel senso delle cose nuove che lo Spirito dice alle Chiese. Ebbene il mistero della povertà, nonostante l’enorme mole di lavoro sistematico svolto in quegli anni da padri ed esperti conciliari, di fatto è rimasto un tema isolato, pur avendo lasciato qualche traccia nei documenti deliberati.
È giunta l’ora, a fronte della situazione globale nella quale si trova il mondo, di riprendere in pieno ed assumere fino in fondo il mistero della povertà, che è quello della rivelazione di Dio in Gesù. Forse oggi è rimasta l’unica via da parte della Chiesa per testimoniare, anche come istituzione, che Deus caritas est. Ma questo significa che essa stessa, come istituzione, deve diventare davvero povera. Questo significa liberarsi con decisione dal peso e dall’inerzia di elementi mondani, nel senso di non teologici, che nei secoli si sono accumulati; parimenti diventa sempre più urgente sciogliere l’abbraccio avvolgente e mortale dell’occidente opulento ed abbandonare modelli consolidati ben lontani dallo stile di vita che traspare dal Vangelo”

Dunque mettiamo a fuoco alcuni nodi profetici allora venuti alla luce e che oggi, a distanza di decenni, possiamo meglio apprezzare. La profezia è sempre in relazione al mistero di Dio ed alla sua rivelazione nella storia del mondo. Penso che essa sia una categoria molto utile per interpretare quanto è avvenuto nell’ambito del Concilio a proposito della “Chiesa dei poveri”.

1. Un punto luminoso

Un mese prima dell’inizio del Concilio, l’11 settembre 1962, Giovanni XXIII nel messaggio radiofonico indirizzato ai fedeli di tutto il mondo presentava un orientamento fondamentale, quello che Lui chiamava un punto luminoso:
“In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta quale è, e vuole essere, come la Chiesa di tutti, particolarmente la Chiesa dei poveri”.
In un contesto storico in cui dominava il confronto Est-Ovest (socialismo reale – capitalismo; guerra fredda – rischio di guerra nucleare con l’installazione delle testate nucleari a Cuba…), l’attenzione prima viene posta nel rapporto con la parte del mondo preda del sottosviluppo, secondo la terminologia allora in uso. Questo modo di impostare le cose è stato lungimirante, tanto è vero che conserva ancora intatta una drammatica attualità. Parlando di ‘Chiesa dei poveri’ alla vigilia del momento conciliare, non ci si riferisce, ovviamente, all’ascesi personale, secondo un dominante modulo interpretativo della povertà, ma alla Chiesa nel suo insieme e nel suo apparire “ in faccia ai paesi sottosviluppati”.

2. Alla ricerca di una nuova ecclesiologia

A fronte degli schemi preparatori predisposti dalle commissioni preconciliari, l’assemblea conciliare reagisce, rifiutando il consenso, accettando solo il documento sulla liturgia come testo base su cui lavorare. In particolare lo schema sulla Chiesa, costruito sulla categoria giuridica di Chiesa come società perfetta, secondo l’impostazione della scuola romana, viene duramente contestato.
La posta in gioco la troviamo bene espressa da M.D.Chenu, uno dei periti più rappresentativi: « “La chiesa dei poveri”, “la chiesa povera”: questa formula, duplice e unica, unica nella sua connessione indissociabile, duplice per il campo diverso delle sue esigenze, esprime be­nissimo un aspetto del volto che la chiesa, al concilio Vati­cano II, ha voluto darsi per essere fedele a se stessa, nella viva presa di coscienza della propria natura. “Al concilio, la chiesa si specchia nell’evangelo”, diceva allora Y. Congar: operazione per niente affatto eccezionale, diranno alcuni, ma certamente operazione rinnovatrice perché porta, al di là delle buone intenzioni, a una riforma delle strutture . Sba­glieremmo, quindi, a vedervi solo la formula pastorale d’un evangelismo più o meno romantico, poiché si tratta della stessa costituzione della chiesa.»

3. Si apre una nuova strada

Il punto centrale della riflessione prima che essere di natura ecclesiologica è propriamente teologico, riguarda innanzitutto la cristologia. È quello che afferma il card. Lercaro al termine della prima sessione conciliare in un intervento che venne riconosciuto come “ il più ardito e il più riformatore di tutti quelli che si sono uditi durante la prima sessione: forse esso apre una nuova strada ” (P. Rouquette, in Etudes, febbr. 1963).
Così egli si espresse: « Leggendo il sommario degli schemi che ci è stato dato ieri sono stato non poco sorpreso e meravigliato per questa lacuna: tutti gli schemi che ci sono stati o ci saranno presentati, non sembrano tenere conto, mediante un progetto esplicitamente e formalmente propor­zionato in conformità con la congiuntura storica, di questa rivelazione essenziale e primordiale del mistero di Cristo: aspetto predetto dai profeti come segno della consacrazione messianica di Cristo, aspetto reso manifesto dalla nascita, dall’infanzia, dalla vita nascosta e dal ministero pubblico di Gesù, aspetto che è la legge e il fondamento del regno di Dio, aspetto che imprime il suo sigillo su ogni effusione di gra­zia e sulla vita della chiesa […]. Non assolveremo sufficien­temente il nostro compito se non poniamo a centro e ad anima del lavoro dottrinale e legislativo di questo concilio il mistero di Cristo nei poveri e l’evangelizzazione dei poveri. Non come uno fra i tanti argomenti del concilio, ma come problema centrale . Il tema di questo concilio è sicuramente la chiesa in quanto è soprattutto la ‘chiesa dei poveri ».
Viene proposto il rovesciamento dell’impostazione dell’ecclesiologia giuridica, dando corpo all’indicazione della chiesa dei poveri suggerita da papa Giovanni XXIII poco prima dell’apertura del Concilio.
In un altro intervento Lercaro manifestò in maniera sintetica ed efficacissima il legame sostanziale che unisce il mistero della Kenosi del Verbo, i poveri e la chiesa che deve assumere la povertà.
La chiesa in quanto depositaria della missione messianica di Gesù, la Chiesa prolungamento del mistero della Kenosi del Verbo, non può non esser anzitutto e privilegiatamene la Chiesa dei poveri, destinata ai poveri, mandata per la salvezza dei poveri; e d’altra parte come Chiesa povera che, come il Cristo, non può salvare se non quello che assume, cioè non può salvare prima di tutto i poveri, se non assume la povertà .
(Rimando al citato editoriale del numero 68 della rivista dove viene offerta un’articolazione dei punti nodali toccati dal cardinale di Bologna in vari interventi).

4. Lettura prospettica sulla società opulenta

Nella terza e quarta sessione il tema della chiesa dei poveri e della chiesa povera subisce un processo di marginalizzazione. Lercaro riesce a presentare a Paolo VI un rapporto steso su incarico del papa stesso. Nonostante fosse stato sottoscritto da oltre 500 vescovi di fatto verrà messo da parte. Riporto uno stralcio collocato all’inizio del documento nel quale viene fatta una diagnosi molto precisa sulla società opulenta che in quegli anni cominciava ad affacciarsi anche in Italia:
«La società opulenta, col suo stesso esistere, pone un modello, la cui forza di suggestione è immensa per tutti, ricchi e poveri; implica per tutti, partecipi ed esclusi, la deformazione del senso autentico dello sviluppo umano, del progresso scientifico, tecnologico ed economico, dell’evoluzione sociale e dell’edificazione civile. Nella società opulenta vi è per lo meno sempre la degradazione dello sviluppo umano globale quasi solo alle sue componenti più materiali ed esterne. Nella società opulenta l’inevitabile autarchia e autoaffermazione privilegiata implica una chiusura che, nonostante qualunque enunciazione astratta in contrario e nonostante qualunque atto pratico in senso solidaristico, preclude in radice la possibilità di un universalismo coerente, capace di essere e di apparire a tutti come rispettoso della dignità e della sostanziale parità di diritto, per ogni uomo e per ogni popolo, ai beni della creazione. La società opulenta pone l’uomo che ne partecipa in una condizione di facilità, oltre che immeritata, innaturale e in un clima ideologico di autogiustificazione sistematica, che insensibilmente, ma pressoché inevitabilmente, portano l’uomo ad ammalarsi, a decadere biologicamente e spiritualmente. L’aspetto culminante di questa decadenza è la perdita del sacro che, già caratteristica della prima società borghese, ora si radicalizza nella società opulenta. La perdita del sacro non va confusa con l’ateismo così detto positivo della formulazione marxiana: mentre la perdita del sacro è sempre antimistica e anticomunitaria, è possibile invece che l’ateismo conservi, suo malgrado, una certa religiosità, una certa carica ascetica e una certa spinta comunitaria e universalistica » .
Il cristiano deve rifiutare questa società e contrapporle il mistero della povertà evangelica, non come filantropia o semplice virtù ma “ come esigenza globale, che investe la visione e la prassi cristiana nella sua totalità ”.
Per associazione di ricordi, mi sembra utile rammentare un articolo di Pier Paolo Pasolini comparso il 10 giugno 1974 su Il Corriere della Sera , circa 10 anni dopo il rapporto Lercaro. Lo scritto, con il titolo significativo Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia conferma la modificazione culturale indotta da una “ cultura di massa ” legata al consumo ed alle sue leggi e denuncia amaramente che « l’omologazione “culturale” che ne deriva riguarda tutti: popolo e borghesia, operai e sottoproletari ».

5. Impegno solenne

Il gruppo che per quattro anni si era riunito sul tema della chiesa dei poveri preparò un testo, conosciuto dai padri conciliari con il nome Schema XIV, che fu reso pubblico nell’ultima sessione nel 1965. È un impegno sottoscritto da oltre 100 vescovi nel quale si manifesta pubblicamente l’opzione per uno stile evangelico che viene declinato anche concretamente. Non è un documento conciliare, ma è la testimonianza sincera di una ricerca di conversione che tocca lo status e lo standard di vita e di attività dei vescovi.
Qui mi limito a riportare un punto che riguarda direttamente la nostra storia di PO.
I vescovi si incaricano di sostenere “i laici, i religiosi, i diaconi e i preti che il Signore chiama a evangelizzare i poveri e gli operai e a condividerne la vita operaia e il lavoro (cf. Lc, 4,18; Mc. 6,4; Mt. 11,45; At. 18,4; 20,33: 1 Cor. 4,12; 9,1)”.

6. Per una valutazione del Concilio

Mi limito a riprendere, dal citato editoriale, la linea tracciata da Dossetti nel racconto del suo Itinerario spirituale, la cui stesura risale al 1994.
“Riferendosi poi al Concilio Vaticano II riconosciuto come “un grande dono di Dio”, Dossetti nota che “ non ha avuto quella ricezione che doveva avere… Credo che le cose… abbiano portato… ad una specie di cristallizzazione post-conciliare… Si parla molto del Concilio, ma non ci si crede più: questa è la mia conclusione ”.
Però aggiunge che il Concilio un limite reale l’ha avuto:
era stato tutto pensato ancora in regime di cristianità e supponendo sostanzialmente ancora un regime di cristianità, dal quale si è allontanato per poche cose. Quindi ha inquadrato i rapporti col mondo… in una visione ottimistica, troppo ottimistica, e in una supposizione, non più vera, che il regime globale – sociale,culturale, politico – fosse più o meno, con differenze rilevanti tra le diverse nazioni, quello ereditato dal vecchio regime cristiano. E quindi per molti aspetti si è trovato a scontrarsi con una situazione nuova, diversa, non facilmente amalgamabile.
Questa potrebbe essere la ragione profonda del suo arresto, della sua stasi nell’ordine della ricezione completa e dell’impulso reale dato al popolo di Dio e alle sue guide.
Però dopo pochi anni ci se ne accorse facilmente, e intanto maturava in me la convinzione sempre più acuta che fosse necessario risalire alle cause più profonde, e quindi ad un nuovo pensiero, ad un nuovo modo di vivere il cristianesimo: nuovo perché sempre quello, sempre più legato alle sue sorgenti native e sempre più coerente con le sue sorgenti originarie”.

Dossetti continua la testimonianza del suo itinerario spirituale verso un cristianesimo legato alle sue sorgenti raccontando le caratteristiche vissute nell’ambito della comunità monastica da lui fondata.
A me pare che la domanda che si fa largo con sempre maggiore urgenza sia la seguente: “Con quale cristianesimo?”.
Dinanzi al mondo come oggi si presenta, con gli abissi di miseria correlati ad una ingiustizia iniqua, strutturate col potere della forza a livello planetario e accogliendo come discepoli le caratteristiche della rivelazione di Dio nella Kenosi vissuta in Gesù di Nazareth, sembra che il modo nuovo di vivere il cristianesimo, quello che ci fa imparare a guardare lontano, sia di assumere decisamente la profezia della povertà – risuonata 40 anni fa nel Concilio Vaticano II – : unica via per la chiesa e unica speranza per il mondo”.

 

SPUNTI PER UN APPROFONDIMENTO

1. Il messaggio permanente di Nazareth

Che cosa rivelano, che cosa hanno da insegnare i lunghi anni di assoluto anonimato vissuti da Gesù a Nazareh, nella Galilea delle genti?
Riporto un bel testo di mons. Ratzinger, allora arcivescovo di Monaco, in una sua riflessione su Charles de Foucauld: “ Charles de Foucauld ha trovato il suo Nazareth…in Siria, in una trappa ancora più povera… Da là scrive alla sorella: lavoriamo come i contadini, lavoro infinitamente proficuo per l’anima, durante il quale si può pregare e meditare… Si comprende bene cosa sia un pezzo di pane quando si sa per esperienza quanta fatica costa il fabbricarlo… .
Charles de Foucauld, seguendo le tracce dei ‘misteri della vita di Gesù’ ha trovato il lavoratore Gesù. Ha incontrato il vero Gesù storico… Laggiù, nella meditazione vivente su Gesù, si aprì, così, una nuova via per la Chiesa . Perché lavorare con il lavoratore Gesù e immergersi in ‘Nazareth, costituì il punto di partenza dell’idea della realtà del prete al lavoro. Fu per la Chiesa una riscoperta della povertà. Nazareth ha un messaggio permanente per la Chiesa. La Nuova Alleanza non comincia nel Tempio, né sulla montagna santa, ma nella piccola casa della Vergine, nella casa del lavoratore, in uno dei luoghi dimenticati della ‘Galilea dei pagani’, dalla quale nessuno aspettava qualche cosa di buono. Solo partendo da lì la Chiesa potrà prendere un nuovo slancio e guarire. Non potrà mai dare la vera risposta alla rivolta del nostro secolo contro la potenza della ricchezza, se nel suo seno, Nazareth non è una realtà vissuta
”.

2. Exusìa nella kénosi

Nel n. 67 di Pretioperai Pasquale Iannamorelli riferiva di un incontro avvenuto nel 1988 con P. Gauthier in prossimità del monte Morrone, dove si può ancora visitare la cella di Celestino V. In quel contesto Pasquale ricorda le parole di Paul in riferimento al Concilio: “ Penso che durante il Concilio sia stato commesso un errore molto grave. Abbiamo parlato della povertà della Chiesa, ma abbiamo dimenticato un problema ben più importante: il potere della Chiesa… Durante il Concilio mi sono dato tanto da fare perché emergesse l’immagine di una Chiesa povera ma ho quasi completamente dimenticato il problema del suo potere ”.
Vi sono testi nei Vangeli nei quali si parla di missione ed anche di potere affidati agli apostoli, e quindi alla Chiesa.
Come il Padre ha mandato me, così anch’io mando voi” ( Gv . 20,21)
Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra ” ( Mt. 28,18).
Qual è il significato teologico del “potere” attribuito a Gesù e del “potere” attribuito alla Chiesa?
« I ‘pieni poteri’ di Cristo ( Mt. 28,18) sono quelli del Risorto: la valenza storica della risurrezione sta, per la fede, fuori discussione. Ma essa non fa parte degli eventi storici nel senso della storia empirica, nella quale ci troviamo noi e si trova la chiesa. Una “tra­duzione” diretta e “alla lettera” falserebbe, quindi, il “testo origi­nale” (l’ exusìa del Risorto). I “pieni poteri” di Cristo affiorano su un piano trans-empirico e trans-storico nello stesso momento in cui egli ha perso ogni potere (empirico). La sua exusìa passa attraverso la kénosis, l’annichilimento della croce. Questa è la forma storica del suo “ potere ” . Noi che stiamo nella storia e che possiamo avvistare l ‘ evento di Cristo solo nella fede e camminan­do, dovremmo fermarci senza voler andar in fretta oltre la kénosis per poterci così rendere conto fino in fondo del non potere dell’ exusìa di Cristo
Il luogo storico dell’exusìa nel senso teologico è la croce. La croce sta qui per la passione e la passione per tutta la vita di Gesù (infatti i vangeli sono concepiti come storia della passione con una lunga introduzione); la vita di Gesù sta per la condizione sto­rica di tutti, ineluttabile, da affrontare e vivere credendo, e non da scansare credendo » .
E la Chiesa?
Il suo rischio e la perenne tentazione è di appropriarsi indebitamente dentro la storia della gloria del Risorto, non condividendo la kénosis che è la forma storica dell’exusìa del Cristo annichilito.
“La logica dell’incarnazione colloca, invece, l’ exusìa della chiesa semplicemente nello spazio della storia, cioè delle insicurezze, delle perplessità, della ricerca, del non-assoluto, del molteplice che rispetta i diritti degli altri, cioè di altri progetti di vita, di altre vie di ricerca della verità e di salvezza, e, perché no?, di altre forme di vita ecclesiale ed evangelica .
Ma vi è di più. La Chiesa non appartiene a se stessa: la parola, i sacramenti, il suo essere Chiesa come corpo mistico di Cristo… appartengono ad un Altro. “ La sua povertà è strutturale… Quando si parla giustamente di “povertà della chiesa” s’in­tende prima di tutto proprio questo “essere posseduta” prima di possedere, secondo una felice formula di S. Bonaventura riferito alla grazia: “Gratia Dei est magis possideri quam possidere”. La tra­duzione laica dell’ exusìa della chiesa è questa sua duplice povertà, quella di essere soltanto un fenomeno della storia accan­to a molti altri e quella di non appartenere a se stessa . Ma è anche il suo diritto e la sua libertà di riferirsi a Cristo, al quale appartie­ne, senza che egli le appartenga. Il rispetto dell ‘ altro che tutto ciò implica è la forma storica, l ‘ unica possibile nello hic et nunc, del rispetto dell’“assolutamente Altro”. La tolleranza e la modestia non sono esercizi supplementari per la chiesa in cammino, ma la forma stessa della sua autentica exusìa. Il potere della chiesa come struttura storica… deve misurarsi con la sua povertà strutturale ”.

3. Lo stile della Chiesa

Papa Giovanni ha indicato chiaramente un teatro nel quale specchiarsi ed apparire: “ In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta quale è, e vuole essere, come la Chiesa di tutti, particolarmente la Chiesa dei poveri ”.
Viene scelta questa relazione privilegiata sulla quale confrontarsi.
A questo punto può essere illuminante l’accostamento ad alcuni testi biblici.
Nel secondo Isaia viene proclamato il “lieto messaggio” per il “resto” che ritorna dall’esilio in faccia alle nazioni della terra e agli imperi che allora si contendevano il dominio. In questo contesto si tessono dei canti ad una figura strana e con caratteristiche inedite: sono i carmi del Servo di Jahvé. Riporto una parte del primo (Is. 42, 1-4):

Ecco il mio servo che io sostengo,
il mio eletto di cui mi compiaccio.
Ho posto il mio spirito su di lui;
egli porterà il diritto alle nazioni.
Non griderà né alzerà il tono,
non farà udire in piazza la sua voce,
non spezzerà una canna incrinata,
non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta.
Proclamerà il diritto con fermezza;
non verrà meno e non si abbatterà,
finché non avrà stabilito il diritto sulla terra;
e per la sua dottrina saranno in attesa le isole
.

Come questi canti sono diventati uno strumento interpretativo delle comunità ebraiche in vari momenti storici (ad es. nella traduzione della Bibbia dei 70 in territorio egiziano) e come le prime comunità cristiane si sono largamente avvalse di essi per delineare il mistero di Gesù ( Mt . 12, 17-21), ed anche per interpretare ad es. la figura di Paolo apostolo (At. 26,16-18), perché non scoprire attraverso essi lo stile e le caratteristiche del servo di Dio come appello e chiamata ad una Chiesa che ad esso deve rassomigliare e così deve apparire?
Dov’è la Chiesa dei poveri ?
Nell’ultimo numero di Pretioperai accennavo qualcosa intorno alla domanda che oggi ci riunisce: “ Questa chiesa di “poveri cristi” certamente non è mai venuta meno, ha sempre avuto degli aderenti, magari inconsapevoli. Credo che siano sempre stati la maggioranza nel mondo. E lo sono ancora…
Mille e mille racconti si potrebbero raccogliere da tutte le parti del mondo”.
Quelli narrati nell’editoriale “ vogliono essere rappresentativi di una Chiesa che non ha visibilità, appunto perché povera e fatta da poveri. Può solo essere narrata e per essere ascoltata ha bisogno di orecchi capaci di mettersi in ascolto, perché, anche se volesse non riesce a produrre i decibel necessari per ”far udire in piazza la sua voce ” ( Is ., 42, 2)”.

4. Preoccuparsi delle radici o dei frutti?

È la domanda che si poneva Gad Lerner a proposito delle radici ebraico cristiane dell’Europa alludendo al Vangelo (Mt. 7,16-19).
Come si muove l’occidente?
Riporto una diagnosi severa, ma difficilmente contestabile:
“L’impostazione economica neoliberale che condiziona tutta la cultura e la politica dell’Occidente gira attorno a questi tre antivalori:
– una
idolatria della ricchezza che fa consistere tutta l’economia nel produrre di più per consumare di più e più rapidamente, invece di meglio distribuire, e che è contraria alla giustizia del Regno;
– un
individualismo escludente che, proprio per essere tale, ha bisogno di armi sempre più forti per difendersi dai disperati della terra, e che è contrario alla pace (come il nostro mondo non cessa di mostrare);
– una
tecnocrazia inappellabile che considera obbligatorio fare tutto quello che è tecnicamente possibile, senza tener conto di altre considerazioni di carattere umano, e che può giungere a provocare la morte dell’ecosistema…
È impossibile fare pronostici sul futuro del cristianesimo: Si può pensare che in Occidente sarà sempre più minoranza. La cosa non sarà grave se ne consegue che sarà anche sempre più evangelico …”.
La crisi di senso e di speranza che attanaglia l’occidente deve essere pienamente assunta. E sembra che vi possa essere un’unica via di uscita:
Che un pensiero della liberazione sia una necessità non solo per il Sud del pianeta, nella sua attesa di vita e di giustizia, ma, per ragioni speculari, anche per il Nord nella sua fruizione di abbondante sufficienza, è una convinzione che mi è venuta maturando dentro da oltre un decennio. Il bisogno di senso dell’Occidente non può trovare adempimento che accogliendo il bisogno di pane dei continenti poveri: considero la parabola evangelica del buon samaritano la metafora assoluta dell’umanità alla soglia del terzo millennio”.

5. La povertà come segno dei tempi

Un fatto anche se evidente sul piano storico in termini oggettivi, non significa che sia qualificabile come segno dei tempi.
Un fatto è suscet­tibile di diventare “ segno dei tempi” quando, grazie alla presa di coscienza collettiva , è in grado di modificare in direzione messianica l’equilibrio dei rapporti umani in una determinata epoca. Perché ciò avvenga è determinante la presa di coscienza collettiva…
La povertà, nella quale si trovano a vivere masse sterminate di uomini, non è ancora come tale un segno dei tempi. Non lo è nemmeno quando essa suscita un movimento di solidarietà. La storia della chiesa è piena di testimonianze di carità ver­so i poveri ma, tranne forse che nella primitiva vicenda fran­cescana, questo non ha significato un ripensamento effettivo del vangelo. Solo quando alcuni uomini cominciano a collocare la povertà nella luce messianica e scoprono un nuovo equilibrio nel vangelo e nella chiesa, per cui il mistero della povertà – nei poveri e nel Cristo che si fece povero– diventa l’asse della storia, il vangelo diventa il vangelo dei poveri e la chiesa diventa la chiesa dei poveri, allora gli uomini co­minciano a riconoscere un segno dei tempi ”.

6. Un tesoro in vasi di creta

Da Berna Italo Louis Cherubini ci ha inviato il testo di “ Una Chiesa povera per i poveri”, la sua tesi di dottorato accompagnata da un messaggio: “ Ricevo da anni, con piacere, la vostra rivista. Nel numero di dicembre ’05 c’è un piccolo Dossier sulla Chiesa dei poveri. Il prossimo incontro Nazionale sarà sulla Chiesa dei poveri… Di fronte al nulla che ci presenta la Chiesa ufficiale oggi, non può che far piacere sapere che c’è ancora gente che ha ancora la “Chiesa” nel cuore …”.
Ogni Concilio necessita della receptio, cioè della recezione, non solo dei documenti, ma dello spirito che lo ha informato. È troppo ardito affermare che nella nostra avventura, senza alcuna pretesa di essere i soli, ci è toccata in sorte la receptio della profezia della Chiesa dei poveri , emersa chiaramente, ma non certo uscita vincente, nella dinamica conciliare?
Aldilà delle differenze teologiche, politiche e di strategia che sono venute alla luce nei decenni di cammino comune, mi pare che vi siano due elementi in cui ci siamo sempre riconosciuti:
1. la condivisione della vita della gente mediante il lavoro con la partecipazione paritaria ai suoi momenti aggregativi e con l’acquisizione di uno sguardo dal basso nella lettura della realtà storica
2. la gratuità del nostro ministero di servizio al Vangelo
Essi fanno chiaramente parte della sostanza della Chiesa dei poveri.
A conclusione: mi pare giusto riportare la proposta avanzata da Luisito Bianchi nello scritto a tutti noi indirizzato per questa occasione:
“Ora che la grande stagione (dei preti operai) sembra finita, non dovremmo impedire che tutto si riduca ad esperienza storica datata, buona per essere studiata come altri fenomeni storici, ed affermare esplicitamente e con forza che è un patrimonio di chiesa e, come tale, deve essere accolto? Un dono dei preti operai che, a loro volta, l’avevano ricevuto e che apparteneva fin dall’inizio al tesoro della chiesa da trasmettere da una generazione all’altra attraverso avvenimenti particolari: ultimo, questo dell’esistenza dei pretioperai”. 

 

Roberto Fiorini


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