“Carico leggero e pesanti fardelli: l’Evangelo in Italia”
Incontro nazionale PO 2008 (3)
Leggendo sull’ultimo numero della vostra rivista l’annuncio e il programma del convegno, mi è venuto il desiderio di parteciparvi; per diverse ragioni: per il tema, ma anche per rivedere il “Paradiso” che ci ospita, per rivedere diversi amici, ma più di tutto per ascoltare delle storie di vita. Da oltre una decina di anni raccolgo storie di vita, perché sono convinto che siano l’elemento ispiratore di un pensiero teologico che meriti di essere chiamato tale (così come storie di vita sono i vangeli e, prima ancora, molte pagine delle scritture ebraiche).
Questo vale soprattutto in un momento in cui mi pare ci siano due tipi di storie che in qualche modo dilagano: le fiction, che sono vite inventate e che però influiscono sui comportamenti; oppure quelle vite reali che si pensano già come possibili fiction, come dei modelli alternativi di vita che poi occupano gli spazi della comunicazione mediatica. Allora mi sembra importante il rimettersi in ascolto di storie di vita complessiva o anche di singoli episodi, dove compaia quello che negli anni novanta la CEI aveva indicato come il “vangelo della carità” e che io leggo da allora non soltanto come la carità al centro dell’evangelizzazione, ma prima ancora come la forza evangelizzatrice che si sprigiona dalla carità vissuta. In due direzioni: da un lato il primato, diciamo così, dell’eloquenza del vivere sulla parola, che è un’evangelizzazione già immanente in un certo tipo di vita, lo splendor veritatis, di quella verità che è la verità della vita ed è appunto la carità; dall’altro lato, la capacità di cogliere questo splendore dovunque si manifesti, di cogliere il buon annuncio (l”evangelo”) della carità che viene anche da parte di non-cristiani: da credenti di altri fedi o da non-credenti. Carità nel senso biblico, che il Nuovo Testamento chiama sempre agape, e che è giustizia, solidarietà, condivisione, riconciliazione; dove l’atto vissuto diventa evangelo in quanto annuncia che la carità esiste davvero, che non è “troppo bella per essere vera”; e che quindi implicitamente annuncia il Dio-carità (1 Gv 4).
Per questo volevo venire: soprattutto per ascoltarvi; e mi sono sentito imbarazzato quando Roberto mi ha invitato a venire per prendere la parola. Ho accettato, pensando che anche la mia riflessione teologica si è sempre più alimentata di questo rapporto con le vite vissute, si è sempre più riconosciuta come “atto secondo” (ho imparato la formula da Gustavo Gutierrez: la teologia è atto secondo rispetto alla vita). E mi sono ricordato, tra l’altro, di un aneddoto lontanissimo, dove erano già presenti quelli che sarebbero stati i due poli delle mie letture e riflessioni (anche se allora erano rispettivamente isolati: una giovanile schizofrenia). Nel gennaio del 1953, nel seminario di Pavia – avevo iniziato la prima teologia – alternavo la lettura della metafisica di Duns Scoto (scovata nella biblioteca del seminario) con quella di “Francia, paese di missione” di don Godin, padre dei pretioperai francesi. Due anime dunque, che in seguito si sarebbero unite…
Una fedeltà difficile
Quando Roberto mi ha chiesto di dire qualcosa, mi è tornato alla memoria che più di vent’anni fa, alla metà degli anni ‘80, la rivista Servitium (nata come luogo di rinnovamento spirituale dei Servi di Maria e diventata poi rivista di spiritualità anche extra moenia: fuori dalle mura del convento, ma pure fuori da una stretta identità confessionale) aveva pubblicato un numero sui pretioperai. Sono andato a cercarlo: “Preti operai, una fedeltà difficile”. Rileggendolo, mi sono ricordato di avere espresso una volta in uno dei vostri convegni, più o meno negli stessi anni, un pensiero di questo genere:
«Bello fare il preteoperaio quando avete cominciato, ai tempi delle “magnifiche sorti e progressive” della classe operaia, quando essere preteoperaio era, pur con le sue difficoltà, essere e sentirsi in prima linea nella lotta per un cambiamento globale della società. Ma adesso che le vele si stanno ripiegando, con l’avvento della crisi ideologica del marxismo, adesso è più difficile. Ma “qui si parrà la tua nobilitate”: dovete andare avanti».
Ho ritrovato quella stagione, la stagione della crisi, rileggendo le pagine di Servitium sulla vostra “fedeltà difficile”. Il numero era coordinato e introdotto da Giannino Piana; poi c’era un articolo del sociologo (che in sostanza parlava appunto della crisi della classe operaia collegandola con la crisi della visione marxista della storia); quello dell’ecclesiologo Mario Cuminetti; il mio (“Spiritualità dei preti operai e spiritualità della liberazione”). Poi c’erano due interventi di amici, due personaggi che accompagnavano il vostro cammino: Bentivogli della CISL e Gianni Tognoni. Alla fine, tre testimonianze di pretioperai e una piccola raccolta antologica di una lunga documentazione dei pretioperai lombardi.
A me pare che oggi siamo in un momento di crisi ancora più profonda di quella dei primi anni ottanta, una crisi complessiva a livello mondiale, ma anche più specificamente a livello nazionale, di cui le ultime elezioni sono state testimonianza, sono state una prova. Adesso non voglio entrare nel significato politico di queste elezioni. Però mi pare che i vostri testi che ho riletti e citati siano oggi più che mai attuali. Ho trovato in essi una sintonia con quello che, non a caso credo, avevo io stesso vissuto come la crisi delle comunità di base, che stava emergendo – con dieci anni di anticipo sul crollo del muro di Berlino – in corrispondenza con la caduta di quello che allora si chiamava “visione totalizzante”, “grande racconto”, “messianismo secolarizzato”, cioè la visione marxista della storia in cammino verso il regnum hominis. In parallelo veniva avanzando quello che qualcuno chiamò il “trionfo del privato”, riaffermazione dell’“individuo proprietario” (in senso economico, ma non soltanto); che avrebbe avuto una clamorosa conferma con la caduta dell’impero sovietico e dei paesi socialisti dell’est ad esso sottomessi.
Andava delineandosi un uomo nuovo, ma esattamente in direzione opposta di quella sperata e coltivata nei decenni precedenti: l’uomo postmoderno. Ho fatto allora molte letture su questo tema, cercando di delinearne un profilo in chiave di antropologia filosofica.
Finché un giorno lessi il discorso fatto dal card. Martini per la festa di S. Ambrogio 1997 (e riportato quasi integralmente dall’Unità di pochi giorni dopo). Il tema del discorso era la gratuità come principio dell’esistenza umana e cristiana; ma a un certo punto Martini apriva come una lunga parentesi, affermando che l’uomo d’oggi è caratterizzato da una dimensione di fondo che si muove in senso opposto, e che è l’affermazione delle “ragioni non sindacabili dell’individuo”.
Questa dimensione si presenta in due versioni diverse, in apparenza contrastanti, ma in profondità convergenti: “le differenze consistono tutt’al più nel considerare l’individuo come soggetto di libero e non sindacabile esercizio del potere economico; oppure nel considerarlo, sia pure nel quadro di una generica solidarietà sociale, come soggetto di libero e non sindacabile espletamento di comportamenti etici”. Cioè: da un lato la “deriva liberistica in campo economico e sociale”, dall’altro il “libero spazio a comportamenti anomali nel campo ad esempio della sessualità, della ostensione ed esaltazione della violenza, della tossicodipendenza, ecc.”.
Da allora il mio sguardo si è spostato dal profilo di principio del postmoderno all’osservazione dei comportamenti pratici, attraverso la lettura di quotidiani o di ricerche sociologiche; un’attenzione che è confluita qualche anno dopo nel testo Oltre l’erba voglio.
Perché ricordare tutto questo? Perché ho ritrovato in qualche modo anticipato questo discorso di Martini nelle vostre testimonianze della prima metà degli anni ‘80. Nella maturazione di quegli anni, in una fedeltà che andava perdendo l’alone di giovanile entusiasmo e si andava facendo “difficile”, veniva maturando ed emergendo quello che c’era di più profondo nella vostra scelta: l’“opzione preferenziale per i poveri” come scelta di gratuità, come condivisione di una condizione – quella operaia – che alla durezza del proprio lavoro vedeva ormai coniugarsi il progressivo silenzio, l’oscuramento.
Ecco, vorrei riprendere un momento quello che ha suscitato – risuscitato – in me la lettura dei testi di Servitium, offrendo spunti di riflessione su cose alle quali ho pensato molto negli ultimi vent’anni, e in cui mi sembra di avvertire una profonda sintonia col vostro cammino, che in qualche modo ho sempre seguito anche se per diversi anni non ho più partecipato ai vostri convegni (credo che l’ultima volta sia stata 14 anni fa a Salsomaggiore).
Cercatori di senso
Una prima idea è che, rispetto a quella che era stata una stagione dove si amava accentuare il dissenso, nei vostri interventi sentivo più viva la positività dell’esperienza che andavate facendo. E mi è tornata in mente una frase che ho citato più volte: sempre nell’ambito di Servitium, in un incontro di redazione di quegli stessi anni, in cui si parlò appunto del dissenso, don Abramo Levi disse: (cito a memoria): “noi non dovremmo né cercare il consenso né rincorrere il dissenso, ma essere cercatori di senso”. Cercatori di senso: mi ci sono ritrovato in pieno, e ho ritrovato in pieno questo atteggiamento nelle vostre parole di venti anni fa, come in altre sentite da questo o quello di voi. I cercatori di, senso saranno anche, necessariamente, a volte consenzienti a volte dissenzienti (magari più consenzienti che dissenzienti, o viceversa, secondo le situazioni che uno vive); dove però quello che conta è la sintonia radicale con una Realtà altra. Una sintonia che investe e attraversa le difficoltà di vita, gli sforzi, le fatiche, e dentro le quali matura anche la riflessione teologico-spirituale.
Qualcosa di analogo avevo notato anche nella teologia della liberazione. Nei primi testi, accesi di passione militante, sembrava quasi messa in ombra la dimensione spirituale; ma nel 1983 uscì Beber en su propio pozo, di Gustavo Gutierrez: bere al proprio pozzo, scoprire la spiritualità dei poveri vivendo con loro e meditando su questa esperienza. La spiritualità e la riflessione di teologia spirituale che nascono proprio dall’accompagnamento degli ultimi. In questi vostri testi citati da Servitium ho trovato tutte e due le dimensioni: la testimonianza di vita e insieme un lavorio notevole di approfondimento riflessivo.
Vorrei inserire qui, a modo di parentesi, una considerazione marginale ma non irrilevante. Ho trovato in quelle pagine anche una notevole capacità di scrittura, e cioè sono scritte bene (salvo eccezioni, come sempre). Scrivere bene non è soltanto un fatto stilistico; è, prima ancora, un fatto di proprietà nell’uso della parola; dove si coglie una autenticità, una volontà di rapporto corretto, onesto, con il lettore.
Una notizia di un mese fa: nell’ultimo concorso per aspiranti-magistrati, dove c’era come sempre un numero di partecipanti enormemente superiore rispetto al numero di posti disponibili, i posti non sono stati tutti occupati perché la maggior parte non aveva superato gli esami; e la ragione è che non sapeva scrivere in italiano. D’altronde un mio amico che insegna diritto penale alla Statale di Milano mi diceva già una decina di anni fa che quando uno portava una tesi scritta in un italiano corretto, questo gli meritava già la sufficienza. Mi complimento perché queste vostre cose sono scritte bene; e penso che si debba riconoscere il proprio debito alla formazione ricevuta in seminario (pure difettosa da più di un punto di vista). Così come, su un piano diverso, mi ha commosso da parte di alcuni il richiamo alla religione imparata in famiglia; anche qui, si è dovuto certo purgare il devozionalismo a madonne e santi, ma riconoscendo che dietro o dentro c’era il più delle volte una spiritualità profonda, traccia del Dio che si rivela agli umili e ai semplici, ai “piccoli”.
Utopia nel frammento
Il secondo punto è quella maturazione, con la quale mi sono sentito ancora una volta sim-patico, che consiste nella scoperta che, aldilà dell’alternativa tra visione utopica totalizzante e riflusso nel privato, c’è una utopia che si realizza nel frammento, nel quotidiano. C’è quello che potremmo chiamare un messianismo ante-litteram, che costituisce il senso della terra promessa nel racconto fondante di Israele: far fiorire la vita individuale e comunitaria attraverso l’obbedienza al comandamento dell’amore; far fiorire la pace (shalom = pienezza di vita) attraverso la giustizia.
Così la crisi della visione messianica come il domani assoluto apriva lo spazio alla fede e all’impegno nell’oggi, la crisi della redenzione storica irreversibile di tutto il genere umano favoriva la scoperta del principio ebraico secondo cui “salvare un uomo è salvare l’umanità”.
In certo senso si è ancora nella scia della visione marxista (o meglio, marxiana), di quel Marx che diceva: la società comunista sarà quella in cui ognuno darà secondo le proprie capacità e riceverà secondo i propri bisogni. Io amo dire che Marx ha visto bene il frutto (forse lavorava dentro di lui l’educazione ebraica ricevuta) ma ha sbagliato il seme; questo non può essere la rivoluzione mondiale una volta per tutte, ma la micro-rivoluzione di cui ognuno è responsabile in prima persona, giorno dopo giorno (senza che questo cancelli le responsabilità corali sul piano politico).
Gesù oltre la chiesa
Un terzo elemento che ho trovato, e che pure mi sembra molto appropriato, è il cristocentrismo. Che si dissocia dall’ecclesiocentrismo, perché è ben consapevole della presenza di Gesù il Cristo anche al di fuori della Chiesa. Che però non si abbandona a quella posizione che si autodefinisce “pluralista” (tra l’altro, allora non era ancora di moda), e che ritiene indispensabile, per superare la posizione della necessità salvifica dell’appartenenza alla chiesa, rinunciare alla necessita salvifica di Gesù. Il quale sarebbe, come Mosé e Maometto, come Buddha e Confucio, il maestro che indica la via della salvezza a coloro che credono in lui; così come Mosè lo è per gli ebrei, ecc.
A me pare che alla base di questo egualitarismo delle religioni vi sia una mancata percezione di cosa esse siano: prospettive sulla manifestazione di Dio nel mondo – nella natura e nella storia – ognuna delle quali può leggere le altre soltanto a partire da se stessa, da quella dimensione di verità che essa è convinta di portare in sé.
Per un buddhista io cristiano sarò un illuminato, partecipe della luce che viene dall’insegnamento del Buddha, per un musulmano sarò un discepolo del più grande profeta prima di Maometto; per un ebreo, un frutto cresciuto su un ramo laterale della tradizione ebraica. E questo va bene: non mi sento offeso, ma onorato, di queste attribuzioni, perché esse provengono dalla prospettiva di chi è davvero credente dentro alla propria religione. Ma per la stessa ragione io non posso non pensare, e dire, che ogni ebreo o buddhista o altro (nonché, aggiungo, ogni uomo, anche irreligioso) è un frutto cresciuto sull’albero della morte e risurrezione di Gesù Cristo, anche se non aderisce a lui (e forse non sa nulla di lui).
Rendere visibile l’esserci per tutti di Gesù
Concludo tornando daccapo: come ho accennato all’inizio, io credo che la prima evangelizzazione, soprattutto oggi in occidente, sia quella di testimoniare che la carità non è un bel sogno impossibile, ma è realtà. Una realtà che ognuno chiamerà con un nome attinto alla propria storia, religiosa o secolarizzata, ma convergendo nel riconoscimento che essa è il valore primo e ultimo, il valore assoluto perché dà valore a ogni essere umano facendone, come dice Kant, un “fine in sé” e non un mezzo per i fini altrui.
Non voglio dire che i nomi non contino nulla; ma essi non si identificano con la realtà quando questa è la Trascendenza che si rivela-nasconde nella storia, e che soltanto nella Gerusalemme celeste contempleremo facies ad faciem.
Perciò l’irrinunciabile, anche per il cristiano nei confronti del “mondo”, non è parlare di Gesù, ma rendere visibile quella realtà di cui egli è il portatore per tutti, e il suo nome l’indicatore per chi lo riconosce.