Incontro nazionale 2007
OPERARE GIUSTIZIA IN UN MONDO INGIUSTO
Memorie e prospettive

Interventi


 

L’anno scorso si parlava dei poveri e quest’anno della giustizia, sono venuto con il desiderio di sentire anche perché sono in pensione da due anni e qualche mese.
I 35 anni di fabbrica mi hanno fatto toccare e vedere dove c’era il buono, il cattivo, i poveri, l’ingiustizia. I poveri avevano il sangue degli infortuni e delle lettere di licenziamento.
L’ingiustizia mi ha fatto partecipare, gridare sulle piazze, mi ha fatto predicare anche in chiesa, io la vedevo, la toccavo. Aveva anche delle facce. È stato abbastanza facile camminare con le persone che subivano ingiustizia e desideravano la giustizia e la sognavano. Lo sbattere la testa, l’arrabbiarmi: tutto mi sembrava una cosa facile
Volere la giustizia, conoscere i poveri: in fabbrica ho sempre avuto attrattiva e debolezza verso chi portava la tuta malamente, chi veniva punito perché era operaio al 30%, o non ci arrivava, mancava, insomma quello che restava un po’ indietro. Per cui la povertà, l’ingiustizia e la giustizia fanno sempre parte del mio camminare, del mio vivere.
Negli ultimi tempi ho fatto fatica a sopportare e vivere la fabbrica, per il mondo che cambia, per la fatica del lavoro manuale e ripetitivo, per la salute che veniva un po’ meno. Gli ultimi anni ho dovuto fare i turni che non ho mai fatto in vita mia, una cosa pesante; e poi a casa mia c’è stato qualche ammalato. Ho dovuto subire una roba tutta pesante. Alla fine mi sono ritrovato in pensione.
Alla pensione non mi sono preparato, anche perché non lo ritenevo giusto. Per cui con il bagaglio di 35 anni di fabbrica, mi sembra di avere tirato il sipario: la tragedia, la commedia e alla fine arriva anche la farsa. Mi sono trovato alla fine a vivere in un’altra dimensione. Quello che sento di interessantissimo e di stupendo, qui si è parlato di giustizia globale, è che sono abituato a toccare, a vedere, ad appassionarmi, a baciare, a sporcarmi. Ad un certo punto. mi è stato portato lì il mio libretto della pensione. Mi si è chiuso questo toccare, gridare, piangere, gioire, ubriacarmi anche con il giusto e l’ingiusto, il povero e il maledetto ricco.
Alla fine mi son trovato ancora a credere nella giustizia-ingiustizia, nelle beatitudini, però quasi a dover ricominciare a sognare, a toccare, a camminare con chi subisce l’ingiustizia, però, e anch’io con il cambiamento globale, non mi sono più ritrovato la tuta, che fosse verde, quella della cella frigorifera, che fosse blu quella della fonderia, o che fosse bianca quella del caseificio ultimo dove lavoravo. Devo dire che alla fine, non programmando niente, ho fatto la prima cosa che mi è saltata in mente: sono andato a servire a tavola dei poveri diavoli a Milano per tre giorni la settimana. Venendo qui, pensavo che qualcuno mi accompagnasse nel toccare il povero, diverso da quello della fabbrica: il bambino zingaro, il peruviano, i soliti fuori di testa che vanno a mangiare, di una società come Milano; tanti, tantissimi, poveri pensionati al margine, tossici, tanta gente normale che veniva a mangiare, sorridere, salutare.
Mi è sembrato di volere la giustizia in un mondo diverso dalla fabbrica (per me il mondo era la fabbrica e casa mia con quei poveri diavoli che giravano).
Sono venuto qui anche con il desiderio di essere accompagnato in un sogno di giustizia, di poveri fuori dalla fabbrica, da pensionato, un po’ volontario, un po’ nullafacente. Là mi sentivo a disagio quando parlava qualche delegato che mi riportava in un mondo che non era più il mio. La cassa integrazione non era più il mio mondo. Alla fine facevo fatica e lo gridavo anche in assemblea. Provavo vergogna a sentire un sindacalista che parlava di diritti, quando con me in fabbrica la povera gente, uno su tre non era garantito, cooperative, cooperative stagionali, un sacco di gente, impresa delle pulizie.
Su duecento persone un terzo era escluso dal parlare di diritti. La giustizia, i poveri, fanno ormai parte del mio bagaglio.

Oliviero Ferrari


 

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