CONVEGNO DI BERGAMO 2011
2) Interventi dopo la relazione di Checchi
Luigi Forigo
Si parla parecchio della struttura portante produttiva italiana, fatta in genere di medie e piccole industrie. Le grandi industrie sono scomparse: praticamente anche nella riconversione che sto vedendo nella zona industriale di Verona, dove abito io, praticamente ci si è buttati sul commerciale, ma sul creare prodotti no; la produzione metalmeccanica è scomparsa, resiste solo il dolciario, le altre industrie sono scomparse.
Il dato della costituzione strutturale dell’industria italiana incide in questa situazione di crisi, compresa anche l’esportazione di lavoro.
Questo è un problema, anche perché si parla effettivamente di investire sull’innovazione, su prodotti nuovi… le piccole industrie non hanno la forza dell’innovazione. Non abbiamo nemmeno la cultura dell’associazionismo; per cui ciascuno fa la concorrenza all’altro e sono lì attaccati, magari; non mettono insieme le forze della ricerca.
Quindi rispetto anche alla ricerca, alla novità dei prodotti, questo sistema può reggere oppure viene spazzato via?
Un’altra domanda: dove andiamo a prendere i soldi per la ricerca, con il debito pubblico così alto che abbiamo? L’aumento della produttività non c’è, i salari sono appiattiti, il dato della disoccupazione è preoccupante, i giovani pesano sulle famiglia, quindi anche i risparmi delle famiglie vanno a farsi benedire. Quando Draghi parlava di investimenti eccetera…, dove andiamo a prendere i soldi?
Armido Rizzi
Forse è un’ingenuità, ma lei non ha nominato nelle differenze tra il Nord e il Sud quel fenomeno di mafia in Sicilia, ndrangheta in Calabria e camorra in Campania, che pare che sia determinante anche per il mancato sviluppo. Può dire qualcosa?
Pippo Anastasi
Se il sistema industriale è privato, quale ruolo si imputa allo stato che vuole intervenire nell’evolversi delle crisi? Se sono le aziende che decidono se restare in Italia o andare altrove, lo stato dovrebbe intervenire a far cosa? E quali sono davvero le cause, storiche sicuramente, dell’enorme divario tra le regioni del nord e quelle del sud? Perché per molti versi questa unità d’Italia è solo sulla carta.
Graziano Giusti
(inserito più avanti)
Altro intervento
Vista l’attuale situazione del lavoro, è ancora possibile pensare alle nostre leggi “fondate sul lavoro”? Nel senso che, avendo a che fare con gli immigrati, normalmente c’è questo legame fra il lavoro e il permesso di soggiorno, il lavoro e la possibilità di avere una sistemazione, avere una casa… E c’è l’utilizzo di questa forza lavoro. Ci sono tra noi aziende con tremila addetti e che hanno tutta una serie di persone che vengono sistematicamente licenziate ogni tre mesi; con il rischio che se la ripresa non è immediata, si ritrovano poi tutti con il grosso problema del rinnovo del permesso di soggiorno; cioè, c’è questa legislazione che – dice la costituzione – si fonda sul lavoro, ma poi noi abbiamo a che fare con un lavoro che non è neppure in grado di garantire almeno il permesso di restare.
PierPaolo Galli
Al di là dei grafici che abbiamo visto prima, ci sono anche testimonianze dirette che veramente danno il quadro di una situazione che è degenerata profondamente nel giro di pochi decenni. C’è davvero da domandarsi da dove origina, prima di cercare di capire come rimediare a una situazione di questo genere. Io credo necessario buttare il cuore oltre l’ostacolo, cercando forme di solidarietà che sono sempre più rare.
Lo scenario che abbiamo è progressivamente uno scenario di frammentazione e di chiusura: non c’è da sperare, se non ci si riappropria delle motivazioni per cui si è arrivati a questo punto, non c’è da sperare in un’inversione di tendenza solo di tipo volontaristico, per una scelta di tipo etico.
Domandiamoci allora dove e come ha avuto origine questo percorso involutivo, un’implosione quasi del nostro paese. Per quel che mi ricordo, va collocato nel periodo degli anni ottanta, quando è accaduto che d’improvviso l’Italia non ha seguito il trend di altri paesi, come la Germania; ma invece l’ha invertito: c’è stato una sorta di sciopero degli investimenti e dei profitti; c’è stato l’avviarsi di una forbice progressiva tra gli investimenti e i profitti: i profitti hanno continuato una certa loro crescita, gli investimenti si sono progressivamente ridotti; questo in omaggio alla logica politica dell’ “arricchitevi”, introdotta da un famoso leader che poi ha dovuto scappare all’estero.
Questa era la logica secondo la quale un disinvestimento dei profitti ha prodotto inevitabilmente, come dice ogni manuale di economia, una drastica caduta della produttività, la quale ha generato un venir meno della competitività. Per cui le imprese veramente produttrici, avevano bisogno di sostenersi dal punto di vista del confronto globale internazionale, che stava emergendo con il fenomeno della globalizzazione. Come? Attaccando completamente il costo del lavoro.
Se noi guardiamo il grafico dei profitti e la forbice che cresce rispetto agli investimenti, vediamo che questo dato si allarga progressivamente: diminuiscono gli investimenti, diminuisce la competitività dell’Italia, e i rimedi sono stati due: continue svalutazioni, quando ancora la liretta poteva lucrare su svalutazioni del 5, del 10 fino al 20% e oltre. Oppure l’alternativa era quella di pestare sul costo del lavoro: questo ha significato non investire sul capitale umano, ma usare semplicemente la forza lavoro come una merce, ridurla esattamente a quello che ci riporta Carlo Marx: la forza lavoro non è stata valorizzata come capitale umano, è stata ridotta sempre più a forza lavoro merce.