Antologia di scritti di Don Cesare Sommariva


 

Dei dieci anni di fabbrica, pubblichiamo due testi di don Cesare: le sue riflessioni sull’ultimo giorno alla Redaelli – che per ciò stesso costituiscono una sintesi di tutto – e la descrizione che egli fece della sua azione con i compagni di reparto [da Le due morali. Scelte imprenditoriali, lotte sindacali e intervento culturale alla Redaelli Sidas di Milano dal 1979 al 1984, Edizioni Lavoro, Roma, 1986].
Nelle pagine successive riproduciamo anche il comunicato sulla morte di don Cesare agli ex operai della Redaelli e un’intervista ad Achille Cremonesi.

 


 

In marzo la fabbrica è praticamente ferma. Inizia così l’esodo finale. Per molti, anche se continueranno a partecipare alle assemblee e alle manifestazioni, questo è il momento del distacco dall’azienda. L’ultimo giorno di lavoro viene anche per me. Ai miei compagni e a coloro che restano dedico le mie ultime riflessioni su quella che è stata un’esperienza davvero condivisa per lunghi anni.

 


I. Da don Cesare: il mio ultimo giorno di operaio alla Sidas spa

Oggi è stato il mio ultimo giorno di ferriera. Mi sono preparato lentamente. Ieri e l’altro ieri mi son preso il tempo e furtivamente sono andato a girare i vuoti reparti in cui ho lavorato negli anni passati, all’inizio e nei passaggi successivi.
Via via mi riprendeva l’orrore che vi ho vissuto. Intenso il ricordo del freddo notturno, della fatica enorme, del sonno dopo le tre di notte, il terrore che mi faceva ubriacare… Sentimenti di orrore verso il lavoro. Sentimenti di commozione e di grande affetto verso i compagni di lavoro che mi hanno aiutato… Li rivedo uno per uno con i loro gesti, sorrisi, incoraggiamenti, con la loro disattenzione attenta…
Ho voluto gustare i ricordi, lasciar emergere i sentimenti. Sono andato nello spogliatoio dove da tre anni il mio armadietto restava chiuso perché mi cambiavo in reparto. L’odore intenso di quel luogo (ogni reparto in ferriera ha il suo odore intenso, ma lo spogliatoio è tipico) mi ha richiamato i ricordi più profondi. È lì che inizi e lì che finisci, con tutti i sentimenti dell’inizio e della fine del lavoro (chi non ha provato non conoscerà mai)… Soprattutto l’inizio delle undici di sera e la fine delle 7 del mattino… Un brivido forte mi ha scosso in tutto il fisico. Ero quasi paralizzato. Il ferro con il lucchetto a numero che chiudeva i due armadietti (grande conquista!) era intatto. Nessuno lo aveva forzato. Forse il nome aveva fatto buona guardia. Non mi ricordavo a mente la combinazione. Però le mani si sono mosse automaticamente.
Apro. Vi è ancora il sapone, la bottiglietta dello shampoo vuota, la carta igienica, la salvietta, l’elmetto con la visiera termica, il calzascarpe… e le bretelle appese. Tocco le bretelle e si sbriciolano in mano. Il sudore le aveva letteralmente cotte… Metto tutto in un borsone di plastica ed esco camminando all’indietro…
Non so più discernere i sentimenti. Mi riprende l’odio per chi non ha vissuto queste cose… e non le vuole riconoscere. Chissà perché proprio l’odio… Ci ripenso e capisco il perché: è l’odio verso la menzogna che impedisce la conoscenza di cosa è l’operaio.
Torno in reparto. È l’ultimo giorno e nel pomeriggio mi rifiuto di lavorare. Non riesco proprio. Gli altri in reparto han fatto il pupazzo funerario, mi han fatto fare i cartelli. Ci prepariamo all’addio. Ci siamo scambiati i numeri di telefono. Piero ha fatto fare la torta alla ricotta dalla moglie, tutti han portato vino… Ripenso e cerco di individuare le cose essenziali che ho capito in questi dieci anni di fabbrica. Da quella delle lacche speciali, da cui tornavo e mi buttavo sul letto piangendo con il sangue che non circolava più, al condizionamento delle billette, ai forni, al collaudo dei forni… e poi ancora ai forni… e poi…
Ho provato a scrivere le cose essenziali. Erano tante. Troppe per essere comunicate. Ho provato a restringere, ma mi sembravano tutte essenziali. Allora ne ho scelte sette. Ho tralasciato quelle che riguardano i rapporti con gli operai, i capi… e ho scelto sei cose che riguardano il mio profondo e una che riguarda la lotta. Le dico anche queste molto velocemente.

1. La prima cosa essenziale è la differenza fra lavoro manuale e lavoro intellettuale: tra il lavoro che facevo prima, in cui io progettavo e poi facevo le cose che avevo progettato, e il lavoro in fabbrica in cui dovevo solo eseguire ciò che altri avevano deciso. Mi sentivo male alla testa. Ma la cosa più grossa all’inizio è stata soprattutto il fatto del non saper «lavorare» e il fatto che nel lavoro manuale gli errori li vedi subito e recano danno visibile e constatabile. Cosa che nel lavoro intellettuale non succede.

2. La seconda cosa essenziale che ricordo è quella del lavoro pesante e nocivo, del lavoro tremendo e impaurente e del lavoro a tre turni, distruggente ogni cosa. Il lavoro faticoso. La paura di non farcela fisicamente. La rovina fisica. I turni che ti tolgono il vivere sociale. Quando adesso alla sera vado regolarmente a dormire il mio pensiero è là, dove alle 23 iniziava «la notte».

3. La terza cosa essenziale è stata il toccar con mano come il lavoro produttivo manuale non è riconosciuto. Nessuno ti ringrazia. Ancor oggi sorrido quando penso che al mattino dopo la fatica della notte mi aspettavo che qualcuno fuori di fabbrica ci battesse le mani…

4. Essenziale è il fatto che «libertà è là fin dove è arrivato il movimento operaio». Dietro di lì c’è una certa libertà. Fuori di lì c’è solo l’arbitrio dei capi o il ruffianarsi individuale. Questo lo sperimenti ogni giorno, ogni momento, in fabbrica. Lo vedi. Lo vivi.

5. La quinta grossa scoperta è stato l’abisso fra me e gli altri. Un abisso che esige – permette – un rapporto che deve essere preciso nel ruolo, nel comportamento, nelle parole. Se lo si riempie con rapporti paternalistici, assistenziali, mistificanti, dirigenziali… è finita. Questo rapporto è quello che chiamo intervento culturale e che più volte ho descritto.

6. La sesta cosa essenziale che in questi ultimi mesi ho scoperto, compreso sempre di più è che il movimento è davvero invisibile. La lettura di tutta l’esperienza della Redaelli da questo punto di vista è affascinante, commovente, rivoltante. Tutto ciò che è movimento in Redaelli ha radici di 100 e più anni. Quindi tutto ha uno spessore di una «storia continua». Il movimento qui è cultura. All’inizio ciò era invisibile anche a me.
Vedevo, sentivo, vivevo, ma non mi accorgevo. È questo che mi fa rivoltare lo stomaco. Anche a me, pur vicino agli operai, attento al movimento, appassionato al movimento, il movimento reale, nelle sue articolazioni, nelle sue origini, nelle sue azioni, era invisibile. Erano visibili solo alcune conseguenze. Ora mi accorgo! Mi accorgo di essere vissuto in un «seno riparato». Altri erano i costruttori di questo riparo. Altri avevano conquistato e mantenevano le conquiste e gradatamente le portavano avanti… Ora solo capisco certi discorsi, certe reazioni dei delegati, dei compagni… li rivedo, viso per viso. È affascinante rileggere tutto da qui. Per chi è fuori, o contro, o lontano, non è assolutamente possibile vedere. È invisibile.

7. La settima cosa, che ho dovuto verificare soprattutto in questi 52 mesi di «resistenza», è che «il tavolo non risolve i problemi». Questa è l’essenza delle deduzioni sulla lotta. Ci sono alcuni ancora che pensano che «i problemi si risolvono al tavolo» delle trattative. Questo è falso. Il «tavolo» è il posto in cui ti spogliano gradatamente, in cui gradatamente ti fanno fare quello che vogliono loro, in cui loro gradualmente portano avanti i loro piani assorbendo ogni iniziativa. Questa è l’essenza. Poi potrei spiegare questo in molti modi e con molti esempi. Ma è solo la lotta, possibilmente permanente e con riflessi esterni, che impedisce la realizzazione dei loro piani. Sapendo che ogni conquista è precaria e ti obbligano a restituirla, se non fai il passo successivo. Appena ti fermi loro si prendono quanto hai conquistato.


 

II. Alcune considerazioni «teoriche» in ordine al lavoro di coscientizzazione

 

Anche nel mio reparto il principio della rotazione si afferma solo dopo un faticoso confronto e sulla base di molte discussioni. L’esperienza di quel periodo si presenta ai miei occhi come l’occasione per verificare molte delle idee che mi ero fatto nel corso degli anni sul comportamento operaio. Ed, inoltre, mi spinge a riflettere su quelle che considero le condizioni indispensabili per un efficace intervento culturale in fabbrica. Come mia abitudine, a cose avviate, cerco di riassumere, per me e per gli amici con cui mi confronto più di frequente, il cammino percorso con i miei compagni di squadra. Si tratta di alcune considerazioni «teoricbe» in ordine al lavoro di coscientizzazione che nel documento trovano una prima sistemazione provvisoria.
Fin dall’ingresso in fabbrica, d’altra parte, ho ritenuto fosse questa la mia funzione specifica: aiutare quelli con cui lavoravo a riflettere e a decidere, cioè a comportarsi da «soggetti». E la vicenda della rotazione assume un significato particolare nella mia esperienza proprio perché testimonia la possibilità di tale passaggio.

1970: sciopero alla Redaelli


 

22 aprile 1980

Divido per comodità il mio “racconto” in: 1. finalità; 2. forze; 3. strumenti; 4. valutazione.
In una squadra di 12 (ora 9) persone, collaudo dei forni di ricottura. Perciò un lavoro il cui tempo è abbastanza (ma non troppo) gestibile. L’ambiente con macchine ferme è poco rumoroso. Per di più, nella sala collaudo in cui stiamo 5 ore circa, è ben definito l’ambiente: 40 metri quadrati.

1. Finalità. Sia pur in mezzo a infinite difficoltà, contraddizioni, ritorni al vecchio, sia pur a poco a poco, sia pur tenendo conto delle tre premesse (il punto di partenza, l’uomo massa; lo stato d’animo in cui si trova la classe operaia; gli operatori culturali attuali) la finalità mi è chiara: non disperarmi, cioè avere dei rapporti minimamente umani pensanti e comunicanti.
Perciò posso dire che, per ora, do alla parola intervento culturale questo contenuto:

a. tentativo di fare in modo che i miei compagni di squadra elevino le loro capacità di: percepire in modo ordinato le cose; riconoscere e identificare bene i soggetti delle situazioni; esprimersi;
b. così che assieme possano arrivare a riconoscere alcuni bisogni e assieme possano definire il modo per risolverli.
Insomma: la finalità che mi son dato è tentare di ricostituire ogni giorno un piccolo collettivo operaio capace di pensare e parlare assieme sulle cose di fabbrica.

2. Le forze. Le forze per far questo ero io stesso, dandomi un modo (ruolo) di fare ben preciso. Dicendo no ad alcune cose (no a dare risposte subito, no all’essere delegato, no all’andare io da solo a richiedere le cose…); dicendo sì ad altre cose (sì alla mitezza, sì al perdono, sì al cogliere le occasioni minime…). Me stesso, utilizzando l’esperienza di intervento culturale fuori fabbrica. Me stesso più l’alleanza cercata di uno o due giovani più legati a me da rapporti di fiducia.

3. Gli strumenti posso dividerli in: a. contenuto; b. metodo; c. momenti; d. tecniche.
a. Contenuto: il contenuto principale su cui la faccenda è riuscita è sempre stato il partire dall’esecuzione richiesta (cioè da “come ti fanno stare in fabbrica”, da “come sei in fabbrica”), ponendo all’altro polo i tuoi bisogni, la capacità tua di dire meglio come soddisfarli, la capacità collettiva di individuare la strada per realmente modificare lì in meglio la situazione (competenza individuale e collettiva). Questo è avvenuto sulla richiesta dei turni di notte; sulla richiesta del turno al sabato pomeriggio; sulla rotazione delle mansioni più nocive; sulla rotazione della Cig; sulla individuazione di forme di lotta da proporre in assemblea; sul riconoscimento del livello…
b. Il metodo è stato sostanzialmente questo: individui un ordine, un comportamento, una situazione che crea disagio, li fai parlare, raccogli quanto dicono, dividi la faccenda in due: quello che vuole l’azienda, quello che vuole il capo, quello che dice il capo e quello che vogliamo noi, il movimento operaio; assieme si valutano le possibilità di cambiare (obiettivi-lotte). Fai dire, dici, raccogli, fai schierare, chiami il delegato e inizi.
È qui che è stata valida l’ipotesi che è venuta fuori dai rapporti con la funzione del capo. La fabbrica sta in piedi grazie alla sua struttura gerarchico-repressiva. Il capo, come funzione, non rappresenta se stesso, ma l’azienda. Anche se ti è amico, quando deve comandare si schiera per forza con l’azienda. Quindi, contro il capo, contro la sua funzione, non c’è niente da fare come singolo. Al massimo puoi ruffianarti per avere delle briciole, o puoi ribellarti con rabbia contro certi suoi soprusi evidenti (mancanza di rispetto). Ma poi, o sei oggetto dei suoi ricatti, o stai male fisicamente e psichicamente e rischi ritorsione. Se è vero che l’antagonista della borghesia non è il singolo operaio ma la classe, occorreva portare queste cose nel piccolo. Ecco allora l’ipotesi: l’antagonista alla funzione del capo è la squadra unita.
L’essere in balìa del capo e delle esigenze produttive è stata la cosa che più mi ha colpito entrando in fabbrica. Tu non conti niente. Ti cambiano i turni quando fa comodo a loro. Al venerdì si aspettavano le 15 per andare a vedere l’ordine di servizio. Io non potevo non programmare la mia vita fuori fabbrica. Da solo non potevo risolvere il problema, anche se i miei compagni mi davano una mano nel sostituirmi quando avevo bisogno. Non appena è venuta fuori la richiesta del turno al sabato pomeriggio è scattata la discussione: le due esigenze diverse, la valutazione sulle possibilità di fare diverso, il delegato, assieme dai capi, ecc., col solito rito che in fabbrica tutti ormai conoscevano: questa processione di 13 persone da un capo all’altro… per più volte…
c. I momenti che ritmano “l’intervento” sono quattro:
un momento di ascolto di me e degli altri con il recupero collettivo dei lamenti, fatti, pareri;
un momento di riflessione che comprende il rifarsi alla “teoria” o all’ipotesi; il ricercare gli elementi che ci occorrono; il formulare un giudizio circa le possibilità nostre e loro, circa i valori collettivamente recepiti o rifiutati; circa la sensazione di forza sufficiente;
un momento di invenzione, che vuol dire stabilire chiaro l’obiettivo, stabilire chiaro la forma di lotta cui tutti si attengono; alla invenzione segue l’azione (chiamare il delegato eccetera, oppure cambio di comportamento…);
un momento di valutazione circa i risultati.
d. Le tecniche sono diverse. C’è da dire che per me sono state molto importanti. Potrei dividerle – un po’ forzatamente – in: tecniche di preparazione mentale; tecniche di aggregazione; tecniche di invenzione.
Velocemente alcune cose.
Tecniche di preparazione mentale: il libretto sulla salute fatto individualmente i foglietti di esercitazione sull’analisi logica (chi compie l’azione, che azione fa, chi la subisce, che effetti dà…); il far costantemente notare i loro comportamenti, per vedere come confondono le contraddizioni in seno al popolo con quelle antagoniste (da cui il diverso modo di parlare, di criticare, di urlare, di rapportarsi); l’evitare molto i rapporti di gioco…
Tecniche di aggregazione: nonostante il lavoro, avere dei momenti di incontro abbastanza rituali (al cambio di turno, quando i capi vanno in mensa); il farli parlare tutti, uno alla volta. Il giro non è una pura tecnica di animazione, ma una tecnica di democrazia sostanziale, in cui a ciascuno “è riservato” il suo spazio di espressione; il riportare su foglio quanto ciascuno ha detto; il fare fogli da dare a tutti, su cui ci sono dei fatti vissuti, messi con ordine, in linguaggio corretto logicamente; non ho mai usato cartelloni o fogli di reparto.
Tecniche di invenzione. Qui siamo nel molto importante. Perché la molla della soggettività scatta qui, quando diventano “capaci” di progettare e fare e vincere almeno parzialmente. Qui ultimamente ho lanciato lo slogan: “fra il dire e il fare c’è di mezzo il programmare”. Cioè: il lamento non serve. Occorre riunirci e programmare. Perché tu un programma non puoi farlo da solo, devi riunirti. Per riunirti devi essere in accordo, devi intenderti seriamente… Molto bello qui è stato quando la squadra del secondo turno ha fatto il programma di turnazione su un lavoro nocivo.
Al di là della lotta che avremmo dovuto impostare per cambiarlo (occorre molto tempo per impostare una lotta che soggettivizzi, utilizzando tutti i valori alternativi, tutte le conoscenze che in questa lotta possono emergere, tutti i rapporti che per essa sono necessari…), occorreva trovare una soluzione immediata. Lamenti, ascolto, aggregazione, «gira anche tu di là», «giriamo tutti», «ma sarebbe meglio rifiutare»… fino a «per ora facciamo la rotazione». «Cesare falla tu»; «io no, fatela voi; io non ruoto finché non vedo il programma fatto da voi»; «ma tu fai prima perché hai studiato»; «finché non lo fate una volta, non imparate mai». Non so quanto tempo ci han messo, però: «vedi che anche noi operai siamo capaci di fare qualcosa…».

4. Valutazione. Per valutare bene, occorrerebbe che mi mettessi a ricordare meglio, a descrivere molto meglio questi più di 5 anni. Dico solo una sensazione: contrariamente a quanto diceva Bernardetta o Mario, non si ha la paura. Il ricordo delle 6 “grosse” azioni fatte, collettivamente, non genera paura, ma nostalgia. «Abbiamo passato dei begli anni assieme. Ti ricordi quando gridavamo, ci parlavamo dietro… Siamo cambiati». Ovviamente non è stato un cammino lineare. Sia pur a poco a poco, sia pur in mezzo a contraddizioni e difficoltà, sia pur con grandi ritorni al vecchio… è stato sperimentato un modo nuovo per vivere dei rapporti in seno al popolo e dei rapporti con i capi.


 

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