Comunità di Banchette


 

Quando si ha il compito, come nel mio caso, di parlare di una persona che non è più, che ci ha lasciati inaspettatamente, si corre sempre il rischio di racchiudere una vita, che è sempre e per tutti complessa, nei ricordi personali e, anche non volendolo, nelle definizioni che, spesso, appartengono solo a chi scrive.
Questo rischio diventa quasi certezza parlando di don Renato Pipino, con il quale sono stato in rapporto fraterno per più di quarant’anni, e con il quale ho vissuto esperienze di vita molto intense. Soprattutto sono stato testimone durante questo periodo molto lungo della evoluzione di don Renato, della sua maturazione nelle scelte che man mano andava a fare e di come sue primitive esigenze si andavano con gli anni a consolidare in opzioni e stili di vita precisi.
Quello che colpiva in Renato (senza il don come l’ho sempre chiamato, per pura amicizia e senza nessuna volontà di sminuire il suo essere prete) era il suo atteggiamento di fronte alle cose che lo circondavano. Era un atteggiamento di piena benevolenza, di ascolto e di totale comprensione. Come lui stesso ha avuto modo di scrivere in una di quelle pochissime lettere che ha inviato (chissà poi se alla fine le ha veramente inviate o sono rimaste nel cassetto e fatte leggere solo ad alcuni intimi) “ho ricevuto un’educazione rigida e spartana: freddo, poca pulizia, poco spazio all’affetto (anche dei genitori), gioco, studio, preghiera. Mi ci sono trovato fin troppo bene”.
Questo dice molto sul suo punto di partenza, sul suo modo di cominciare un cammino, a cui una prima scelta di fede infantile l’aveva avviato. Capire fino in fondo l’esperienza che veniva facendo, immergersi, viverla. Questo per Renato era essenziale per, poi, rifletterci su, cercare il senso delle cose, individuare quello che non va.
Certo, quello che colpiva discutendo con lui, era la sua intelligenza speculativa capace di sezionare un problema e una situazione, di vederne tutte le implicazioni, di individuare tutte le possibili evoluzioni. Ma tutto sarebbe stato un puro cerebralismo senza questo profondo attaccamento al vissuto, alla vita come si veniva svolgendo, senza la sua profonda condivisione con ciò che era attorno a lui, con le persone che incontrava.
Renato arriva a Banchette l’8 dicembre 1967. Ed inizia per lui come per altri un’esperienza durata alcuni anni, che (lo scrive lui stesso nella lettera già citata) “son tentato di dire ruggenti. Qui si raccolgono aspirazioni ed esperienze passate, in qualche modo si radicalizzano e danno una svolta alla mia vita; segnano un punto da cui non si può tornare indietro”.
La partenza per i quattro preti, poi divenuti tre, è quella della vita comunitaria: pur con un parroco formalmente incaricato della pastorale, in realtà la pastorale e i diversi atti della vita parrocchiale sono condotti dal gruppo di preti affiancati da un consiglio parrocchiale democraticamente eletto.
Si comincia ad agire sulla liturgia, la messa diventa sempre più partecipata, si introducono nuovi canti, si approfondisce il vangelo e la bibbia con un gruppo di laici. La comunità si muove nel solco tracciato dal Concilio Vaticano II.
Approfondendo il significato della vita comune e del coinvolgimento degli altri (non religiosi) entrano in comunità una famiglia e vengono accolti alcuni ragazzi con diversi problemi. L’impostazione iniziale della vita comune si accentua con la messa in comune degli stipendi e si cerca di rinnovare nel profondo la pastorale postconciliare. Si introduce una scuola biblica all’interno della messa, si dà largo spazio nelle omelie ai fatti sociali e politici locali e internazionali, si aboliscono le tariffe e le offerte per i servizi religiosi, si rifiuta la congrua (lo stipendio dello stato per i parroci) destinandola ai servizi sociali comunali.
Contemporaneamente si partecipa alle grandi battaglie per i diritti civili, come la legge sul divorzio, o si mettono a disposizione le strutture della parrocchia per ospitare le battaglie particolarmente accese in quel periodo sul diritto alla casa, contro gli sfratti.
Renato fu quello che più si spese sul fronte della realizzazione degli indirizzi conciliari, basandosi anche sulle sue maggiori, diciamo così, competenze in teologia e sacre scritture. Si compì allora uno sforzo grandissimo di rinnovamento della chiesa locale, dalla quale, però, più si operava, più cresceva l’emarginazione. E in qualche modo il più emarginato appariva proprio Renato, quello che solo qualche anno prima era visto come un astro sorgente nella diocesi per le sue doti indubbiamente non comuni.
In quel periodo, però, il fatto più prepotente che entrò nella vita della comunità di Banchette furono le lotte operaie, quei movimenti, quelle aspirazioni, quelle battaglie nelle fabbriche e nella società, che, diffusi in tutto il mondo, si manifestavano con tutta la loro forza sovversiva anche sotto casa, nel luogo stesso dove la comunità viveva.
E la comunità con tutti i suoi membri ne fu permeata, fu scossa. Era il grido dei deboli, degli oppressi che voleva farsi ascoltare, di chi non aveva mai avuto parola, di chi non aveva mai contato. Renato fu lucido nel descrivere il cambiamento che la “politica” e le lotte operaie produssero in lui e nella comunità.

”La dimensione politica mancava completamente nella formazione del seminario. …Anche se con la Fuci avevo avuto un primo contatto con la contestazione studentesca, intuivo le ragioni profonde delle nuove idee, che pur su versanti opposti mi richiamavano le novità del Concilio …poi vengono i primi cortei di protesta… ricordo l’emozione profonda e lo sforzo per superare la mia timidezza e un po’ di vergogna, per le strade di Ivrea, facendo cordone a braccetto con una ragazza, vestito da prete, dietro le bandiere rosse, urlando slogan contro il potere, la polizia… Queste cose ti entrano dentro e ti plasmano forse più di tanti anni di seminario: diventa carne della tua carne la consapevolezza che tu, per la giustizia, la libertà a cui ti senti impegnato dal Vangelo, prima ancora che da una maturazione umana, sei da una parte, sei passato di là, e le forze dell’ordine, i borghesi, i benpensanti, tanti cattolici e preti dall’altra”.

Questo fu il passaggio fondamentale per Renato e per la Comunità di Banchette. I tre preti, don Giovanni, don Nino e don Renato andarono nel giro di un anno a lavorare in fabbrica (Giovanni alla biblioteca di Ivrea). Nella loro scelta vi furono diverse componenti, a partire dall’insegnamento spirituale di Charles de Foucauld, per tutti e tre molto importante.
Ma in fondo la scelta fu dettata dal desiderio di essere come gli altri, di condividere con gli altri la condizione di lavoratore salariato, di cercare di eliminare quella lente deformante con la quale la gente continuava a guardare il prete. La scelta del lavoro manuale fu una scelta non per evangelizzare i lontani, per portare il messaggio della chiesa in ambienti poco disposti all’ascolto se non ostili. Fu una scelta di condivisione, un primo necessario passo per essere accettati nel mondo dei più deboli.
Ma questa scelta non potè non produrre tutta una serie di conseguenze che segnarono profondamente il periodo successivo . Il lavoro in fabbrica,come diceva Renato, scava la vita in profondità. A poco a poco si sente venire meno la sacralità del sacerdozio e la spiritualità, intesa come distacco dalle vicende affannose del mondo, scompare. Le cose quotidiane, i rapporti con i compagni di lavoro, le battaglie per rivendicazioni sindacali, dalla più piccola che investe l’ambiente di lavoro, a quella più impegnativa, come il contratto di lavoro, riempiono il tempo e la vita dei preti in fabbrica. Il sacerdozio scende di un gradino dal piedistallo di potere dove era collocato, i fronzoli volano via (altra espressione di Renato) e si rimane assorbiti nelle battaglie quotidiane, con il sindacato che diventa un luogo famigliare e naturale.
Comincia a scavarsi un solco tra questa vita e il mondo cattolico, inteso con i suoi appuntamenti diocesani, gli incontri con gli altri preti, le pastorali, le liturgie. Rimane, anzi si rafforza, la fede in Gesù Salvatore e nella chiesa dei poveri, che la comunità porta avanti nella sua ricerca. Si accentua un’impostazione delle iniziative in parrocchia per alcuni versi “classista”, in cui sono prevalenti le denunce, come quella contro il concordato, a sostegno di una Chiesa senza potere e denaro.
Questa impostazione sempre più radicale a poco a poco mutò anche la composizione sociale del gruppo allargato di credenti che sostenevano la comunità: cominciavano ad essere più tiepide persone appartenenti alla media borghesia, mentre cominciavano a vedersi facce proletarie e compagni di lavoro.
Al centro di questa impostazione cominciò anche la discussione sul significato e ruolo della parrocchia, del suo essere o meno funzionale a un certo tipo di chiesa, di essere lo strumento più rappresentativo della distanza tra la gerarchia (il parroco in primis) e la gente, anzi addirittura lo strumento di perpetuazione di questa separazione. Tutte le iniziative della comunità erano andate negli anni nella direzione di cancellare questa distanza, ma i risultati, se così si può dire, furono scarsi.
Ma ci fu anche una nuova e più accentuata svolta. Fin dall’inizio la comunità ospitava alcuni ragazzi con problemi di adattabilità sociale. Fu soltanto a partire dalla riflessione sui poveri e sul vangelo dei poveri che l’ospitalità si tramutò progressivamente in una necessità per la ricerca di fede in Gesù Cristo: vivere insieme a persone che avevano corso l’esperienza del carcere o della droga, a giovani che provavano l’esclusione sociale, come condizione per rendere veramente incarnata la propria fede e come concreta manifestazione di vita dalla parte dei più deboli.
Renato fu quello che con maggiore impeto spinse la comunità in questa direzione, trovando in questa condivisione quello che ancora mancava al suo impegno in fabbrica e nel sindacato. E per tutta la vita da allora cercò di mantenersi fedele a quella prima scelta, cercando non solo di portare aiuto, di dare consigli o di risolvere intricate condizioni personali, ma cercando di vivere il punto di vista degli emarginati, cercando di interpretare tutta la realtà che lo circondava, il mondo, a partire dalla visione degli esclusi che la comunità aveva accolto in casa.
La progressiva radicalizzazione nelle scelte sul piano delle iniziative parrocchiali, delle battaglie e dell’impegno politico-sindacale, della vita in comune con emarginati che pretendevano sempre più attenzione, mise in crisi la comunità di Banchette.
Renato fu quello che più degli altri sentì in maniera acuta le contraddizioni che insieme si erano accumulate sui membri del gruppo e che diventava sempre più difficile sciogliere. Come disse nella lettera più volte citata, fu proprio la pastorale post-conciliare della parrocchia che andò in crisi, perché “ci accorgiamo dell’impossibilità di attuare il Concilio nelle sue intuizioni più importanti: questa pastorale non intacca la struttura ideologica, economica e di potere della Chiesa e del nostro inserimento in essa ed è in contraddizione con le nostre scelte operaie e politiche”.
Non solo la parrocchia comincia a diventare oggetto di discussione nella comunità, con una parte propensa ad abbandonarla, ma progressivamente ci si rende conto che la scelta della classe operaia e del sindacato si scontra in termini di dispendio d’energia con quella della emarginazione e dei suoi immani problemi.
Ma soprattutto comincia a farsi largo la consapevolezza che tra la scelta della classe operaia e quella degli emarginati si aprano contraddizioni sia sulle priorità degli obbiettivi sociali che su quelle della vita materiale e quotidiana. Queste lacerazioni sono vissute da tutti i membri con grande consapevolezza e le successive ramificazioni della comunità in gruppi diversi non sono mai state vissute come “tradimenti” reciproci, come spesso è accaduto in altre comunità alle prese con i medesimi problemi, ma semplicemente come evoluzioni, pur dolorose, delle esperienze.
Ciò nonostante le rotture procurano male a chi le provoca, male a noi che eravamo i protagonisti. Come spesso succede quell’esperienza così importante non solo per chi l’ha vissuta, ma per tutti coloro che in essa si sono imbattuti, si concluse nel giro di un anno, da metà 1974 a metà 1975, insieme alla vita comune dei tre preti.
Don Giovanni rimase in parrocchia perseverando nelle linee postconciliari, con l’aiuto di un giovane, don Luciano, che è ancora oggi parroco di Banchette. Don Nino insieme alla famiglia Nelli e alcuni giovani si trasferirono in un altro luogo a Ivrea, dando vita a una piccola comunità, Il Pozzo, che si muoveva lavorando per la Chiesa dei poveri in manifesto dissenso con molte delle scelte della chiesa ufficiale, approfondendo la ricerca evangelica, all’interno di una ben definita collocazione sociale di sinistra, a fianco della classe operaia.
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Renato con Alda e Giorgio

Don Renato trovò nella fraternità carmelitana di Lessolo il luogo ideale per continuare il suo cammino. Una fraternità che già dalle origini praticava l’accoglienza di emarginati, in particolare ex carcerati, ma alla quale Renato impresse il suo particolare timbro. Era un’impostazione maturata a Banchette che poneva il problema dell’emarginazione in uno sfondo politico e sociale di iniziative. Ma soprattutto gli emarginati che erano accolti a Lessolo, Renato cercava di viverli non come ospiti, ma come membri a tutti gli effetti uguali agli altri della fraternità.
Questa spinta non fu indolore. Non tutti la pensavano allo stesso modo, la congregazione si mostrò in diversi modi preoccupata, le contraddizioni quotidiane furono molte. Ma in questa fraternità Renato ha compiuto il suo cammino fino alla fine. Ed è stato un cammino che si è svolto per più di trent’anni, nel silenzio più totale da parte della diocesi, della chiesa ufficiale, ma anche di tanti laici impegnati nel rinnovamento religioso e nella battaglia all’interno della chiesa, per una chiesa più autentica.
Sono stati trent’anni per Renato pieni di lavoro, di vita, anche di sofferenza nel constatare la distanza tra le aspirazioni e, spesso, la miseria della quotidianità. Sono stati anche anni caratterizzati da nuovi incontri e amicizie, ma anche anni che hanno stretto e rinsaldato le amicizie nate tanto tempo prima.
Perché non chiamarlo così il suo impegno per decenni alla messa domenicale di Torre Balfredo, di cui era divenuto parroco don Nino, in cui le sue omelie registravano con fedele testimonianza la maturazione della sua fede e della sua esperienza quotidiana?
Come le sue costanti e fedeli scappate in Toscana, dove con don Nino, la famiglia Nelli ed alcuni vecchi amici si facevano le ore piccole a discutere del mondo e di come fare per cambiarlo. Il tutto intramezzato da tutti gli appuntamenti di una vita: matrimoni, nascite, dolori, malattie, morti.
Ora che non è più, veramente un pezzo della vita di quelli che come me gli sono stati vicini, se n’è andato. Certo, i ricordi sono indelebili, ma ci mancherà sempre quella sua mansuetudine che non disdegnava di trasformarsi in ira di fronte alla difesa di una causa giusta, quella sua analisi spietata delle cose che nascondeva un profondo rispetto per tutti, quella sua dedizione ai poveri che spesso lo trascinava ai lavori più umili per essere come loro, quella fede profonda in Gesù di Nazareth che lo spinse tutta la vita ad essere compagno di strada di chi aveva fame di giustizia.

Alda e Giorgio Nelli


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