Convegno di Bergamo 2009
L’IDOLO È NUDO: METAMORFOSI DEL CAPITALISMO
Interventi e riflessioni


 
Tutti parlano di crisi che ormai fa parte del linguaggio quotidiano: con questa crisi… Non ho risposte economiche, ma mi chiedo: in questa situazione, come mi pongo? Che posso fare io?
La crisi non è una tegola che ci cade addosso improvvisamente, lancia sempre dei segnali. Anche la nostra salute qualche volta fa crac, e quando ci capita andiamo in crisi. Ma il nostro corpo ci lancia dei segnali, qualche volta impercettibili per lo meno all’inizio e che poi si fanno sempre più frequenti. Se siamo attenti, se sappiamo ascoltare e ascoltarci riusciamo a correre ai ripari e porre dei rimedi. Il tutto sta nell’accorgerci. Allora i segnali sono delle occasioni importanti per ripensare e riposizionarci su binari salutari.
Il terremoto in Abruzzo non è arrivato improvviso, ma chi doveva ascoltare i segnali ha fatto finta di nulla. A livello mondiale per quanto riguarda la crisi finanziaria segnali grossi ci sono stati negli anni ‘90 con la crisi del Messico, del Giappone, del Sud est asiatico, dell’Argentina ed anche in Italia con la Parmalat. E come sempre si tamponano le situazioni, per ritornare a quello che si era prima.
Tutto questo perché abbiamo sempre fretta, guardiamo sempre avanti, al futuro, al progresso e soprattutto ci accontentiamo di tamponare le falle, senza mettere mano ad un progetto globale. Ci accontentiamo delle aspirine, che per un certo tempo alleviano il dolore. Guardare al futuro si può, ma poniamo dei segni oggi, perché anch’esso non venga consumato e sia un debito per chi viene dopo di noi. La filosofia che abbiamo assorbito è stata quella della competizione e se vogliamo essere competitivi bisogna correre. Chi si ferma è perduto.
Ora è arrivato il momento di fermarsi, di guardare quello che sta succedendo, analizzando a fondo. Non è più il tempo di mettere dei rattoppi, c’è l’urgenza di reimpostare l’economia, il lavoro, il rapporto con le risorse della terra e con la terra, dopo le devastazioni di questi ultimi cinquant’anni.
Mi viene in mente una frase del Vangelo: “quando vedrete tutte queste cose, questi sconvolgimenti, levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina”. Levare il capo è avere la schiena dritta, non piegata. Non è il momento della commiserazione. Non sono un economista né tanto meno un mago che tira fuori dal cappello la soluzione a quello che sta avvenendo, ma capisco l’urgenza.
Un’antica saggezza cinese afferma che il termine “crisi” è formato da due caratteri “pericolo” e “occasione”. Il termine “pericolo” è vicino a “violenza”; il termine “occasione” è vicino a “sfida”, che è la radice della creazione.
Questa crisi non è solo finanziaria, ma politica, ecologica, sociale e politica e aggiungerei anche ecclesiale.
La società è malata perché il tutto è stato fondato sull’economia e il lavoro sul semplice guadagno. La gente ha paura, si rinchiude nelle case, è sempre più preoccupata del futuro ma anche del presente e le relazioni diventano sempre più conflittuali.
Che possiamo fare?
Cito un aneddoto, che alcuni di voi avranno già sentito.

Stava bruciando la foresta e tutti gli animali scappavano per allontanarsi dall’incendio. Il leone, essendo il re, è l’ultimo ad abbandonare e sta dietro a tutti gli animali. Un piccolo uccello, il colibrì, vola verso l’incendio. Il leone lo vede e gli grida: “Ma dove vai?, scappa che tutto brucia!”. Il colibrì risponde: “Vado a spegnere il fuoco, ho dell’acqua in bocca”. E il leone: “ma che cosa ci fai con una goccia d’acqua?”. Il colibrì: “Ma io faccio la mia parte”.

Come dicevo, è questo il momento di alzare la testa, di non delegare più a nessuno le nostre vite, o meglio è il momento di riprendere in mano la nostra vita, il territorio, la politica. Per decenni abbiamo delegato a politici, esperti, amministratori delegati, tecnici, partiti, la soluzione ai problemi. La partecipazione è calata e le conquiste sociali degli anni settanta non sono ormai un’eredità sicura. Piano piano si è allentata la vigilanza, come se ci fosse stato un assopimento generale. L’idolo economico ha somministrato a piccole dosi il suo modo di vedere la vita, la storia, la terra e, senza neanche accorgerci, noi abbiamo bevuto da quella coppa ed è avvenuto una specie di cambiamento antropologico. E poi è sopraggiunta l’assuefazione. L’idolo che ora è nudo era anche muto, senza nome, per essere imprendibile, irriconoscibile. E ha reso mute la maggior parte delle coscienze, alle quali ha propinato la sua droga del disimpegno, con messaggi lontani dai problemi veri dell’uomo. “Consumate, perché il consumo fa scattare il progresso, voi non pensate a nulla, ci pensiamo noi”. E noi siamo diventati consumatori. “Investite, e se avete qualche soldo datelo a noi, voi non vi preoccupate, siete in buone mani”. E così abbiamo imparato ad investire senza preoccuparci del come questi signori utilizzavano le nostre risorse e spesso anche in operazioni di guerra e speculative. Si è imparato a pensare al domani, al dopo, rimandando sempre il tutto al poi. Intanto i figli sono cresciuti ma hanno perso il loro periodo importante di formazione, creando spesso problemi più tardi. E la nostra vita è diventata una corsa continua che ci ha fatto perdere l’orientamento. Coloro che hanno resistito e resistono sono stati e vengono emarginati, visti come un bubbone da estirpare, colpevolizzati e spesso criminalizzati. Non bisogna disturbare il manovratore. Chi parla dei problemi del lavoro, dell’ambiente, del clima è un rompiscatole, nemico del progresso. E purtroppo anche molti lavoratori ci sono cascati, divenuti razzisti, non vogliono sentir parlare di politica e partecipazione, anche perché la politica con la maiuscola non esiste più.
L’idolo è senza cuore e pertanto incute timore, non amore. Ha reso pertanto tutti noi pieni di paura: una società della paura, blindata, che ha paura dello straniero, dell’estraneo, del diverso come cultura e fede. Sulla paura si costruiscono imperi economici: armi, sistemi di sicurezza, ronde, polizie private. E si ritorna alle città blindate, ai villaggi circondati da mura e fili spinati, come nel Medio Evo.
L’idolo è potente, ma non invincibile, ha i piedi di argilla, secondo l’immagine del profeta Daniele. Un sassolino è sufficiente a farlo cadere. C’è un’altra immagine biblica dei sassolini, quelli che Davide usa per la fionda, contro Golia. Ecco che allora siamo chiamati ad utilizzare i sassolini, espressione del nostro impegno quotidiano per uno stile di vita equo e solidale, riprendendo a partecipare attivamente nei nostri quartieri perché diventino più vivibili, non tacendo di fronte alle piccole ingiustizie quotidiane, nonostante la paura del ricatto.
E soprattutto avere la capacità di discernere la verità, perché la menzogna è l’arma dell’idolo, che ha una sua cultura propugnata attraverso messaggi, programmi televisivi, discorsi di personaggi, creando falsi bisogni. Chiederci quale conseguenza ha ogni nostro gesto, sulla nostra vita e quella degli altri e sulle generazioni che verranno.
Un pensiero di Gandhi, ci può essere utile nelle nostre scelte quotidiane:

Ti darò un talismano. Ogni volta che sei nel dubbio, o quando il tuo io ti sovrasta, fa’ questa prova: richiama il viso dell’uomo più povero e più debole che puoi aver visto e domandati se il passo che hai in mente di fare sarà di qualche utilità per lui. Ne otterrà qualcosa? Gli restituirà il controllo sulla sua vita e sul suo destino? In altre parole, condurrà all’autogoverno milioni di persone affamate nel corpo e nello spirito? Allora vedrai i tuoi dubbi e il tuo “io” dissolversi.

Questo nei confronti degli altri, ma anche nei confronti della terra, che non è un’eredità che abbiamo ricevuto dai nostri genitori, ma è un prestito dei nostri figli.
Parlando di idolatria ci siamo riferiti all’economia, ma lo stesso discorso vale per le chiese cristiane, che sono in una profonda crisi. E questa volta non ci si può accontentare delle aspirine, delle piccole riforme liturgiche, dei documenti e proclami. L’idolatria non è sempre fuori, ma alberga nelle chiese. L’idolatria del potere, l’asservimento al potere, il tacere, il diventare potere ad immagine dell’altro potere. Una struttura imperiale, che va snellita e resa più essenziale e partecipativa.
Mi piace questo pensiero di Tonino Bello, dal titolo: Disturbare il manovratore.

E anche tu, chiesa, guardati dalle insidie nascoste del potere. Perfino un progetto grandioso di liberazione umana può essere ambiguo se prodotto da sete di dominio, e i successi ottenuti sul campo possono divenire segni di potere. A te non si addicono i segni del potere, ma solo il potere dei segni.
Non tocca a te, cioè, col tuo impegno di carità, risolvere i problemi della casa, della disoccupazione, della fame nel terzo mondo, o della ingiustizia planetaria. Tocca a te, però, condividendo la sorte degli ultimi e schierandoti con loro, porre segni di inversione di marcia ogni volta che il mondo assolutizza se stesso. Rinuncia pure ai segni del potere. Non convertono nessuno. Ma non rinunciare al potere dei segni. È un potere povero che dà fastidio, perché disturba il manovratore. Ma conduce finalmente ai piedi della croce, sulla quale il Cristo, con i segni del fallimento, ci ha conquistato la libertà.

 

Mario Signorelli


 

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