Se non ora, quando?


 

Il paradigma dell’esodo

 
Nel disorientamento generale (che è anche il mio, naturalmente!), provo a leggere le Scritture alla ricerca di chiavi di lettura e anche di uno stile: per capire “che cosa” succede, senza affidarmi alla cronaca, o “che cosa” fare, andando oltre l’immediatezza, la reazione del momento; e per apprendere un “come” capace di “sentire in grande”, in un momento storico in cui prevale uno stile opportunistico che promuove il banale ed il meschino.
L’esodo, inteso non riduttivamente come vicenda puntuale e neppure soltanto come singolo libro della collezione canonica, bensì quale architettura complessiva delle Scritture ebraico-cristiane, domanda di essere ulteriormente frequentato ed interrogato, osando persino farne un paradigma teologico-politico per la comprensione del nostro presente (dove nella polis ne va sempre anche dell’individuo; e quest’ultimo si gioca in una pluralità di dimensioni: senza, cioè, cadere in una semplificazione, sia pur politica, del reale).
Nel mio precedente intervento (“Liberarsi dal faraone”), ho proposto una lettura di tale paradigma esodico, sottolineando la centralità del Sinai, ovvero del momento in cui risuona una Parola diversa da quella fin qui udita, la parola di faraone, alla cui scuola da sempre l’umanità apprende l’alfabeto di base.
Scoperta dell’acqua calda? Riproposizione del vecchio dibattito sui modi del cambiamento sociale (a partire dalle strutture, per gli uni, o dalla persona, per gli altri)? Semplificazione religiosa di una scena storica complessa, che domanda azioni più che idee?
Penso che stare nel presente in modo responsabile significhi anche provare ad interpretarlo con una buona dose di ironia nei confronti delle proprie proposte e ricercando meno l’originalità e più l’utilità. Del resto, il ricorrere alla Bibbia è operazione che già di per sé insegna a non rincorrere una propria intuizione più o meno geniale ma a battere la strada di una sapienza secolare, preoccupata di affinare lo sguardo e non di tirare fuori dal cappello l’ennesima sorprendente novità.
 

Primato dell’ascolto

 
Secondo tale sapienza, “non era sufficiente che Israele fuoriuscisse dall’Egitto; occorreva pure che l’Egitto fosse fatto uscire dal cuore di Israele”. Questo ulteriore e più radicale passaggio avviene sul Sinai, laddove Dio consegna al suo popolo una diversa bussola esistenziale e sociale, una Parola altra, alternativa a quella del faraone finora udita. Decisivo per la riuscita dell’esodo è l’ascolto di questa Parola differente, anzi un ascolto prolungato. Il libro del Deuteronomio illustra di che tipo di ascolto necessiti questa parola al fine di risultare efficace: essa va, innanzitutto, “custodita”. Tra l’udire iniziale ed il fare a cui mira, vi è il custodire (sharnar, in ebraico: l’operazione compiuta dallo shomer, ovvero la sentinella che nella notte attende l’alba: Is 21,11). Mormorare, dice il Salmo 1. Meditare, dice la tradizione monastica. Spiritualismo a buon mercato?
Prendiamo in considerazione il protagonista del Salmo 1: viene descritto come una persona sola, ma non per fuga dal reale bensì per la deliberata scelta di rifiutarsi di porsi sulla strada dell’iniquità scelta dai più, di comportarsi come gli altri: “… non ha seguito il consiglio dei prevaricatori, non si è messo sulla strada dei peccatori, non si è seduto sul banco degli schernitori” (v 1).
La forza di non cedere e finire col fare quello che fanno tutti gli viene dalla gioia che prova nel seguire una Parola alternativa: “la sua gioia nella Torà del Signore; la cui Torà sussurra giorno e notte” (v 2).
Costui fa suo il progetto divino sul mondo. Esso non è realizzato: è solo un mondo sussurrato, offerto alla meditazione.

“Rispetto al mondo esistente, questo genere di meditazione rappresenta un mondo di contrasto… Colui che medita ricostruisce continuamente un mondo proprio, il contro-mondo, nella meditazione fatta di recitazione a bassa voce del testo della Torà… Avendo nel cuore e sulla bocca il progetto di mondo delineato da Dio, prende le distanze dalla mentalità dominante che lo circonda e si ritrova solo” (N. Lohfink).

Quel mondo, immaginato e sussurrato, ha rilevanza sociale: è un albero destinato a produrre frutto: “egli sarà come un albero, trapiantato lungo ruscelli, che porta il suo frutto quando arriva il tempo giusto, e il cui fogliame non appassisce: tutto quello che fa gli riesce” (v 3). Come dire: la custodia della Parola, la sua meditazione, è condizione per un fare riuscito.

Annunciare, denunciare, rinunciare

 
Per decidersi all’ascolto di una parola alternativa, occorre convincersi dell’insufficienza delle parole consuete. Bisogna decostruire un linguaggio per inaugurarne un altro.
Ragionando sull’idolatria, abbiamo più volte ricordato le parole di Bonhoeffer sulla “grande mascherata del male che ha scompaginato tutti i concetti etici”, dove “il male si presenta nella figura della luce, del bene operare, della necessità storica, di ciò che è giusto socialmente”: una conferma di quanto la Bibbia indica come “abissalità del male”.
È questa l’esperienza dell’Egitto biblico come del nostro. Laddove il male si presenta come il bene delle “grandi opere” (Es 1,11); le politiche razziali come risposta alle paure della gente (Es 1,8-10; non senza distinzioni: respingere i maschi ma tollerare le donne: ebree o albanesi, purché belle! Es 1,15-16). E le divinità di corte, promosse da sapienti, incantatori e maghi, godono di grande successo in quanto efficaci come il Dio d’Israele (come non confonderle? fanno gli stessi segni: Es 7,11.22; 8,3.14 ecc.).
L’operazione dello “smascheramento”, ovvero la denuncia dell’immoralità e dell’amoralità di ciò che viene spacciato come bene, costituisce un punto di partenza. Nel convegno dello scorso anno abbiamo battuto questa strada, denunciando che “l’idolo è nudo”. Non, però, senza la consapevolezza dell’insufficienza di questo primo e necessario passo. Anche perché gli idoli e i loro adepti (a differenza dell’imperatore della fiaba) non si vergognano della loro nudità. “Dovrebbero vergognarsi dei loro atti abominevoli, ma non si vergognano affatto, non sanno nemmeno arrossire”: così Geremia a proposito di quegli uomini di potere che, di fronte allo sfacelo, ripetono tranquillamente: “va tutto bene” (Ger 6, 14-15).
Noi vorremmo, almeno, che la voce del bambino che grida: “il re è nudo”, provocasse una sollevazione popolare, un’ondata di sdegno civile. Ma anche questo non va da sé. Anzi, come ha osservato acutamente Bonhoeffer, “qualsiasi ostentazione esteriore di potenza, politica o religiosa che sia, provoca l’instupidimento di una gran parte degli uomini… L’uomo viene derubato della sua indipendenza interiore e rinuncia così, più o meno consapevolmente, ad assumere un atteggiamento personale davanti alle situazioni che gli si presentano”. Occorre tornare al Sinai. E da lì rimettersi in marcia verso una terra in cui vivere secondo la diversa logica consegnata dalla Parola divina.
Che significa questo, in concreto? Sicuramente, una spiritualità basata sul primato di questa Parola. Certamente, il mettere in conto tempi lunghi, quelli necessari per “custodire” e “ricordare” ai propri figli il sogno ricevuto. Una battaglia civile ed ecclesiale, le cui radici sono “nel segreto” della propria stanza (Mt 6,6).
Ma, poi, quella Parola domanda di diventare storia. Di essere arrischiata in scelte personali, in lotte sociali. Al Sinai, Dio propone una diversa immagine di umanità, capace di resistere alle menzogne degli idoli, che non batte la scorciatoia dell’ingiustizia, che è in grado di interrogarsi sui propri desideri. E questo diverso progetto di umanità (“a sua immagine e somiglianza”!) c’entra con il lavoro, la politica, la dignità di tutti, la qualità del credere.
Le “strade dell’esodo” saranno, per forza di cose, plurali. Ma dovranno nascere da un’unica “sorgente”, da una medesima passione: il sogno di Dio assunto come comandamento rivolto a ciascuno di noi, personalmente. Non è per nulla secondaria la questione della sorgente. Mai come nell’Italia di oggi (intesa sia come società che come chiesa cattolica) il problema principale può essere descritto con le parole di Geremia: “Il mio popolo ha commesso due mali: ha abbandonato me, la sorgente d’acqua viva, e si è scavato delle cisterne, delle cisterne screpolate, che non tengono l’acqua” (Ger 2,13). Di qui la necessità di tornare al Sinai, là dove il Dio Liberatore ha promesso: “voi attingerete con gioia l’acqua dalle fonti della salvezza” (Is 12,3).
La denuncia delle politiche faraoniche e l’annuncio del Regno di Dio richiedono la rinuncia ad aspettare soluzioni salvifiche dall’esterno (un altro governo, un nuovo partito, una differente cultura, una chiesa rinnovata.. ) per ripartire da sé, quali ascoltatori di una Parola altra da custodire nel cuore e da arrischiare nella storia.
 

Angelo Reginato


 

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