Sguardi e voci dalla stiva: migranti


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Le persone richiedenti asilo tentano di raggiungere la condizione di rifugiato, che il diritto internazionale definisce come chiunque si trovi al di fuori del proprio paese e non possa ritornarvi a causa del fondato timore di subire violenze o persecuzioni. I rifugiati sono riconosciuti tali dai governi o dall’UNHCR secondo la definizione contenuta all’Articolo 1 della Convezione di Ginevra del 1951:

“Colui che temendo di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dal Paese, di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese. Oppure che, non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori dal Paese in cui aveva residenza abituale, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”.

Una breve precisazione va fatta circa le tipologie di protezione e diritti. Si distinguono:

Richiedente Protezione Internazionale: la cui domanda di protezione internazionale è la domanda diretta ad ottenere lo status di protezione sussidiaria (D. lgs 25/2008). Il permesso di soggiorno ha validità temporanea, può essere rinnovato per tutta la durata della procedura, ma non può mai essere convertito.

Status di rifugiato (ai sensi della convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951). Il permesso ha una durata di 5 anni ed è rinnovabile ad ogni scadenza.

Protezione sussidiaria: viene accordata ad un cittadino non appartenente all’Unione Europea, che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che se tornasse nel Paese di origine o nel Paese in cui aveva la propria dimora abituale correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno (D. lgs 251/2007). Il permesso ha durata di tre anni e al momento del rinnovo può essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

Protezione umanitaria: in seguito al rilevamento, da parte delle Commissioni Territoriali, di “gravi motivi di carattere umanitario” a carico del richiedente asilo politico. Il permesso ha una durata di un anno e può essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

Secondo i dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, alla fine del 2008 le persone costrette alla migrazione forzata (sfollati, fuggiti a guerre o persecuzioni) sono complessivamente 42 milioni circa. Di questi i rifugiati sono 15,2 milioni e i richiedenti asilo 827 mila.
L’Italia nel 2009 è stata al nono posto tra i Paesi ospitanti del mondo per quanto concerne le domande di asilo pervenute nei primi otto mesi dell’anno (9.974 domande), anche se rispetto al 2008 si è registrata una diminuzione del -43,2% delle richieste. Questo calo, avvenuto in uno scenario internazionale che non ha segnato negli ultimi mesi molti passi in avanti sul fronte dell’eliminazione delle cause delle migrazioni forzate, fa pensare a un contesto di crescenti difficoltà per i potenziali beneficiari di protezione internazionale nell’esercizio di questo loro diritto (Rapporto del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, 2008/2009). Nel 2008, la maggior parte delle istanze in Italia è stata avanzata da cittadini in fuga dall’Africa ed in particolare dalla Nigeria (5.333 domande), Somalia (4.473), Eritrea (2.739), Costa d’Avorio (1.844), Ghana (1.674), seguite da un paese asiatico, il Bangladesh (1.322). Rilevante anche il numero di domande presentate da cittadini afghani (2005), pakistani (920) ed iracheni (803).
Delle domande presentate ed esaminate dalle Commissioni Territoriali nel 2008, il 39,9% ha ottenuto il riconoscimento di una forma di protezione internazionale: nel 7,7% dei casi si tratta dello status di rifugiato in base alla convezione di Ginevra (1.695 casi), mentre nel restante 32,2% della protezione sussidiaria (7.054). Se a questi dati aggiungiamo la protezione umanitaria, il numero delle domande a cui è stata riconosciuta una qualche forma di protezione sfiora il 50%.

Questa è la voce della diplomazia, una voce negoziatrice che legifera lo status, il compromesso, la possibilità e la risposta che viene data a chi si rivolge al nostro Paese per chiedere protezione della vita. Oggi si parla spesso di scorta: gruppi di uomini preparati che proteggono altri uomini minacciati da chi è più forte. Ne conosciamo purtroppo svariati esempi. Ebbene, questa voce è una sorta di scorta legislativa che circonda e sostiene la marcia di innumerevoli uomini, donne e ragazzi che fuggono da condizioni di reale pericolo all’inseguimento di un istinto prioritario: la sopravvivenza. Eppure, al contrario delle scorte che proteggono i nostri magistrati, i politici, i sindaci, gli scrittori, i giornalisti, i sacerdoti, fatte di costante presenza, profonda professionalità, paura condivisa (ma affrontata) e prontezza, la scorta legislativa, pur partendo da principi e scelte sensibili, dimentica spesso nei suoi passi l’aspetto umano dell’azione di cui è portatrice.
Cosa significa essere un richiedente asilo politico queste leggi sembrano non chiederselo più. Si avviano pratiche lunghe e devastanti da un punto di vista psicologico, protratte in alcuni casi anche per due o tre anni, prima che venga rilasciato un permesso di soggiorno per protezione. I tempi burocratici, i limiti imposti giustamente dai decreti, hanno come naturale conseguenza l’affaticamento e l’esaurimento delle forze psico-fisiche di molte persone che avviano questo processo di riconoscimento in seguito ad un altrettanto disagevole processo migratorio.
Tutti questi effetti collaterali rimangono però nel silenzio. Quanti di noi potrebbero rispondere a questa osservazione dicendo: “E’ già tanto che li accogliamo!” Legittimo da parte nostra: i confini esistono e non possiamo credere utopisticamente di cancellarli come gesso su una lavagna. Ma badateci: quante volte si sente parlare di rifugiati politici, di loro proteste, di recriminazioni rivolte ad un Paese ospitante che si prende tutto il suo spazio e il suo tempo per valutare le storie, la loro veridicità, avviare le pratiche, trovare soluzioni? Mai! Il silenzio di queste persone ha un carattere dignitoso e disarmante, tipico di chi umilmente chiede aiuto, consapevole che poco potrà fare per ricambiare il favore. Ryszard Kapuscinsky, giornalista polacco inviato per molti anni in Africa, racconta in uno dei suoi libri (Ebano, edito da Feltrinelli, 1998) che nella cultura africana poter ricambiare un favore è l’unico parametro con cui poter accettare quel favore. Attribuisco spesso questo significato al silenzio di alcuni richiedenti asilo provenienti dall’Africa: la sconfitta di non poter offrire nulla in cambio della protezione accordata.

Ho avuto la fortuna di frequentare per sei mesi come tirocinante psicologa uno sportello SPRAR nella città di Parma, incontrando ed incrociando persone richiedenti asilo politico.

Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) nasce nel 2001 con l’obiettivo di realizzare un sistema nazionale di accoglienza capace di rispondere in maniera strutturata al fenomeno legato alle migrazioni forzate. Prevede l’erogazione non solo di servizi quali assistenza sanitaria, alloggio e mediazione linguistico-culturale, ma anche assistenza psicologica, in condizioni di vulnerabilità, orientamento ed informazione legale, inserimento lavorativo e/o scolastico (nel caso di minori) e attività multiculturali. Possono accedere ai progetti territoriali dello SPRAR non solo quanti hanno già ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato (13% dei beneficiari del servizio), di protezione sussidiaria (11%) o umanitaria (33%), ma anche quanti hanno solamente avanzato la domanda e sono in attesa dell’esito (Rapporto del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, 2008/2009). Proprio quest’ultima categoria di persone è maggioritaria nei servizi SPRAR (43% richiedenti protezione internazionale beneficiari del servizio).

Dare voce al silenzio di questa gente non è facile, soprattutto per chi come me è ancora alle primissime armi nell’affrontare e contenere il disagio psicologico degli altri.
La narrazione rappresenta lo strumento più prezioso che queste persone possiedono, tanto che ci sono stranieri che comprano storie pur di farsi riconoscere lo status di rifugiato da un Paese ospitante. Mi piaceva ascoltare le storie: amo la geografia, la psicologia culturale, la psicologia dei conflitti, l’antropologia e ogni racconto-incontro era una potenziale fonte di arricchimento. Ma il sapore nozionistico si sgretolava di fronte alla grandezza umana delle persone che avevo di fronte. Grandezza di chi cerca disperatamente un lavoro. Di chi la notte non dorme perché il cervello sembra non voler lasciare pace. Di chi invece dorme molto, oppresso da un senso di vuoto che l’assenza del lavoro lascia o tranquillo perché almeno in Italia le bombe di notte non scoppiano, come mi raccontò un ragazzo iracheno della mia età.

In assenza di lavoro, il tempo libero è una dimensione da combattere. Così c’è chi cerca un internet point per sapere che accade nel suo Paese. Chi guarda la tv ininterrottamente nella speranza che il tg dia notizie sulla condizione delle guerre dimenticate. Noi le chiamiamo così, ma loro non lo sanno! C’è chi impara faticosamente l’italiano ad un corso per stranieri o chi si ostina a parlare la sua lingua o per lo meno la lingua ufficiale, ad esempio l’inglese. C’è poi chi non ha la forza di imparare l’italiano, non perché non abbia la volontà, come tanti di noi pensano, ma perché imparare una nuova lingua, studiare, ripetere, frequentare un corso sono attività che richiedono uno spazio mentale e delle energie che non si possiedono.
Ascoltando alcune storie di quotidianità qui in Italia, ho avuto l’impressione che le menti di chi le raccontava fossero come cesti traboccanti di pensieri che non lasciano tregua. Alcuni non sanno nemmeno che fine hanno fatto i figli e la moglie. Staranno bene? Dove sono? Li avranno uccisi? Violentati? Torturati? Sfido chiunque ad imparare l’italiano con questi pensieri. Mia madre fino ad un paio di anni fa non si addormentava finché io e mio fratello non fossimo nelle nostre camere, nonostante sapesse benissimo dove e con chi stavamo passando la nostra serata. E con lei la maggior parte delle madri che conosco. Sicuramente anche a me toccherà la stessa sorte se dovessi diventare genitore. La maggior parte di questi genitori richiedenti asilo politico non sanno nemmeno se la loro figlia di 13 anni e il loro figlio di 8 anni sono stati giustiziati al posto del padre fuggito. Non meno difficile è il percorso di chi è fuggito da figlio. Innumerevoli i casi di ragazze che scappano dalle loro famiglie che vogliono sottoporle ad infibulazione. Ho sentito spesso di nonne e zii complici di queste ragazze. Le prime, che scontrandosi con il figlio, difendono la nipote in un gioco intergenerazionale di sopravvivenza, amore e saggezza. I secondi, spesso fratelli del padre o della madre, che aiutano offrendo conoscenze per la fuga e piccole somme di denaro per pagare Caronte nell’attraversamento del Mediterraneo. Un figlio fugge perché suo padre è il sarto o l’autista del capo dei militanti che si oppongono al dittatore di turno. Il sarto o l’autista simpatizzante per le idee anti dittatoriali del suo capo, che viene massacrato e il cui figlio di appena 20 anni è l’unico sopravvissuto. Un cugino che scappa da parenti gelosi della sua eredità (ricchezza che a volte corrisponde al semplice riconoscimento sociale di contadino). I parenti lanciano il malocchio, una preoccupazione di difficile comprensione per noi occidentali. C’è tristezza e depressione negli occhi di chi raccontava il malocchio. Io non capivo. Ma sei fuggito per questo motivo? A volte le narrazioni sembrano bloccate su aspetti quasi irrisori ed eventi tragici, come un fratello torturato al suo posto, vengono sotterrati in un silenzio del cuore e della voce. Una donna scappa prima di essere sacrificata secondo i riti della tribù. Un padre di famiglia, giungendo in Italia, crede di poter finalmente mantenere a distanza chi è sopravvissuto alla sciagura da cui lui è scappato. La speranza di un lavoro viene però quasi subito ridimensionata: i richiedenti asilo non possono lavorare finché non ricevono il permesso che riconosca loro lo status di rifugiato politico.
Non ho mai sentito nessun disoccupato, italiano, ricco o povero che fosse, soffrire per l’assenza di un lavoro e desiderare così potentemente un qualsiasi impiego magramente retribuito quanto chiunque sia passato per lo SPRAR.
Quando sotto i portici qualcuno chiede un euro, gli italiani hanno di solito un paio di efficaci strategie: i più assertivi o aggressivi affrontano l’incrocio con coraggiosi e fermi “no, grazie!” Ma grazie di cosa? Non è chi riceve che dovrebbe ringraziare e non chi non dà nulla? Misteri della lingua italiana che gli stranieri non vogliono imparare! Invece i più passivi, vittime poi del senso di colpa, cambiano strada, attraversando il semaforo, allungando di 100metri il tragitto pur di non trovarsi nella situazione di dire di no. Perché il no è sempre una costanza delle nostre strategie. Io sono nel gruppo dei passivi di solito, ma spesso mi chiedo se la persona che sto evitando è un richiedente asilo che per legge non può lavorare. O meglio: non è che non possa lavorare, lo può fare ma senza contratto, in nero. Andrebbe benissimo, ma non tutti i datori di lavoro se la sentono di assumere chi non ha il permesso di soggiorno e trovare un posto è impresa quasi impossibile.

Il Paese ospitante sembra dunque una trappola. Tuttavia tornare indietro rappresenta il rischio maggiore per la vita.
Chissà che si prova ad essere rifiutati dalla propria patria, dalla terra che ti ha generato, da quella che chiamiamo casa? Chissà che si prova a desiderare tanto un lavoro? Chissà che si prova a chiedere l’elemosina a chi fa finta di non vederti, tu che hai affrontato un carnefice che ti ha frustato per 150 volte al giorno per poi lasciarti riposare in una cella buia senza vestiti, senza disinfettante per le ferite, senza cibo commestibile (di solito la ciotola per mangiare è riempita con preparati disgustosi che aumentano la difficoltà, ma che mantengono in vita, come un pugno di riso salatissimo in un luogo dove non c’è acqua, ma solo urina)? Chissà che prova una donna in sala d’attesa per un consulto circa un’infezione grave dovuta all’escissione dei genitali, seduta accanto ad una donna che deve fare un lifting alle sopracciglia e si lamenta per il dolore e la sonnolenza dei giorni successivi all’anestesia?
Chissà quale sollievo accompagna quel giovane iracheno mentre cammina per le strade delle nostre città, senza il timore che un cecchino lo colpisca per sbaglio dal tetto del palazzo di fronte? Raccontava che la notte dorme 8 o 9 ore, alla mattina va sempre in libreria perché ama leggere ed imparare. Anche se non ha i soldi per comprare un libro, lo consulta e gode della libertà di poterlo fare in un negozio italiano. Diceva che l’Italia è splendida perché nessuno l’ha scelta come campo di battaglia. Alla domanda della Commissione: “Ha qualche disagio psicologico o fisico?” lui rispondeva “No, perché la serenità di passeggiare e di riposare senza l’ansia degli spari e delle bombe degli eserciti è una sensazione che non avevo mai vissuto fin dalla nascita. Come posso star male!”. Ben detto: comprensibile, ragionevole, esame della realtà psicologica, politica, geofisica, antropologica e sociologica intatto e perfetto. Talmente tanto che non ne potremmo giustificare il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione. Richiesta respinta. 15 giorni per rientrare in Iraq.

Benedetta Bottura


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