Il vangelo nel tempo



La recente polemica sul crocifisso mi ha fatto ricordare un mio scritto di molti anni fa che sono riuscito a rintracciare. Il clima politico e religioso erano decisamente diversi e lo si percepisce tra le righe. Ho preferito tuttavia lasciarlo così, senza ritocchi, correzioni migliorative e aggiunte per renderlo completo. Mi sembra che sia espressa la “differenza” necessaria senza la quale il crocifisso viene “omologato” quale ingrediente di una identità storico-culturale ed anche politica che non ha nulla a che vedere con la realtà paradossale che la sua immagine evoca. La storia ci insegna che anche il crocifisso può essere ridotto al rango dell’idolo usato per dominare o come vessillo contro gli altri. La sua correlazione con i crocifissi della storia è uno degli aspetti decisivi perché possa rimanere viva e sempre attuale la densità teologica di questo simbolo.

 
In via di principio si intuisce che non ci può essere contraddizione tra il credere nel Cristo e l’impegno totale per una nuova umanità sul piano storico; anzi, nella misura in cui si approfondisce il messaggio evangelico, ci si convince che l’adesione ad esso passa necessariamente attraverso la lotta per liberare gli uomini dalle schiavitù.
Nella pratica, però, le cose diventano ben più difficili e non di rado le scelte personali si radicalizzano o nel senso dell’abbandono della fede esplicita in Gesù per dedicarsi, con minori drammi di coscienza, ai movimenti che lottano per una nuova società, oppure nel senso del rifugio in un tipo di religione che tende a sfuggire la reale storia degli uomini.
Per il cristiano il riferimento a Gesù Cristo è essenziale: non lo si può emarginare o mettere alla periferia della vita. Nel qual caso infatti si dichiarerebbe Cristo superfluo, pressoché inutile e, ovviamente, per un credente questa è una posizione impossibile. La prima predicazione apostolica è tutta concentrata sull’annuncio del Salvatore crocifisso e vivo: «Vi ho trasmesso, dunque, prima di tutto, quanto anch’io ho ricevuto, che cioè Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture, che fu sepolto e risorse il terzo giorno, secondo le Scritture, e che apparve a Cefa (Pietro) e poi ai 12. In seguito, apparve ad oltre 500 fratelli in una sola volta e, di questi, la maggior parte resta tutt’ora in vita, mentre alcuni sono morti» (1 Cor 15, 3-6).
Un cristiano, per essere davvero tale, non può vanificare, cioè rendere irrilevanti, queste parole, proprio perché il suo credere è riferimento esistenziale ad una Persona viva e accolta come sorgente di salvezza per tutti gli uomini.
Però, nella misura in cui si tengono ugualmente vivi la fede in Gesù e l’impegno con e per gli uomini, si sperimenta nella vita che la fede stessa esige, per natura sua, di diventare prassi di liberazione, cioè amore per questa umanità storica.
Se le due realtà sono distinte, tuttavia debbono necessariamente coesistere; infatti, non è concepibile una vera fede in Gesù che non tenda a diventare impegno per la vita degli uomini.
Il ricordo della vicenda di Gesù, con le sue parole, le sue scelte, la lotta da Lui sostenuta, ci conduce sino alla crocefissione, cioè al momento critico della sua vita. La sua non è stata una morte naturale, ma una uccisione violenta «legalmente» eseguita secondo la legge religiosa ebraica «perché ha bestemmiato» (Mt 26, 65-66) e secondo la legge civile, quale «sovvertitore di popolo e oppositore di Cesare» (Lc 23, 2). La crocifissione era l’esecuzione capitale degli schiavi e dei delinquenti. Nella stessa Bibbia si trovano le parole: «sia maledetto chiunque è appeso al legno del patibolo» (Gal 3, 13).
L’orrore di un crocifisso amato e creduto vivente è stato lo scandalo che hanno reso i primi cristiani. Perché era scandalo? Perché non vi era (e non vi è) nulla di meno «sacro» e di tanto «ateo» della fede in un Dio crocifisso. Lo scandalo dei Giudei e dei pagani era più che legittimo dal punto di vista della «loro» concezione di Dio. Eppure non vi è nulla di più divino e nulla di tanto grande umanamente di un Dio che viene condannato e giustiziato come tanti altri da chi detiene il potere di uccidere. II risultato è che ogni uomo, anche il malfattore, il paria, l’ultimo nella stima degli altri uomini, è accolto e amato da questo Dio che ha rovesciato in modo «scostumato» il convenzionale galateo religioso.
In tutto questo vi è un giudizio che permane nella storia e che si adempirà anche al di là della storia stessa: quelli che vengono crocifissi, uccisi, schiacciati dagli altri uomini «legalmente» o «illegalmente», si trovano Dio dalla loro parte, lo sappiano o no. E chi crocifigge i propri simili si trova Dio dall’altra parte, pronto a perdonare, sì, ma a condizione che si smetta di essere crocifissori: «Quanto a me, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me. Diceva questo per indicare di quale morte stesse per morire» (Gv 12, 32-33).
Attira tutti per la salvezza, ma è ovvio che chi crocifigge non può stare in compagnia col crocifisso! Chi crede in Gesù deve allora imparare a scoprire il suo volto e la sua realtà in tutti quelli che oggi, come sempre, vengono distrutti, sfruttati e alienati della loro umanità, vengono di nuovo venduti per 30 denari.
Senza questo collegamento vivente i crocifissi di bronzo delle chiese diventano una specie di totem e quelli d’oro nient’altro che ciondoli che adornano il collo delle signore.
Proprio la fede in Gesù Cristo crocifisso, ma vivo, pone alla radice l’istanza che non vi siano più uomini crocifissi, derubati della loro vita, venduti nella loro umanità. Per questo la neutralità è sacrilega, perché non discerne crocifissi e crocifissori, cioè non discerne da che parte sta il Cristo che attira tutti a sé.
È la fede stessa nel Cristo vivo, passato attraverso la morte, che impegna a battersi perché gli uomini vivano, e vivano da uomini, e a lottare perché gli schiavi vengano liberati.
Rimane sempre attuale e da attuarsi il programma che Gesù ha enunciato a Nazareth, all’inizio della sua vita pubblica: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato, mi ha mandato a predicare ai poveri la Buona Novella, ad annunciare ai prigionieri la liberazione, ai ciechi il recupero della vista, a mettere in libertà gli oppressi, a promulgare un anno di grazia del Signore» (Lc 4, 18-19).
L’istanza posta da Gesù non è riducibile ad una specifica strategia politica e neppure ad una semplice predicazione morale; la sua esistenza si pone nell’ordine dei fini, ci insegna a guardare, in tutto quello che facciamo, ai fini lontani della vita. Insegna cioè che l’uomo non è nato per morire, ma per cominciare, invita ad intuire la storia nella prospettiva della risurrezione e a credere che il dato di fatto disumano, ingiusto, oppressivo e portatore di morte, non è inesorabile, ma può e deve essere cambiato, cominciando subito.
Avere fede è intuire nella loro identità la risurrezione e la crocifissione. Affermare il paradosso di Dio in Gesù crocifisso, giunto al limite estremo dell’angoscia e dell’impotenza, abbandonato da Dio, significa liberare l’uomo dalle illusioni del potere e dell’avere. Dio non è più l’imperatore dei Romani né l’uomo nel pieno della sua forza e bellezza, come per i Greci.
Non è una promessa di potenza. È la certezza che è possibile creare un avvenire qualitativamente nuovo soltanto identificandoci con coloro che nel mondo sono più miserabili ed oppressi, soltanto unendo la nostra sorte alla loro, fino a non riuscire a concepire nessun’altra autentica vittoria se non la loro». (R. Garaudy», L’alternativa: cambiare il mondo e la vita, Cittadella Editrice, Assisi 1973).
Credere è anche non dimenticare che per tutti viene la sera della vita, quando ogni parvenza viene meno e rimane la nuda realtà della esistenza umana. E viene in mente la preghiera del ladro crocifisso con Lui: «Gesù, ricordati di me, quando ritornerai nel tuo regno!». E Gesù gli rispose: «In verità ti dico: oggi sarai in Paradiso con Me» (Lc 23, 42-43).
 

Roberto Fiorini

(da Interventi, Anno III n. 3, marzo 1975)


 

La croce non è un’invenzione teologica,
ma la risposta data mille volte dal mondo
ai tentativi di liberazione;
gettata non da Dio, ma dai violenti
sui poveri, sui vinti e sui colpevoli.
(Dorothee Sölle)

 


Share This