In preparazione al convegno di Bergamo 2012
“SERVIZIO E POTERE NELLA CHIESA”
Povertà e fraternità, l’una indissolubilmente connessa con l’altra, sono continuamente richiamate ed invocate nell’annuncio e nella prassi di Gesù, che ne fa il segno di riconoscimento di quanti si fanno suoi seguaci. E sempre, sin dall’inizio, povertà e fraternità vengono disattese, come risulta drammaticamente dalle stesse pagine dei Vangeli (Questo messaggio è troppo gravoso; chi può dargli retta?…..Forse volete andarvene anche voi?). La storia delle comunità cristiane testimonia l’incessante infedeltà, in molte forme, al testamento di Gesù; del resto, gli stessi credenti hanno ripetutamente avuto ed hanno tuttora consapevolezza di tale infedeltà. Non si può, infatti, negare un ricorrente, anche se lento ed involuto, processo di riforma nel corso dei secoli, come ricorrente e dolorosa è stata ed è tuttora la denuncia di quanti vivono nel dissenso.
Ma se, al di là di certe miopie apologetiche, non sembra incontri oggi eccesive difficoltà ammettere l’infedeltà alla memoria di Gesù, risultano invece profondamente insufficienti le motivazioni che se ne forniscono. Ci si rifà, infatti, al criterio storico-sociale (la Chiesa, inserita nella Storia, risente dei condizionamenti delle sue dinamiche socio-politiche) oppure al criterio etico-psicologico (l’ambizione fa parte del bagaglio umano e può raggiungere dimensioni drammaticamente riprovevoli nei singoli, soprattutto se collocati nella dimensione del sacro) oppure al criterio culturale (la verità dottrinale risente inevitabilmente dei limiti dei linguaggi culturali di cui si serve). In questo modo, tutto viene ricondotto alla dimensione dell’incoerenza dovuta alla fragilità umana, collettiva o individuale. Lo stesso Concilio Vaticano II afferma che la Chiesa contiene nel suo seno i peccatori, per cui, pur essendo santa, ha bisogno incessantemente di purificazione.
Ma quale rapporto vi può mai essere fra la povertà fraterna di Gesù, che nella sua comunione di mensa si conforma al Padre “che non emette sentenza” ma vuole che il mondo viva, e il potere sconfinato che la Chiesa esercita e presume di esercitare sulle coscienze ai fini della “salvezza” ? Qui non è più questione di rettifica e purificazione, perché in verità si apre un abisso. Non è tanto una questione di incoerenza, di fragilità, di distorsioni, di ambizioni individuali o di condizionamenti collettivi, ma di fede: che cosa annuncia Gesù? e che cosa crede la Chiesa? Se si vuole correttamente impostare la questione del servizio-potere nella Chiesa, forse, prima di focalizzare l’analisi sulle sue strutture istituzionali e giuridiche, sarebbe bene chiedersi che cosa si intenda per “salvezza” nell’annuncio evangelico e che cosa per salvezza intenda la Chiesa. E’ evidente che l’accurata argomentazione di queste problematiche richiederebbe intere biblioteche, ma non è impossibile alla memoria e alla speranza dei cristiani fissare alcuni tratti del loro Signore ed alcuni aspetti dell’esperienza ecclesiale.
Nei Vangeli è ben chiaro che Gesù è colui che annuncia che il Regno è presente, già qui ed ora, per la grazia incondizionata del Padre; questo è quanto attestano continuamente le sue parole ed i suoi gesti, in particolare quello che tutti li riassume ed è in lui abituale: la comunione di mensa con coloro ai quali non è riconosciuta “purità”, non si concede salvezza. Gesù crede fortemente ad un Dio che ama talmente la sua creatura da essere Padre che si fa in tutto Figlio, ma un figlio che è radicalmente uomo, così che non si dà Dio fuori dalla condizione umana. Nell’uomo e nel tempo dell’uomo, non solo si incontra Dio, ma vive Dio stesso che ama; per questo in Gesù “pane di vita” e “carne” sono una sola cosa, cioè, quella “relazione d’amore” che fa essere ad un tempo Dio ed ogni uomo ( Al principio la Parola già esisteva…e la Parola era Dio…senza di essa non cominciò ad esistere cosa alcuna di quanto esiste…E la Parola divenne uomo…dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto un amore che risponde al suo amore). Così, in Gesù, le categorie di ogni “patto” (giusto-peccatore) vengono sconfessate (Gv 8,15 Io non pronuncio sentenza contro nessuno), perché per lui gli uomini sono soltanto dei “ figli del Padre”, cioè, degli amati che sentono il bisogno di amare ( Gv 6,33 Il pane di Dio scende dal cielo e sta dando la vita al mondo. Gli dissero allora: Signore dacci sempre questo pane). Credere nel lieto annuncio è accogliere-sperare che sempre, nonostante tutto, anche nell’abisso del male, continua a respirare in tutti l’alito di salvezza, perché nessuno, per quanto perduto, perde il mistero che il Padre ha indelebilmente radicato in ognuno: il desiderio di amare e di essere amato. In questo insopprimibile bisogno che ogni uomo porta dentro di sé, ora nei sogni ora negli incubi, il Dio di Gesù continuamente salva, riscatta e dialoga con la sua creatura, che egli ama. Mai, in nessuno, si spegne il suo Spirito, che è più forte di ogni morte. Gesù rivela un Dio energia d’amore in dono incessante, che fa giusti anche gli ingiusti e, nella sua gratuità, li rivela innocenti nonostante le colpe ( Gv 6,45 Saranno tutti discepoli di Dio…chi procede da Dio, questi ha visto il Padre).
Se questa è la bestemmia che i custodi di ogni legge non possono tollerare, il primato della grazia-amore è, invece, la Parola che dichiara che nessuno è mai un perduto, perché ognuno porta in sé il respiro del Padre. E, se questo è l’annuncio che squarcia i cieli e colloca da sempre Dio nell’uomo, nella relazione d’amore che li definisce entrambi, ne deriva che la relazione di “condivisione affettiva” con l’altro
diventa imprescindibile nel nostro rapporto con Dio e con la vita. Sentire il bisogno di Dio e sentire
la “passione” per l’altro si fanno una sola esperienza di fede e di vita. Se Dio è relazione d’amore con le sue creature, è la quotidiana ed appassionata empatia con l’altro a portarci lentamente ad invocare, riconoscere, sperare e confessare il Dio di grazia, il Padre che si fa figlio. Accogliere il lieto annuncio di Gesù comporta automaticamente imparare a vedere e sentire il volto dell’altro come manifestazione del Dio che si fa carne, come parola che ce lo narra, riconoscerlo come portatore drammatico dell’energia d’amore in cui respira Dio. I Vangeli ci dicono che Gesù provava “compassione”: la sua relazione con l’altro era vita intima con il Padre. Per questo, la sua relazionalità, animata dalla fede nella “grazia”, non appartiene alla dimensione della “funzionalità”, perché tutto in lui, dalla parola ai gesti e agli sguardi, non è un “fare”, ma è un “essere”, un “essere profondamente insieme”, relazione appassionata e contemplante.
Pertanto, l’annuncio di Gesù cancella ogni potere, mentre fonda e fa essere la fraternità, nella povertà di chi sa di aver bisogno della rivelazione che è nell’altro e di dover condividere tutto, mediante la relazione appassionata e contemplante con la quotidianità.
Ma, se i Vangeli ci parlano incessantemente della grazia paterna presente già qui e ora, il linguaggio religioso, con cui abitualmente ci esprimiamo nell’esperienza ecclesiale, non sembra celebrare il primato della grazia, non pare sappia confessare la presenza del Regno già qui e ora, ovunque, nel profano quotidiano, ben oltre i recinti del sacro, delle identità religiose ed etiche, tutte trascese nel Dio che continuamente ama. Sembrano, invece, dominanti la categoria della “verità” e la proiezione marcata in un trascendente futuro garantito dal rispetto dell’ortodossia e dall’osservanza della “giusta” etica. Il Regno, anziché realtà in cui entrare, riconosciuta e confessata nei comuni e solidali gesti quotidiani, percepiti come amata dimora che Dio ha scelto per sé, sembra configurarsi piuttosto come mondo da costruire con opere virtuose secondo i dettami della corretta dottrina. E, soprattutto, l’altro, anziché “soggetto” che rivela la gratuità del Padre, sembra essere percepito e detto prevalentemente come “oggetto” di tutela o di correzione. Così, la gratuità del Padre, che ognuno vive in sé nella sua natura di uomo come energia che lo fa essere persona che sa e vuole amare, energia che lo fa essere patrimonio con cui relazionarsi, sembra sempre più intesa come patrimonio da trasmettere a chi non l’ha.
Ecco, il linguaggio abitualmente usato sembra rivelare una Chiesa che, forse, crede più ad una redenzione da costruire che non da accogliere; una Chiesa che, forse, non ce la fa a credere che nella gratuità del Padre l’uomo non è più peccatore, ma è soltanto amato e povero profeta di Dio. Come spiegare altrimenti tanta ansia, per non dire ossessione, per la dottrina, per la norma, per l’esclusività della verità, per la sua stessa visibilità pubblica?
Ma, se davvero la Chiesa più che testimone e contemplatrice di salvezza si percepisce come “portatrice” di salvezza, va da sé che la dimensione operativa si fa dominante su quella contemplativa. Così, la sua relazionalità si darà sempre più la natura della “funzionalità”: primario non è “essere profondamente insieme”, ma “costruire” il bene. Ne derivano, inevitabilmente, le strutture tipiche della funzionalità, cioè, le strutture gerarchiche e quelle dogmatiche, che, purtroppo, alimentano e giustificano ogni potere.
Preoccupati di “costruire” il bene, forse ci si dimentica che nessuno è tanto sollecito ed operativo nei confronti dell’altro quanto l’innamorato, perché nessuno è tanto visceralmente empatico e contemplante quanto lui. Soltanto una Chiesa che sa “essere profondamente insieme” al proprio interno e con il mondo creatura di Dio, saprà anche correttamente operare al proprio interno e con il mondo amato da Dio. Ma questa è la Chiesa che crede al Dio di grazia e lo “vede” presente ed operante nel profano quotidiano.
Franco Piccoli
A Franco è stato richiesto di precisare ed esplicitare il suo pensiero per offrire una migliore comprensione ai lettori. Crediamo utile riportare la corrispondenza intercorsa.
Caro Franco,
ti ringrazio molto per la riflessione che ci proponi. Mi permetto di fare due osservazioni.
La prima riguarda una frase della seconda pagina che per comodità ricopio:
“Così, in Gesù, le categorie di ogni “patto” (giusto-peccatore) vengono sconfessate”
E’ la parola “patto”, che dovrebbe ricordare il tema dell’ alleanza, di cui qui non riesco a cogliere il senso che tu gli dai.
L’ altra cosa è l’ utilizzo della parola Chiesa. Io personalmente lo riservo alla comunità, includendo tutti. La gerarchia, che è soltanto una parte, di solito se ne appropria e di fatto si identifica con essa, cioè col tutto. Con il risultato che si usa la parola chiesa pensando appunto ad essa come gerarchia. Credo che questo sia un grosso guaio.
In genere, anche nella predicazione, io sciolgo questo nodo, chiamando per nome i soggetti nella loro parzialità. Ad es. utilizzo “I dirigenti della chiesa”, un linguaggio laico, ma che tutti capiscono
e che corrisponde alla parola, inizialmente laica cioè i vescovi (i sorveglianti), il papa, i preti
(nel NT non usa mai la parola sacerdoti per indicare i ministri; viene utilizzata per Gesù solo nella lettera agli Ebrei e nella 1 lettera di Pietro per indicare la nobiltà orante di tutti i cristiani: “voi siete stirpe eletta, sacerdozio regale”).
Io penso che occorra fare una battaglia sul linguaggio, sulle parole da usare. Spesso io utilizzo il plurale chiese, perché di fatto sul piano storico c’ è una pluralità, sottolineando che la Chiesa di Cristo è una e unica, ed è più grande ed ampia della chiesa cattolica.
Ora vedi tu. Penso che almeno il discorso del “patto” convenga chiarirlo.
Roberto Fiorini
PRECISAZIONI
Con il termine “patto”, io intendo qualsiasi rapporto, civico o religioso che sia, basato sull’accordo di “reciprocità”. Anche l’Alleanza biblica di JHWH, pur nella sua profonda novità e nella sovrabbondanza di sollecitudine e misericordia, non viene meno al fondamento del requisito di reciproca fedeltà; per questo, non sconfessa la categoria di “impurità”. E’ con Gesù che la categoria di impurità viene cancellata, perché l’annuncio evangelico si basa sulla “gratuità”, che è amore “incondizionato” di Dio, così che anche gli “ingiusti” portano sempre in sé ciò che li fa profondamente ed incancellabilmente “giusti”: il respiro d’amore di Dio. Per questo, il Regno è sempre presente e Gesù è colui che “toglie il peccato (non i peccati!!) del mondo”: ci rivela che Dio, come Padre, è sempre in noi sin dal principio. Nell’Alleanza, Dio va pur sempre meritato; nell’annuncio di Gesù, Dio è sempre presente ed operante e l’uomo, anche quando non lo sa, anche quando conosce il male, misteriosamente non cessa mai di rispondergli nel respiro della sua esistenza, che gli è stata e gli viene continuamente donata.
E’ questa la “giustizia” che è vera trascendenza, perché nessuna ragione potrà mai comprenderla. Ogni “alleanza” può essere accolta o rifiutata, ma rientra pur sempre nei limiti della nostra comprensione; la gratuità evangelica può essere solo “creduta e sperata”. E, se in ogni “alleanza” ci sarà sempre chi non risponde ai “requisiti”, nell’annuncio di Gesù viene, invece, detta integralmente la “salvezza”, perché viene proclamato che ognuno la porta in sé nella sua natura di uomo, in cui respira incondizionatamente il Padre. E questo non può che essere bestemmia per i custodi di ogni alleanza ( E. Jungel: “ Il Vangelo della giustificazione come centro della fede cristiana”- Queriniana).
Credo di aver, così, risposto in parte anche al quesito sul termine “Chiesa”. Condivido in tutto e per tutto,fino alla virgola, le tue precisazioni sul vario uso del termine; nel testo che ti ho inviato, io mi riferisco all’esperienza dell’insieme delle comunità cattoliche, semplicemente perché è il contesto in cui sono cresciuto ed in cui mi trovo a vivere. Dottrina e potere sono certo ascrivibili alla gerarchia, ma a me pare che, tranne strette minoranze, le comunità dei credenti ne siano ben imbevute e non se ne facciano poi un dramma. Credere, infatti, nel “Dio di grazia” non è per niente semplice, perché sfugge ad ogni logica. Caro Roberto, anche tanto dissenso, forse, in fondo in fondo, crede alla giustificazione che viene dalle opere; con tutto ciò che ne consegue.
Ciao.
Franco