Editoriale


 

 “Ciò che si profila come probabile – vale a dire la crisi energetica,
economica, politica e sociale del mondo in cui viviamo – mi spinge
a essere pessimista: l’improbabile però è sempre possibile…
Di fronte a una realtà stravolta da un’economia senza regole
che distrugge il Pianeta e la società, non basta più indignarsi”.
(Edgar Morin)

“Che sarà…?” è un titolo che evoca canzoni lontane. Una di queste così comincia: “Paese mio che stai su la collina…”. E’ il canto di un giovane che se ne va dal suo paese addormentato verso un dove che non sa. Ma deve andare. Il suo era un antico paese steso sul dorso di una collina…
“Che sarà…?” oggi è la domanda che lanciamo in un panorama più ampio: il nostro paese, anzi l’Europa o ancora il pianeta intero. Vi è una domanda di futuro, perché il futuro è a rischio.
E come per incanto, lo sguardo rivolto in avanti attiva la memoria di appelli uditi in altri momenti della vita. Viene in mente il Messaggio di Einstein all’umanità, nel gennaio del 1955: «Noi rivolgiamo un appello come esseri umani a esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto». Era lo scienziato che con acuto realismo si appellava a una coscienza etica corrispondente alla nuova universalità, necessaria per l’era atomica nella quale si era entrati.
Ma già nel 1929 Sigmund Freud scriveva: «Gli uomini hanno adesso talmente esteso il loro potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde una buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione».
Un tempo vi erano catastrofi gravi o malattie infettive che mietevano vittime a non finire, e lo stato di penuria che rendeva fragili nei confronti del freddo, della fatica. Senza contare le guerre che non sono mai mancate. Però, in fondo, vi era una affidabilità della natura o del modo di pensarla nell’ambito culturale e religioso, che pur manifestandosi anche matrigna, aveva delle costanti che spingevano verso una ripartenza della vita.
Ormai da decenni siamo entrati in quella che è stata definita l’era del rischio. Non si tratta di un unico rischio, ma di una pluralità di fattori che orientano tutti verso la medesima direzione. Non solo a livello regionale, ma globalizzato, e quindi planetario.
Seguendo il sociologo tedesco Ulrich Beck, penso sia utile sottolineare alcune caratteristiche che qualificano l’incertezza dei nostri tempi.
Si tratta innanzitutto di un’insicurezza fabbricata, ovvero di una nuova tipologia di rischi, prodotti dalla nostra civiltà, cioè immessi direttamente dalle scelte umane. Beck ne sottolinea alcuni: eventi come Cernobyl, a cui possiamo aggiungere quello di Fukushima Dai-ichi, la «mucca pazza», l’11 settembre, il mutamento climatico e i potenziali distruttivi delle attuali crisi finanziarie ed economiche…Sono esempi rappresentativi di possibilità ulteriori e più dirompenti. Le loro caratteristiche comuni hanno i seguenti connotati : “non sono affatto riconducibili a una carenza, bensì ai trionfi della modernizzazione industriale. Le loro cause e i loro effetti non sono limitati a un luogo o a uno spazio geografico, ma sono per principio onnipresenti. Le loro conseguenze sono incalcolabili. Fondamentalmente si tratta di rischi «ipotetici» basati sul non sapere prodotto dalle scienze e su un dissenso normativo. Soprattutto, però essi non sono compensabili…Se il clima è irreparabilmente mutato, se la genetica umana consente interventi irreversibili, se gruppi terroristici dispongono già di armi di distruzione di massa, allora è troppo tardi. Di fronte a questa nuova qualità della «minaccia all’umanità»…la logica della compensazione perde la sua validità e viene sostituita dal principio della tutela mediante la prevenzione. Il principio di precauzione impone un metodo del dubbio, nel senso in cui è stato canonizzato da Descartes…”1.
Per affrontare una tale china tendente alla irreversibilità (pensiamo ad esempio agli effetti cancerogeni dell’amianto e ai farmaci immessi in commercio e poi ritirati) è necessario l’assunzione del senso del limite e la coscienza della nostra finitezza. E’ quello che la tecnica illude di poter confinare nell’oblio. “Per dirla come Heidegger, la tecnica, «in quanto disvelamento nella forma dell’impiego», fa apparire il mondo nella forma della sua incondizionata manipolazione e sfruttabilità. E così anche l’uomo : come lavoratore e come consumatore…il pericolo non è la tecnica, bensì l’oblio della finitezza a cui essa conduce…Ma la logica degli interessi guarda, per lo più, al ritorno immediato, in termini di puro guadagno, e perciò tiene in poco conto le conseguenze”2. Si ma “Che sarà…?”. Fino a che punto si potrà continuare così?
In sostanza si tratta di rendersi conto che il rischio più elevato e carico di potenzialità tragiche è quello della irresponsabilità organizzata, ovvero l’incapacità di affrontare i problemi che sono prodotti dalle scelte umane. Come dice Beck “la società presente e i suoi sistemi parziali non sono in grado di venire a capo dei problemi più urgenti che essi stessi producono”.
E tuttavia rimane comunque il fatto che “i rischi incalcolabili e le insicurezza prodotte dall’uomo, generati dai successi della modernità, caratterizzano la conditio humana all’inizio del XXI secolo”3

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Un sistema di razionalità parziale, ma che pretende di dire sempre l’ultima parola sul tutto, è il pensiero e la pratica economica e finanziaria che assume il profitto individuale, senza alcun limite, come la finalità ultima, sempre dotata di giustificazione. Irresponsabile dei danni collaterali che produce, così come succede in guerra. Naturalmente nulla è lasciato al caso; ci si avvale di raffinate organizzazioni, ma si tratta di una irresponsabilità organizzata. Un esempio attualissimo e vicino lo abbiamo in quello che il processo di Torino ha fatto emergere a proposito delle stragi silenziose prodotte dall’amianto e che proseguiranno inesorabilmente per decenni e decenni (vedi i due prossimi scritti di questo quaderno).
Pensiamo alla irresponsabilità globale rispetto all’impronta ecologica sul pianeta, cioè al consumo spropositato del suo capitale naturale, che va ben oltre la “razione annualmente disponibile” scaricando sul futuro, sulle generazioni di figli e nipoti, problemi che forse non avranno più soluzione, perché si supererà un punto di non ritorno. Il tempo si è fatto breve, per usare una espressione di sapore biblico. Non ci sono secoli a disposizione per cambiare, ma – dicono – qualche decennio. I paesi industrializzati utilizzano una quota sproporzionata di beni pubblici globali (aria, acqua e risorse naturali). Se in questi paesi non avviene un radicale cambiamento degli stili di vita, consegnamo alle prossime generazioni un sistema sempre più insostenibile, scaricando una “bolla” che nessuno sarà in grado di ripianare.
Noi sappiamo bene che la responsabilità di questo ritmo di consumo ha pesi ben diversi. I 900 milioni di persone nate in occidente fruiscono dell’86% dei consumi mondiali, del 58% dell’energia mondiale, del 79% del reddito mondiale e del 74% di tutte le connessioni telefoniche. Se raffiguriamo l’umanità come una coppa di champagne divisa in cinque sezioni, l’occidente occupa la parte alta, quella larga e capiente. Certo, anche da noi se dovessimo rappresentare visivamente, per conto loro, i 900 milioni usando il metodo della coppa, ne verrebbe una figura diversa si, ma ugualmente la parte alta e capiente sarebbe occupata da una minoranza. Pensiamo all’Italia nella quale il 10% della popolazione possiede quasi il 50% della ricchezza.
Se veniamo al quinto più povero della popolazione mondiale, cioè agli 1,2 miliardi di persone, a loro toccano 1,3% dei consumi globali, il 4% dell’energia e l’1,5% di tutte le connessioni telefoniche.
L’autore dal quale abbiamo attinto questi dati esprime in due tesi come questa situazione dal punto di vista dell’uguaglianza e della disuguaglianza sia in movimento, per effetto dalla globalizzazione:
“L’uguaglianza sociale diventa un’aspettativa su scala mondiale” specificando l’affermazione in una prima tesi: “Le disuguaglianze sociali diventano un problema, materia di conflitto, non perché i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, ma quando – e solo quando – le norme e le aspettative di uguaglianza riconosciute, ossia i diritti umani, si diffondono. Chi vuole comprendere l’incidenza politica delle disuguaglianze deve interrogarsi sulla storia dell’uguaglianza sociale”. Per ora la disuguaglianza viene valutata nell’ambito del perimetro dei singoli stati, in disuguaglianze “nazional-statali” che però oscurano politicamente la realtà della disuguaglianza globale.
Ecco allora la seconda tesi “la disuguaglianza non può essere intesa nel quadro dello Stato nazionale” e così viene esplicitata: “La percezione della disuguaglianza sociale nella vita quotidiana, nella politica e nella ricerca si basa su una visione generale che pone i confini al contempo territoriali, politici, economici, sociali e culturali. In realtà, però, il mondo è sempre più interconnesso. I confini territoriali, statali, economici, sociali e culturali continuano a sussistere, ma non coesistono più. L’aumento degli intrecci e interazioni al di là delle frontiere nazionali, empiricamente ben documentato, impone la rimisurazione della disuguaglianza sociale”4. Insomma, la globalizzazione produce avvicinamenti, mobilità e inevitabili confronti che hanno come effetto anche quello di risvegliare la presa di coscienza dinanzi alle abissali disuguaglianze. Con tutto quello che ne può derivare sul piano politico e sociale.
Facciamo un esempio che ci tocca da vicino: si cita la Germania come esempio di disciplina e di efficienza sul fronte del lavoro. La risposta è OK. Ma allora valutiamo tutti i fattori in campo per parlare adeguatamente di produttività e di altri indicatori. E poi mettiamo sul tavolo anche le retribuzioni e le maggiori garanzie di cui godono i lavoratori tedeschi. Insomma è il problema di non ragionare più secondo i confini dello stato nazionale, ma tenendo conto delle interdipendenze globali. Se si fa il confronto, occorre farlo per intero.
E’ quello, peraltro, che sta emergendo in maniera sempre più evidente nell’ambito della Comunità europea, in cui la frantumazione politica degli stati nazionali, anzi la competizione tra loro sollecitata dalla ideologia neoliberista che domina l’Europa, rende di fatto assai complicata e problematica la difesa della moneta unica, per ora affidata solo a manovre recessive. Con il risultato di produrre devastazione sociale, nonché favorire il rigurgito di spinte nazionalistiche che vanno a riesumare una storia che speravamo ormai passata. Non sarà certo l’Europa dei finanzieri a far nascere l’Europa politica. Ma è proprio questo di cui c’è urgente bisogno. Appare sempre più evidente l’attuale inadeguatezza politica di fronte “al mondo sempre più interconnesso”.
Un accenno, infine, a un altro aspetto dirompente. Lo riassumo riferendo in maniera sintetica un dato diramato in una trasmissione di Augias “Le storie. Diario italiano” in occasione della presentazione di un libro di Emanuele Campiglio: “L’economia buona (Presente storico)”.
Riporto a memoria: Cinque grandi banche a livello mondiale controllano oltre il 90% dei CDS e derivati. Sono la finanza corsara che sta minacciando milioni di persone, oltre che l’economia di interi stati. Questi prodotti finanziari sono fuori da ogni regolamentazione e fioriscono sulla crisi. I loro interessi sono inversamente proporzionali agli interessi vitali degli abitanti del mondo.
“Alla fine del 2008, nel pieno della crisi subprime, l’ammontare complessivo di derivati in essere risultava di circa 592 trilioni di dollari. A giugno 2011 l’ammontare di derivati ha raggiunto i 708 trilioni. Si tratta di 10 volte il Pil mondiale….Il mercato dei derivati rimane ad oggi non disciplinato. Nonostante Paul Volker, consulente del presidente Usa Obama, ne avesse chiesto la regolamentazione come condizione fondamentale per un ritorno all’ordine nella finanza mondiale. L’esigenza di gettare una rete e di riportare sotto controllo questa gigantesca «piovra» che nuota nel mare della finanza mondiale è chiara a tutti. Ma finora nessuno tra i pochi che ci hanno provato, ci è ancora riuscito”5.
E’ il superamento di ogni limite, con una razionalità appiattita sull’interesse privato, a un’unica dimensione e senza cuore, incurante delle conseguenze sociali e della distruttività che produce.
Su questo i media di solito sorvolano e la politica parla d’altro
Ma questa sovranità del mercato è semplicemente criminale e va fermata perché porta l’economia mondiale al fallimento, mettendo a rischio la vita di milioni di persone. E’ l’appello che BecK lancia dalle pagine di un quotidiano:
“Non si può ignorare che oggi, dinanzi al rischio di una nuova crisi economica mondiale di vasta portata, la «sovranità del mercato» rappresenta una minaccia esistenziale senza precedenti. In altri termini, quest’esperienza storica insegna che il progetto neoliberista – di riduzione dello Stato ai minimi termini – è fallito; e in controtendenza ad esso si fa sempre più forte il richiamo alla responsabilità statale, a fronte di un’economia mondiale che produce vortici di incertezza incontrollabili, mettendo a rischio la vita di tutti” (La Repubblica 6 febbraio).
Se non sorge una responsabilità politica condivisa e una progettualità commisurata alle sfide mondiali, cioè culturalmente all’altezza, immaginando il pianeta come l’unica polis nella quale dobbiamo vivere e convivere, noi e soprattutto quelli che prenderanno il nostro posto nella vita, non rimangono speranze ragionevoli. Senza un’intelligenza e un cuore, che l’attuale mercato non potrà mai avere, non c’è salvezza.

***

Il quaderno nella prima sezione “sguardi dalla stiva” tratta tematiche connesse al lavoro: la sentenza di Torino contro Eternit, l’industria assassina, e la testimonianza di un frate operaio che per alcuni anni ha lavorato a contatto con l’amianto. Seguono alcuni interventi che si riferiscono alle vicende di questi ultimi mesi.
Nella seconda sezione, “il Vangelo nel tempo” vengono riportati una serie di contributi che servono da preparazione al convegno che terremo a Bergamo il prossimo 2 giugno su: “Servizio e potere nella Chiesa”. Sono numerosi ed anche di diverso peso, come impegno di lettura. Abbiamo riportato, in parte purtroppo per ovvi motivi di spazio, uno studio davvero bello di Karl Rahner che risale al 1947 dal titolo “La Chiesa dei peccatori”, come pure una riflessione a partire da un testo sul Vangelo di Marco di Aldo Bodrato. Le vicende che hanno coinvolto la chiesa in questi ultimi anni, pensiamo alla pedofilia , alle lotte intestine per il potere, la non trasparenza economica, i rinnovati tentativi di isolare e squalificare quanti esprimono pensieri diversi da quelli ufficiali, impongono una riflessione teologica, oltre che una seria considerazione sui fatti. Una riflessione teologica diffusa, libera e sincera, che affronti in maniera ampia le questioni nell’ambito delle chiese, a me non pare ci sia. Noi sentiamo il dovere di tentarla, a partire dal nodo essenziale e vitale Servizio/potere. Nel mondo in cui siamo, del quale sopra abbiamo indicato alcuni tratti inquietanti, non basta il linguaggio del servizio delle chiese, ma deve apparire non un potere che si confonda tra gli altri, ma un’autorevolezza che assuma autentici connotati di servizio. Deve manifestarsi chiara, anche nei rapporti intra-ecclesiali la “differenza cristiana”, cioè l’avversativo “ma tra voi non è così” che indichi netta la distanza rispetto all’uso mondano del potere. L’unica possibilità per essere segno dentro questo mondo.
Alla fine ricordiamo due amici preti che hanno condiviso il nostro percorso e che recentemente ci hanno lasciato: don Stefano Pipino, piemontese e don Umberto Miglioranza, veneto. Nei prossimi numeri dedicheremo uno spazio al messaggio e alla testimonianza che ci rimangono in eredità.

Roberto Fiorini


 

1 Cit, da U. BecK, Disuguaglianza senza confini, Laterza Bari 2011, 6.

2 S. Natoli, Il buon uso del mondo. Agire nell’età del rischio, Mondadori Milano 2010. 87-89.

3 U. Beck, Conditio humana. Il rischio nell’età globale, Laterza Bari 2011 306.309.

4 Beck, Disuguaglianza senza confini, 10-15.

5 A, Santoni, Derivati in Capire la Crisi, Le cento voci da conoscere per affrontare il futuro. La Repubblica , 47.


 

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