Ancora sulla giustizia
È appena passato Natale e, uscendo con il cane quando è ancora notte, vengo sorpreso dalle prime luci dell’alba nell’ampia fascia di brughiera che va dalla pineta all’ultima bassa duna lungo la spiaggia, che mi impedisce di scorgere il mare vicinissimo. La sabbia gelata scricchiola sotto gli scarponi e, non so per quale assonanza, mi salgono su dal cuore le parole del canto degli angeli ai pastori che vanno verso la mangiatoia di Betlem: “…e sulla terra pace per quelli che egli ama!”.
È meraviglioso lasciarsi illuminare a poco a poco da questo annuncio che sottrae all’oscurità l’esistenza di un mondo seminato dell’amore di Dio. Fino al punto da sentire con chiarezza che ancora non è arrivato il momento di rassegnarsi di fronte alla lenta, ma inevitabile usura del tempo. Vince, nonostante la mia coscienza da sempre timorosa e balbuziente, la curiosità – ingenua quanto volete – di scoprire quanto Dio è intrecciato a questa nostra storia umana. Per inginocchiarmi di fronte ai segni della sua presenza specie là dove sembra impallidire e spengersi l’umano. Proprio là dove avvampa, contro il buio dell’oppressione e dell’inganno, la ricerca calda e luminosa di un mondo di giustizia e verità.
Ho ripreso in mano, in questi giorni, l’ultimo numero di Pretioperai dedicato al tema del nostro ultimo incontro a primavera: “Operare giustizia in un mondo ingiusto”. In modo particolare mi sono soffermato sull’articolato contributo di Roberto Fiorini offerto come “strumento di lavoro per un approfondimento e come impulso a continuare la nostra ricerca” (Pretioperai 74-75/2007, pag. 55). Facendo riferimento a C.M. Murphy in “La carità, non la giustizia, come costitutiva della missione della chiesa” Roberto ne riporta una citazione che fa riferimento ad un precedente articolo del 1983 in cui lo stesso Murphy definisce la giustizia, concepita in senso biblico come “l’azione liberante di Dio che richiede una necessaria risposta umana”. E in questo senso “deve essere definita come l’essenza del vangelo stesso”.
Questo mi ha ricordato un libro che ho ripreso in mano recentemente. Anch’esso scritto alla metà degli anni ‘80; da un missionario saveriano, (Meo Elia, “Cristo fuori le mura. Quale missione per le chiese italiane?” ed. Gribaudi, Torino 1985). Partendo dal superamento della concezione “ecclesiocentrica” della missione, aiutato da un intervento del Card. Ballestrero all’Assemblea Generale della CEI nel maggio 1984 teso ad affermare la necessità di “immaginare una nuova presenza di Chiesa, una aggiornata efficacia missionaria ed una rinnovata metodologia pastorale, che si lasci ispirare dalle sostanziali novità dello Spirito e anche da quell’audacia della profezia che ha caratterizzato le stagioni più solenni della vita della Chiesa”, M. Elia si chiede: “Chi è all’origine della missione? Chi la realizza? E offre questa risposta: “Diciamo subito che il Regno di Dio è un’opera che non solo ha origine unicamente dall’iniziativa del Dio trinitario, ma è tale che solo dal Signore della storia, Cristo Gesù, può essere realizzata, per mezzo del suo Spirito operante nel mondo intero. A ben vedere il Regno, che sarebbe più preciso chiamare “Signoria” di Dio per esprimere non una realtà statica ma un’azione, è lo Spirito di Cristo Risorto, forza con cui Dio entra ed opera nel mondo… A dirigersi verso il Regno non sono solo delle ‘vetture particolari’, quelle della Chiesa, ma sono gli ‘omnibus’ (‘corriere per tutti’) della storia umana, pur con tutte le tortuosità del percorso e i limiti del mezzo stesso”. Concludendo: “A camminare verso il Regno è il mondo. La missione deve partire dal cammino che gli uomini stanno compiendo; cioè dalla loro esperienza, fatta di aspirazioni e di ricerca, di lotta e di delusioni, di sforzo e di frustrazioni, ma che ha la direzione di persone libere e solidali. È ‘dentro’ questa esperienza che Dio lavora. Non esistono due storie, una del mondo e l’altra della Chiesa, ma soltanto la prima: è in rapporto a questa che la missione della Chiesa è chiamata a dare il suo servizio” (M. Elia, op. cit., pag. 18s.).
Interessante la lunga citazione in nota di uno scritto di Luigi Sartori (“Coscienza di missione nel Concilio Vaticano II: l’Ad Gentes”, in Teologia della Missione, Istituto Teologico Saveriano, Parma 1984, 72): “Il Regno non deve più incutere timore, come succedeva nell’ecclesiologia dell’identità: la Chiesa è uguale al Regno. Per cui chi voleva lavorare per esso doveva per forza entrare nella Chiesa. La Chiesa non è il Regno, ma per il Regno. Questa è anche la tesi sostenuta dalla Lumen Gentium (cfr. n. 5): la Chiesa è germe, fermento, inizio del Regno. Ma i missionari oggi stanno insegnandoci ad allargare ulteriormente la visione del Regno, offrendocene una più “laica”, più disponibile al dialogo. L’Ad Gentes stessa ci mette su questa strada, facendoci passare decisamente dall’ecclesiocentrismo ad una prospettiva Regnocentrica”.
Non eravamo forse anche noi pretioperai su questa traccia?
Quali sono i motivi per cui la Chiesa non ha dato ascolto a queste voci e non ha dato seguito alla ricerca su questa stessa strada, enunciata da Giovanni Paolo II nell’enciclica “Sollicitudo Rei Socialis”: “L’insegnamento e la diffusione della dottrina sociale fanno parte della missione evangelizzatrice della Chiesa. E, trattandosi di una dottrina indirizzata a guidare la condotta delle persone, ne deriva di conseguenza l’«impegno per la giustizia» secondo il ruolo, la vocazione, le condizioni di ciascuno”.(Sollicitudo… n. 41) e mai più ripresa in seguito nella parabola discendente delle successive sue encicliche sociali?
Il campo di indagine è ampio e profondo. Il periodo storico va dalla caduta del muro di Berlino alla guerra che ha interessato i confini e le religioni dell’Europa degli anni ‘90, alle due guerre in Iraq, all’11 settembre, tanto per citare alcuni fatti che hanno contraddistinto questo ultimo ventennio. E per la Chiesa cattolica, al di là della perdurante icona di Giovanni Paolo II? E noi pretioperai, al di là degli ultimi contatti con la commissione CEI sul mondo del lavoro, in un periodo che ci ha visti passare progressivamente dalla condizione di lavoro alla pensione?
Come mai, insieme con noi, sembra essere andato in pensione nella Chiesa l’impegno per la giustizia connesso strettamente alla sua missione evangelizzatrice? Certo, non siamo stati noi, non è dipeso dalla nostra vicenda personale. Fin troppo ovvio! Ma nel nostro percorso degli anni ‘90 e in questa prima decade del 2000, cosa abbiamo percepito di questo progressivo abbandono del tema della giustizia come intimamente connesso con l’annuncio del vangelo e la missione della Chiesa? L’abbiamo, forse, dato per scontato in una prospettiva più generale di crisi del cristianesimo fino a minacciarne la stessa esistenza storica?
Perché su questa prospettiva si sono appuntati alcuni studi che fanno pensare (ad es. Maurice Bellet, “La quarta ipotesi”, ed. Servitium, Bergamo 2003; e Concilium n. 3/2005 interamente dedicato al tema “Cristianesimo in crisi?”). Ed è proprio M. Bellet a disegnare quella che sembra l’ipotesi più corrispondente alla “via di fuga” dalla centralità evangelica del tema della giustizia.
Egli ne fa la sua terza ipotesi (nelle prime due il cristianesimo scompare o si dissolve): “Terza ipotesi: il cristianesimo continua. Si fa opera di conservazione, di restauro, di ricostruzione; e, al tempo stesso, opera di adattamento, di adeguamento, di arrangiamento: Pio IX e Giovanni XXIII. C’è opposizione, si dice. Senza dubbio; ma rimane all’interno di uno stesso insieme, fondamentalmente immutato: un passo a sinistra e uno a destra, per poter durare nei sussulti dell’età moderna. A tale proposito, c’è tutta una ‘contestazione’ interna a questo sistema, ma che da esso dipende molto di più di quanto creda.
Un test: i problemi che pone sono essenzialmente questioni di chiesa, di ‘istituzione’, come si usa dire; mentre i problemi decisivi sono molto più radicali: riguardano la possibilità stessa di intendere il vangelo come parola di verità, lì dove è in gioco per l’uomo il suo stesso poter-vivere” (M. Bellet, op. cit. pag. 19). E continua, presentando la sua “quarta ipotesi”: “C’è davvero qualcosa che finisce, ed è precisamente questo sistema religioso, di fatto legato all’età moderna dell’occidente… questa crisi cristiana è indissociabile da una crisi molto più generale, quella che mette in questione tante evidenze e tante aspirazioni dell’uomo occidentale (nel momento stesso in cui la ‘globalizzazione’ fa trionfare in ogni parte del mondo questo tipo d’uomo)… C’è qualcosa che si annuncia, e non sappiamo cosa sarà… Per il peggio? Per il meglio? Non lo sappiamo: ma la cosa sta abbondantemente nelle nostre mani. La domanda è: in questo luogo inaugurale il vangelo può apparire come vangelo, cioè la parola inaugurale che apre lo spazio di vita? Il paradosso è grande, dal momento che il vangelo è… vecchio! Ma forse… la ripetizione può essere ripetizione dell’inaudito, come, dopo tutto, ogni nascita d’uomo è ripetizione banale – e, ogni volta l’inaudito. Se il vangelo è, qui e ora, questa parola, per tutto il resto riusciamo a cavarcela. Tutti i problemi dì chiesa che tormentano i cristiani sono davvero problemi: li prenderemo in considerazione, ma potremo vivere anche senza averli risolti (op. cit. pag. 20)”.
In questa prospettiva sono gli avvenimenti storici di liberazione ad essere segni del futuro progettato da Dio, “un futuro che le varie immagini con cui è descritto (nella Rivelazione: nozze, banchetto finale, alleanza, regno di Dio) dicono costituito da relazioni di convivialità, reciprocità tra Dio e gli uomini e da relazioni di uguaglianza, giustizia, fraternità degli uomini tra loro” (M. Elia, op. cit. pag. 60). Se Dio viene nella storia – rileva ancora M. Elia – non può venire che così. “Se agisce, non può agire che così, creando movimento e suscitando iniziative e processi storici di liberazione dalle schiavitù e in direzione dei valori caratteristici del suo Regno, la Comunione di fratelli e, quindi, la giustizia e l’effettiva realizzazione di sé” (pag. 65).
Mi piace terminare questo taglia-e-cuci di speranze che non aspettano che qualcosa accada, ma camminano, anzi sono cammino, con la poesia di Pedro Casaldàliga che conclude il già citato n. 3/2005 di Concilium, dal titolo “Epilogo aperto”:
“Io mi attengo al detto:
La Giustizia, nonostante la Legge e la Consuetudine,
nonostante il Denaro e l’Elemosina.
L’Umiltà per essere io, vero.
La Libertà, per essere uomo.
E la Povertà per essere libero.
La Fede cristiana, per camminare di notte,
e soprattutto per camminare di giorno.
E, in ogni caso, fratelli, io mi attengo al detto:
la Speranza!”.
Luigi Sonnenfeld