In preparazione al Convegno di Bergamo 2011
Dal libro di Giovanni Miccoli “In difesa della fede. La Chiesa di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI” riportiamo le ultime pagine del capitolo che chiude il volume. In termini essenziali si sottolinea il dilemma di fronte al quale si trova la Chiesa; “affidare la propria presenza alla sola forza del suo messaggio, per il quale è solo un libero spazio pubblico ad essere richiamato…oppure riproporre la via della ricerca di un sostegno dei pubblici poteri per imporre alla società le norme dettate dal proprio magistero…”
In un volume sulla laicità pubblicato in Francia nel 1960 a cura del Centre d’études supérieures spécialisés, Arturo Carlo Jemolo, uno degli ultimi eredi della tradizione cattolico-liberale, in un lungo intervento sulla laicità in Italia avanzava tra l’altro le seguenti osservazioni: «Per il maggior numero dei credenti, l’ideale sarà sempre un mondo nel quale l’incredulità non abbia posto, con una verità insegnata senza correre il rischio di essere rimessa continuamente in discussione: la vera libertà, la sola libertà, per il credente, è la libertà di coltivare la verità, di andare verso il bene. La libertà del tentatore non merita protezione».
Nel 1960, pochi anni prima del concilio, Jemolo dunque malinconicamente pensava che la «tesi», l’idea cioè di una società governata secondo le norme dettate dalla Chiesa, che solo all’insegnamento della Chiesa desse uno spazio pubblico, l’idea insomma di una società che riproponesse le linee portanti di un regime di cristianità, restasse inevitabilmente l’ideale della maggior parte dei credenti. Credo non sia più così, e già la possibilità di poter avanzare con piena fondatezza una tale constatazione mostra quanto cammino è stato compiuto in pochi decenni. Da questo punto di vista il concilio Vaticano II non è stato invano. Se la vera o presunta vittoria dei «novatori», riportata allora nelle sue assise, è stata pesantemente ridimensionata per non dire smentita nei decenni successivi da tanta parte del magistero di Roma, resta nell’ecumene cattolica una sorta di diritto a un pluralismo di voci e a una varietà di atteggiamenti e di pratiche della fede anteriormente impensabile; così come rimane ancora viva tra membri del cle ro e del laicato il senso di una corresponsabilità ecclesiale che non può restare affidata esclusivamente alla gerarchia. Frutto del concilio rispetto al passato resta soprattutto tra molti cattolici, anche in Italia, nonostante i pronunciamenti del magistero si muovano con sempre maggior frequenza in tutt’altra direzione, una considerazione degli «altri» (non-cristiani, agnostici o atei) che sa riconoscere in loro la capacità e la possibilità di princìpi e di comportamenti etici. Penso si tratti in effetti di un punto decisivo, perché solo il comune riconoscimento di una pari dignità e sincerità di posizioni, di una capacità di scelte etiche che l’uomo in quanto tale possiede, credente o agnostico che sia, può impedire quella deriva, di cui non mancano i primi segni, che conduce allo scontro e al reciproco disprezzo. L’idea espressa da Dostoevskji («Se Dio non esiste tutto è permesso»), serpeggiante più o meno esplicitamente in questi ultimi anni negli orientamenti proposti all’opinione pubblica cattolica, rappresenta in effetti un ostacolo insuperabile per ogni tentativo di dialogo e di confronto. Non diversi gli esiti sul versante opposto, quando si derida o si consideri frutto di infantilismo ogni atteggiamento o scelta di fede. Da qui, dall’incomunicabilità di tali posizioni, le pressanti domande che Enzo Bianchi si poneva in un recente articolo: «Ma allora, è praticabile un dialogo convinto, rispettoso, capace di essere anche fecondo? È possibile che i non credenti si confrontino con i cristiani sulle domande attorno al senso della vita? È possibile che il cammino di “umanizzazione”, essenziale all’umanità per non cadere nella barbarie, sia percorso insieme?». Dall’urgenza di queste domande nasceva la sua risposta, una risposta densa e articolata, non a caso fondata sul riconoscimento della «spiritualità» degli atei. E già il fatto che risposte del genere siano ancora possibili conferma che il Vaticano II non è stato invano.
Credo dunque si possa affermare che la stretta dottrinale e disciplinare dei vertici vaticani non è riuscita finora a prevalere del tutto. E se tale stretta non ha mancato di ottenere, soprattutto in Italia, significativi successi, quantomeno a livello di manifestazioni e rivendicazioni pubbliche, diversa almeno in parte sembra la situazione altrove, nonostante il silenzio e l’emarginazione cui molte voci e molte iniziative sono state ridotte. Non era però la situazione della Chiesa cattolica nel mondo l’oggetto dei miei sondaggi. Come ho cercato di chiarire nella premessa, il mio tentativo è stato di individuare le linee di fondo che hanno ispirato e guidato l’azione del pontificato romano in questi ultimi decenni. Se si guarda perciò alla Santa Sede e agli orientamenti che vi sono prevalsi il discorso di Jemolo sembra ancora lontano dal potersi dire superato. E da questo punto di vista il pontificato di Benedetto XVI appare accentuare, mettendoli per dir così isolatamente in primo piano, una serie di aspetti già presenti nel magistero di Giovanni Paolo II. Lo stile umile, rispettoso, cordiale, che è stato notato nei suoi discorsi, il tono piano, quasi dimesso, delle sue argomentazioni, non bastano a nascondere le durezza e la perentorietà dei contenuti e dei giudizi. E finita la sottomissione al relativismo, è stato scritto, dimenticando che considerare «relative» le proprie idee e proposte per la soluzione dei problemi che via via il tempo storico presenta è premessa e condizione di ogni confronto leale come di ogni dialogo costruttivo.
Al di là della diversità delle formulazioni e delle argomentazioni, infatti, come del carattere delle proposte avanzate, che tengono conto di realtà e situazioni profondamente mutate, sembra profilarsi ancora una volta da parte dei vertici della Chiesa, dopo che il Vaticano II era sembrato poter suggerire un’altra strada, una risposta antica ai problemi del mondo. Il tema che solo l’accettazione del suo magistero avrebbe potuto ridare pace, ordine, tranquillità alle società e ai rapporti tra gli Stati era risuonato incessante per più di un secolo: implicitamente o esplicitamente riproponeva l’ordine delle relazioni che erano state del regime di cristianità. Se anche non si voglia riconoscere che una tale strada era risultata intrinsecamente fallimentare per la consistenza e la credibilità stessa del messaggio di cui la Chiesa si proclama portatrice, mi sembra diffìcile non riconoscere che si era trattato comunque di una strada mostratasi del tutto incapace di ridare peso ed efficacia effettivi alla presenza e all’azione cristiana nella storia. Non so se e come si possa pensare che ciò che non è riuscito un tempo possa riuscire oggi. L’esclusivismo sociale che la Chiesa reclamava per sé nei paesi cattolici ha lasciato il posto all’accettazione del pluralismo. E tuttavia con sempre maggiore insistenza in questi ultimi decenni è stata riproposta la rivendicazione del suo ruolo antico di guida e maestra dell’umanità, con l’ovvio corollario che solo l’osservanza del magistero della Chiesa, custode e interprete di quel codice morale oggettivo proposto dalla «natura», può salvare le società dalla rovina. L’apprezzamento per la «secolarizzazione», che autorevoli esponenti della gerarchia avevano formulato, ravvisando in essa un mezzo di «purificazione della fede» perché, distinguendo i piani, ha affidato agli uomini «la responsabilità della terra e del suo sviluppo», cede il passo a una sua rinnovata condanna. È alla «secolarizzazione» infatti che Benedetto XVI attribuisce l’effetto «di aver relegato la fede cristiana ai margini dell’esistenza», promuovendo un modo di vivere «come se Dio non ci fosse». Da qui, implicita, la radicale messa in discussione dei processi storici degli ultimi secoli, rispetto ai quali peraltro la Chiesa e l’autorità della Chiesa, come già un tempo nelle apologetiche ricostruzioni della «genealogia degli errori moderni», appaiono singolarmente estranee, monde da ogni compromissione, sgravate da ogni responsabilità.
Non a caso, soprattutto in Italia, frequente si è fatta l’accusa di voler chiudere la bocca alla Chiesa e di preconcetta ostilità alla religione per coloro che, richiamandosi al principio della laicità dello Stato, giudicano un «ritorno indietro» il rinnovato profilarsi di quelle rivendicazioni e sottopongono a critica i princìpi e i criteri di fondo che le ispirano. Ma così si forzano in realtà e si alterano i termini del dibattito, suggerendo la ricomparsa di atteggiamenti laicisti e anticlericali, attualmente presenti ancora solo in frange e gruppi marginali della nostra società. Da questo punto di vista incombe tuttavia una minaccia: che a fronte dell’acuirsi di pretese avvertite come «clericali», si ripropongano meccanicamente le contrapposizioni antiche, in un anacronistico ritorno di lotte estranee e lontane dalle difficoltà e dai problemi che angustiano la vita degli uomini. I segni in questo senso purtroppo non mancano.
Il fatto che alcune di tali rivendicazioni vengano avanzate con particolare forza in Italia sembra voler segnare ancora una volta il ruolo speciale che essa sarebbe chiamata a svolgere rispetto alle altre nazioni. Non diversamente se ne era detto e scritto al tempo del concordato con il fascismo. D’altra parte il rapporto privilegiato con il potere, che una tale strada inevitabilmente ripropone, non a torto è stato individuato da non pochi spiriti religiosi come il peccato d’origine della cosiddetta «età costantiniana», quel lungo percorso di sedici secoli che ha visto la Chiesa ricercare nell’alleanza e nel sostegno delle potenze del mondo la garanzia del proprio ruolo nella società. La palese strumentalizzazione, nei primi mesi del 2007, da parte dell’opposizione parlamentare, delle prese di posizione della gerarchia ecclesiastica nei confronti di un’eventuale legge sulle coppie di fatto, in vista di una possibile caduta (o comunque dell’indebolimento) del governo Prodi, ha mostrato con chiarezza come siano ancora una volta sbocchi politici e alleanze politiche di dubbio segno l’inevitabile punto d’arrivo di interventi formulati in termini ultimativi e che si pretendono portatori di verità assolute, in quanto espressione di compiti, per non dire diritti, che la Chiesa rivendica come suoi originari. Non era certo fuori luogo l’ammonimento, denso di implicazioni, che Enzo Bianchi lanciava a metà dello scorso febbraio ai suoi correligionari: «Vorrei ribadire l’invito ai cristiani di diffidare da chi sembra loro alleato nella difesa di valori in cui non crede, o da chi urla battagliero valori che sono centrali nel Vangelo, mentre in realtà smentisce ogni giorno con la propria vita quel che afferma. Come si fa ad accettare che qualcuno definisca “l’ascolto e l’accoglienza parole famigerate” e poi parli come cristiano in difesa della famiglia, per essenza luogo di accoglienza e di ascolto? Nessuno dimentichi quanto, secondo la testimonianza contenuta nei diari del suo segretario, affermava Benito Mussolini: “Io sono cattolico e anticristiano”».
Ridotto ai suoi termini essenziali, il dilemma cui per tanti aspetti la Chiesa si trova oggi di fronte sta proprio nel giudizio da dare sulla «laicità», cioè sul distacco e la separazione dai pubblici poteri che essa comporta, con tutti i corollari e le conseguenze che ne conseguono: se cioè va considerata una conquista per la Chiesa stessa, in quanto la libera dai condizionamenti, dai compromessi e dai cedimenti connessi alle antiche alleanze, affidando la propria presenza alla sola forza del suo messaggio, per il quale è solo un libero spazio pubblico a essere reclamato, o se invece si è trattato di una perdita, di un arretramento inaccettabile, frutto della sconfitta patita ad opera della «rivoluzione». Dei due corni del dilemma, sembra sia prevalso a Roma il secondo, che ripropone la via della ricerca di un sostegno dei pubblici poteri per imporre alla società norme dettate dal proprio magistero, nell’utopica prospettiva di poter esercitare una sorta di direzione suprema, un controllo più o meno diretto sui processi della storia. L’autoritario richiamo ai caratteri esclusivi e specifici della propria identità ecclesiale e un forte ricompattamento delle proprie file, grazie al pieno recupero dell’autorità della gerarchia ecclesiastica sul laicato fedele, ne rappresentano il preliminare passaggio obbligato.
Non credo che una tale prospettiva, al di là di possibili effimeri successi, sia in grado di dare nuovamente una maggiore efficacia storica alla presenza cristiana. E tuttavia, credo si debba aggiungere, non viviamo in un tempo nel quale si possa rinunciare agli apporti che la tradizione cristiana può offrire ai modi di essere e ai rapporti operanti tra gli uomini: ma solo di apporti appunto, per quanto significativi, si può trattare, comunque segnati anch’essi dai limiti che le debolezze e la fragilità degli uomini non possono non imporre loro. Sta nella responsabilità dei cristiani cercare di assolvere positivamente a tale compito. E in quella dei non-cristiani, degli agnostici e degli atei avvertirne l’importanza.