“Carico leggero e pesanti fardelli: l’Evangelo in Italia”
Incontro nazionale PO 2008 (25)
Ci sono pervenute TRE TESTIMONIANZE che ci sembra utile aggiungere alle nostre.
La prima è di una suora operaia che vive a Roma. Un’altra proviene da un’associazione della Caritas che opera in una zona del mantovano dove il benessere si è diffuso. La terza è di un missionario che da molti anni vive in Bangladesh.
Esprimono bene la leggerezza evangelica, quella di cui la chiesa ha un enorme bisogno.
1.
UNA VITA DEGNA PER TUTTI
Suor Debora
Sono suor Debora e sono una suora operaia.
Il nostro fondatore, don Arcangelo Tadini (un prete di Brescia) ci ha “inventate” all’inizio del 1900. “Siate il buon lievito – ci ha detto – che fa fermentare tutta la pasta!”, e ci ha mandate nel mondo operaio, per condividere il lavoro e la vita di ogni uomo, e lì, dove l’uomo lavora, imitare Cristo, che “ha lavorato con mani d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo!” (GS 22).
Da poco più di un anno vivo poco fuori Roma, in una piccola comunità: siamo in quattro sorelle e abitiamo in un appartamento in affitto, in uno dei borghi che fanno da “corona” alla grande città di Roma. In realtà, qui, non sembra di vivere nella “città eterna”, visto che ci troviamo in una zona abbastanza rurale. Quando sono arrivata qui, la mia prima preoccupazione – e missione! – è stata quella di cercare un lavoro. Camminando secondo lo spirito di don Tadini, la nostra ricerca si è concentrata prevalentemente sulle occupazioni più comuni, che una volta avremmo chiamato “lavori manuali”. Questo per condividere la vita semplice della gente e imitare Gesù lavoratore nella casa di Nazaret, il “figlio del carpentiere”!
È iniziata così la mia ricerca, come quella di tanti uomini e donne che vivono la pesante situazione della disoccupazione: una condizione umiliante, che ti mette di fronte a continui rifiuti, che pian piano fa morire la speranza, che ti fa sentire inutile e, soprattutto, che ti impedisce di costruire o portare avanti una scelta di vita. Il lavoro è necessario per poter vivere, ma sempre più spesso si fatica a trovarlo, anche qui, nella realtà di Roma.
La consegna di curriculum vitae (così cerca lavoro una suora operaia… come la gente comune!) in supermercati, fabbriche, negozi, imprese di pulizie (e chi più ne ha, più ne metta) è durata qualche mese.
Abbiamo scelto di percorrere anche la via delle agenzie interinali – che oggi è quasi una scelta obbligata, per la maggior parte della gente, per poter accedere al mondo del lavoro – e proprio grazie ad una di queste agenzie ho avuto la grazia di iniziare un’esperienza lavorativa. La proposta è stata quella di fare delle sostituzioni in un magazzino legato alla distribuzione dei farmaci alle farmacie. La gioia è stata grande di fronte alla possibilità di un impiego, ed ho subito accettato. Sono entrata così a far parte della vasta schiera dei lavoratori precari! Si comincia come “giornalieri”: l’agenzia ti chiama, giorno per giorno, assegnandoti un turno su richiesta della ditta. Quando va bene si riesce a saperlo il giorno prima, altrimenti ci si adatta alle richieste da “ultimo minuto” – che vuol dire sapere un’ora prima di dover andare al lavoro.
Iniziare questo tipo di “ritmo lavorativo” è stato faticoso ed ha assorbito ogni cosa: tutto e tutte siamo state coinvolte. La ditta in cui lavoro si trova a Roma; dalla nostra casa è necessaria circa un’ora di macchina per raggiungerla. Siccome avevamo una sola automobile, quando la chiamata era per l’ultimo minuto venivo accompagnata da una sorella, oppure (quando venivo avvisata qualche ora prima) riuscivo ad organizzarmi con i mezzi pubblici: treno fino a stazione Termini, metro fino a stazione Tiburtina e autobus fino al lavoro, condividendo i vagoni affollati, le attese alle fermate, le levatacce del mattino… fatiche di ogni pendolare! Non è facile gestire un modo simile di lavorare. Tutto diventa in funzione del lavoro! In ogni momento devi stare pronta a partire, con il cellulare acceso per non perdere la chiamata dell’agenzia, senza poter programmare mai niente di personale o comunitario… Beh, non siamo poi così lontani dai “tempi del Vangelo”: anche lì i lavoratori venivano presi “a giornata”! Vi ricordate i lavoratori della vigna? (Mt 20,1-16). I colleghi mi dicevano che, se sei fortunato, i primi tempi si lavora in media quindici giorni al mese. Poi – se vai bene – possono farti anche contratti di una settimana, o un mese, a seconda del bisogno della ditta. I tempi sono comunque molto lunghi. Ho lavorato come giornaliera circa tre mesi. Ora ho la grazia di avere un contratto a tempo determinato con la ditta e per questo mi considero molto fortunata! Davvero, oggi, il lavoro è un grande dono: da lì passa gran parte della dignità della persona e della vita della famiglia. Ringrazio il Signore per avere la possibilità di sperimentare la condizione di vita di tanti fratelli e sorelle: questa per me è l’Incarnazione… questa è la mia Nazaret! Continuo a pregare per chi ancora è in cerca di lavoro, per chi non sa se domani lavorerà e per chi ha il potere di fare leggi giuste e sagge… e chissà se qualcosa di concreto anche noi lo possiamo fare… A tutti l’impegno di mettersi in gioco, perché il lavoro sia in funzione della persona, e non viceversa e perché la vita sia davvero degna… per tutti!
2.
GRIDA DI SOFFERENZA
Associazione Marta Tana – Caritas
Caldo, freddo, caldo… sembrano cambiate le stagioni e forse qualcosa di vero c’è… Ma anche qualcos’altro sta cambiando ed è la nostra vita di tutti i giorni. Attorno a noi, dentro le nostre famiglie si stanno verificando cambiamenti non certo positivi. La vita, per tutti sta facendosi più difficile e pesante.
Il lavoro spesso, troppo spesso è precario, gli stipendi non bastano per coprire le spese anche se si cerca di eliminare il superfluo e si accorciano le vacanze, le pensioni non permettono di arrivare a fine mese…
Ma, se questo è un dato di fatto per tutti noi, quando a Marta Tana (Caritas) si ascoltano con il cuore le persone che bussano alla porta, le fatiche del vivere diventano “grida di sofferenza”:
• il bambino non vuole andare a scuola perchè i suoi non hanno potuto comprargli i libri;
• una ragazza prega perché ci sia qualcuno che le paga l’abbonamento per continuare ad andare a scuola e terminare gli studi (è sempre stata promossa bene);
• la mamma con in braccio la sua piccola di pochi mesi ci supplica, perchè le hanno tolto l’acqua;
• una coppia di anziani con vergogna ci confida: prima riuscivamo a mettere qualcosa da parte, adesso non arriviamo a badare a noi stessi.
A volte queste grida di sofferenza diventano “urla di rabbia”: voglio lavorare, ho bisogno di lavorare, non crediate sia facile chiedere, anche perché poche volte si ottiene… Spesso è tra le lacrime che ci vengono poste delle domande:
“Perché i miei bambini non possono avere la merenda come gli altri? Perché non posso comperare gli occhiali alla mia bimba di tre anni?” O peggio ancora: un papà con gli occhi rossi dice: mia moglie aspetta un bimbo, so che è peccato, ma non possiamo permettercelo, non riusciamo a pagare il prestito che la banca ci ha fatto per avere la casa…
Noi pensiamo che chi viene sia “extracomunitario, clandestino…”; no, ci sono i nostri… magari vicini di casa…
Chiunque sia, noi sappiamo che è “nostro fratello” e noi, comunità cristiana che spesso recitiamo il Padre nostro, cosa facciamo per loro?
Nel Vangelo si legge: “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt. 25.40).
3.
LA CATTEDRALE
Franco Cagnasso
Come ogni giovedì, esco prima delle 6, e d’inverno è ancora buio. Un rikshò solitario scampanella e s’avvicina speranzoso, ma proseguo a piedi lungo la strada deserta, attento ai tombini scoperchiati, al canale di scolo, la pozzanghera perenne creata dalla tubatura forata, le immondizie, una buca fuori programma. Un uomo che canta il Corano al primo piano di una casa ben tenuta.
Duecento metri, ed ecco la fila di chi sta dormendo sulle morbide, sconnesse mattonelle di cemento del marciapiede; oggi conto 13 tende, cinque, sei, sette persone sotto ciascun telo di plastica blu agganciato al muretto insieme alla zanzariera e tenuto fermo, a terra, da mattoni. Un’anziana s’è già alzata, va a prendere acqua con una bottiglia di plastica; un bambino piange; un uomo si lava i denti accoccolato. Quando ripasserò, fra due ore, le tende saranno raccolte a fagotti sulla striscia di terra dall’altra parte della strada, gli uomini saranno a cercare lavoro o a pedalare sui rikshò, le donne più giovani e le più anziane baderanno ai bambini: una lava il marmocchio con l’acqua di un pentolino, l’altra cucina su due mattoni, un’altra suddivide il contenuto del primo sacco di pezzetti di carta e plastica raccolti sulle strade dalle bambine più grandi.
Raggiungo la Kemal Ataturk Road e aspetto che arrivi il ruggente micro bus. Rispettoso della mia evidente età veneranda, l’autista rallenta più del solito. Di fermarsi non se ne parla: sarebbe poco dignitoso, un segno che il suo correre non è importante. Abbordo baldanzosamente il trabiccolo, unendomi a poche guardie notturne che tornano a casa insonnolite. Fra un’ora sarà strapieno, non riuscirei a salire nemmeno piangendo in cinese. Tre taka di spesa (tre centesimi), tre minuti di viaggio e sono oltre l’Ambasciata americana, su una tangenziale urbana. Scendo al volo, e finisco nelle nuvole di polvere sollevate da cinque donne che spazzano l’asfalto con lunghe scope di vimini, tenendo con i denti il velo del san, su cui vestono una casacca con la scritta: Comune di Dhaka – Pulizie. Spostano dal centro al margine della strada terriccio e sabbia, formando mucchietti che resteranno lì. La sabbia si risparpaglia durante il giorno, pronta ad essere riscopata la mattina seguente. A mani nude, o pizzicandole fra due tavolette di compensato che si sono procurate a proprie spese, raccolgono le immondizie vere e proprie riempiendo una carriola spostata da un ometto, che la porta a un carretto più grande e poi a un enorme mucchio, dove varie ondate di mendicanti e bambini verranno a rovistare finché, ogni pochi giorni, un camion passa a caricare. Mi sorprendo a fantasticare che qualcuno (l’ONU? La Banca Mondiale? La Croce Rossa? I Cavalieri di Malta?…) realizzi una grandiosa distribuzione gratuita in tutta Dhaka di mezzo milione di palette di plastica… Tre vecchi autobus messi di traverso si contendono i passeggeri rombando, strombazzando, facendo la mossa di partire, mentre i rispettivi “assistenti autisti”, a terra, si sgolano urlando le destinazioni e si sbracciano: “Zio, dove vai? Sali!”. Mi sbarra la strada e quasi mi spinge dentro; svicolo e proseguo.
Sulla destra, la strada a quattro corsie costeggia un enorme slum in rapida trasformazione. Sloggiano gruppi di baraccati, costruiscono palazzi, officine, segherie, ristoranti. Ogni settimana vedo qualcosa di nuovo, se manco per un mese stento a riconoscere i posti. Sulla sinistra, un lungo muro separa il quartiere di Baridhara – quello dei ricchi e delle ambasciate – dal traffico che si sta facendo intenso. Anche il vivaio ha sempre qualcosa di nuovo: è la striscia fra il marciapiede e il muro, circa un metro di larghezza di terra con alberi. Fra un albero e l’altro qualcuno coltiva piante ornamentali, fiori, vasi da terrazza, espone portafiori in gusci di cocco: 200 metri di vivaio largo un metro. Questo sì che si chiama utilizzare il terreno! Un fantasma viene verso di me a lunghe falcate, agitando a mulinello le braccia e scuotendo i veli neri che la coprono da capo a piedi. Le scarpe da ginnastica rivelano le intenzioni non aggressive: sta facendo jogging, probabilmente per perdere peso. Spero che ce la faccia…
Sono già passato accanto ad una decina di moschee, ora trovo il capannone- chiesa degli Oblati di Maria Immacolata. Si stanno preparando alla Messa delle 6.30, sempre con un buon numero di fedeli, soprattutto uomini. Qui le Blue Sisters il mercoledì mattina tengono dispensario gratuito, frequentato da un incredibile campionario di persone con miserie, rogne, malattie, handicap e imbrogli… Poco oltre, entro a destra nello slum, che in questo punto per qualche misterioso motivo chiamano “Coca Cola”. Davanti alla moschea illuminata si fermavano gruppetti di devoti per chiacchierare dopo la prima delle cinque preghiere quotidiane; da tempo sono stati sloggiati da un improvvisato mercato di banane che, scaricate dai camion, vengono suddivise in grandi ceste e caricate su tricicli con il pianale, o direttamente sulla testa dei rivenditori ambulanti. Marmocchi e marmocchie s’intrufolano svelti sotto i tricicli e raccolgono i frutti caduti, riempiendo sacchettini di plastica che andranno a rivendere ai venditori di tè, seduti agli angoli delle strade con un grosso thermos, tre tazzine, un secchio d’acqua, biscotti, e banane per la colazione dei passanti.
Lo slum si sta svegliando, una bimbetta velata s’affretta verso la moschea con il quaderno degli esercizi di arabo. Alla baracca ristorante stanno friggendo le porata e viene l’acquolina in bocca… M’infilo a sinistra in un cancello. Cortiletto, veranda e tre stanze in cui, a fianco di altre famiglie, vivono le Blue Sisters: camera con due letti a castello, cucina-tinello-sala da pranzo-studio, cappella. Se mi legge qualche ingegnere esperto in arredamenti interni di aerei, faccia un salto qui e avrà qualcosa da imparare su come sfruttare i pochi spazi disponibili. Quando hanno riempito lo stagno vicino c’è stato l’assalto dei topi, che hanno mangiato persino i fili della luce, ma in poche settimane la popolazione topesca è poi tornata a livelli ordinari.
Suor Emilia – cuneese – è qui da tanti anni, Suor Franca – santal – da quando, pochi mesi fa, la coreana suor Nives ha lasciato per trascorrere un anno sabbatico con la comunità a Cuneo. Il “Movimento Contemplativo Missionario P. De Foucauld” vive la missione come comunione, stando insieme ai poveri e pregando. Mi siedo, un saluto, un bicchier d’acqua, e arrivano Giovanna e Giuseppe, una coppia di imprenditori padovani che hanno ricominciato qui la loro avventura professionale, con la caparbia volontà di praticare un’imprenditoria giusta, onesta, che dia lavoro, sicurezza e dignità. È ora di Messa, in italiano. Giuseppe prepara l’ambiente aggredendo la nuvola di zanzare con una specie di racchetta da tennis dotata di batteria, che condanna a morte sicura le malcapitate che vengono toccate.
Siamo cinque, seduti su sgabelli di vimini, in una chiesa di m. 2,5×2,5. Intorno, i rumori del formicaio/slum: chi fa la doccia, chi cucina, chi russa, chi litiga, chi canta, chi ascolta la radio, mentre i corvi gracchiano, gli aerei atterrano e decollano dal vicino aeroporto, la pompa dell’acqua ronza…
Dopo il vangelo, c’è il mio commento, e poi un po’ di scambio. Si parte dalle letture liturgiche, dalla vita qui, dal pensiero di amici lontani… poi Giovanna e suor Emilia finiscono per parlare dei poveri che cercano di aiutare, Giuseppe della sua fabbrica e della fatica di viverci dentro con un cuore evangelico, suor Franca dei bambini a cui fa scuola e io dei seminaristi… Ma non ci si stanca. Finito, i due coniugi scappano al lavoro, per me c’è la colazione con le suore prima di tornare al seminario.
“Ho visitato magnifiche cattedrali, in tante città, ma questa è la più cara e la più bella che ho conosciuto” dice spesso Giuseppe. È la cattedrale di Coca Cola.