Sguardi e voci dalla stiva
La scelta di ragionare sul rapporto fra le donne e il lavoro in Italia presuppone, indipendentemente da ogni tipo di riflessione successiva, la consapevolezza che per il sesso opposto lo stesso tema non richiede di essere affrontato. Non esistono, infatti, nella relazione fra gli uomini e il lavoro, criticità strettamente correlate all’appartenenza di genere. Di conseguenza potremo considerare completamente raggiunta la parità fra i due sessi solo quando non sarà più necessario interrogarsi sulle problematiche inerenti, nello specifico, all’occupazione femminile.
L’asimmetria tuttora esistente pone in prima istanza una serie di domande che troppo spesso vengono rimosse: il mondo del lavoro è basato su regole neutre o concepite e strutturate al maschile? Le donne che lavorano in Italia si devono adattare a tempi, stili, modalità, ritmi storicamente stabiliti dagli uomini oppure no? Le donne subiscono ancora oggi discriminazioni sul posto di lavoro o no?
Ciò premesso, procediamo a setacciare i dati numerici più significativi.
Innanzitutto, l’Unione Europea ci dice che, alla fine del primo semestre 2011, il tasso italiano di occupazione per le donne è stato del 46,7%: una percentuale davvero bassissima. Anche la Grecia è sopra di noi, con il suo 48,1%.
Un altro dato interessante riguarda i contratti a tempo parziale: nel nostro paese la percentuale delle donne con questa tipologia contrattuale (32%) è risultata essere quattro volte superiore a quella maschile (8%).
Procedendo nell’analisi dei dati quantitativi, il quadro si presenta davvero sconfortante: le italiane, secondo i dati Eurispes del 2011, guadagnano il 16% in meno rispetto ai colleghi maschi, con uno scarto annuale medio che si aggira sui quattromila euro. La differenza varia da un minimo dell’1,7% nelle professioni meno qualificate a un massimo del 20,8% nell’ambito degli operai specializzati. Stessa situazione per le mansioni cosiddette intellettuali: qui si arriva al 18,8%, e così pure nelle attività commerciali. Migliore invece appare la situazione fra gli impiegati, dal momento che lo scarto scende fino al 3,9%. Rimane comunque il fatto che, nonostante un maggiore livello di scolarizzazione, alle donne vengono assegnate mansioni meno qualificate.
Le donne poste ai vertici delle imprese italiane sono ancora un’esigua minoranza: la cosiddetta leadership femminile raccoglie uno scarno 4% che ci colloca in fondo alla classifica europea. Purtroppo spesso è collegato a un costo troppo alto sul piano personale: il 43% delle donne manager non ha figli. Senza considerare che nel lavoro – ma la stessa cosa accade nei partiti politici, nelle istituzioni e in organizzazioni affini – gli incarichi dirigenziali sono tutti declinati al maschile: dietro l’alibi della convenzione grammaticale si nasconde una consapevole latitanza di fronte ad una questione ben più profonda di ordine simbolico e culturale.
In Italia ancora molte donne (una media di circa il 10%) si allontanano dal mercato del lavoro a causa di discriminazioni subite appena dopo il periodo di maternità, o per l’impossibilità di conciliare tempi di vita e di lavoro dopo la nascita dei figli. Ed è forse anche la paura di veder peggiorare la propria carriera che influisce sulla decisione delle donne italiane di diventare madri in età sempre più avanzata – 31,2 anni è la media – tanto che, dal 2008, le primipare 35-39enni sono diventate sempre più numerose.
A questa situazione di disagio contribuiscono in maniera rilevante l’assenza di strutture assistenziali adeguate e l’incapacità di un proficuo sostegno da parte del partner, da più di un terzo delle donne percepito come “aiuto occasionale”. Evidentemente in Italia la genitorialità è tuttora vissuta o considerata come prerogativa del genere femminile, nonostante le coppie più giovani stiano dimostrando che la cura dei figli può diventare pratica quotidiana equamente condivisa.
Anche nel mondo della precarietà i contingenti più affollati sono costituiti dalle donne, obbligate ad accettare contratti a tempo determinato più di quanto non succeda ai loro colleghi uomini. In un periodo di crisi drammatica come quella attuale, le donne hanno una probabilità inferiore a quella già bassa dei precari uomini di riuscire a stabilizzare la propria situazione lavorativa e a mantenerla.
Da questo sintetico quadro emerge una realtà ben lontana da quella prevista dalle leggi, a partire dalla nostra Costituzione, che riconoscono pari diritti a tutte le persone e sono finalizzate al raggiungimento dell’uguaglianza sostanziale fra uomini e donne. Come abbiamo potuto constatare, purtroppo le donne italiane vengono ancora pesantemente discriminate, e non solo per la precarietà e la scarsa valorizzazione delle loro competenze e del loro lavoro, ma anche perché vivono sulla propria pelle l’inadeguatezza, quando non l’assenza completa, di strutture e servizi pubblici a sostegno della famiglia. Troppo spesso, infatti, le donne in Italia si trovano a dover sopperire in prima persona alla mancanza di un welfare degno di questo nome, e quotidianamente vengono poste di fronte alla difficoltà di conciliare lavoro e famiglia, che si trasforma, in alcuni casi, nella necessità di dover effettuare una scelta radicale tra lavoro di cura (verso figli, disabili, anziani) e occupazione. In questa prospettiva anche l’aumento dell’età pensionabile diventa per le donne italiane un ulteriore segno di discriminazione, perché, contrariamente alle coetanee di altri paesi europei, esse non hanno potuto usufruire di aiuti concreti per alleggerire il carico del lavoro domestico. Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che in molti posti di lavoro alle donne viene richiesto di “essere come gli uomini”, di rispondere alla logica maschile della gerarchia, della competizione, della scelta tra carriera e famiglia, di adattarsi a tempi sempre più accelerati e distanti dal ritmo naturale della vita.
Alla fine rimane comunque la sensazione, per dirla con le parole di Luisa Muraro nel suo ultimo libro “Non è da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donna”, che “il privilegio di essere donna dà una grandezza di altro tipo, che viene incontro fra le cose ordinarie della vita e arriva fino alle più straordinarie. Il fatto di fare carriera, di raggiungere posti importanti, di avere molti soldi, le aggiunge poco”.
Donata Negrini