Renato in fabbrica: memorie di una dura lotta
Don Renato Pipino ha 38 anni, un fisico ben piantato, una barba scura con un vago inizio di ancor lontana canizie. Avrebbe potuto insegnare teologia morale in qualche seminario, così come aveva cominciato a fare all’inizio della sua breve carriera, e invece ha scelto il mestiere scomodo di prete-operaio.
Adesso si trova a fare il picchettaggio davanti ai cancelli della fabbrica della quale è stato licenziato nei giorni scorsi. L’ingegner Stuani, direttore della Wierer, un’azienda che produce tegole in cemento e che ha sede tra San Giorgio Canavese e Foglizzo sulle falde della Serra Morenica d’Ivrea, lo ha chiamato «il prete maledetto».
Ma Don Renato, come lo chiamano i compagni di lavoro, non sembra per nulla preoccupato. Abbiamo parlato con lui della vertenza sindacale di cui è suo malgrado protagonista, della sua scelta di lotta, del suo immediato futuro che lo vede con una lettera di licenziamento in tasca.
Don Renato, perché è stato licenziato?
«È una storia che risale a qualche giorno fa. Un dirigente ha minacciato un compagno di lavoro e io sono intervenuto per evitare spiacevoli conseguenze. Col risultato che ci siamo trovati tutti e due licenziati».
Ma ci sono anche cinque ammonizioni ad altrettanti lavoratori.
«Sì, perché le ultime vicende sono legate alla vertenza in corso da due mesi in fabbrica su occupazione, mensa, ambiente di lavoro, premio».
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Con alcuni compagni di lavoro della Wierer
Lei ha avuto una vita difficile in fabbrica?
«Ci sono stati alti e bassi. Ma quando c’è l’accordo tra i lavoratori è più facile lottare».
A proposito di lotta perché ha scelto la fabbrica, abbandonando la quiete silenziosa dei chiostri per le fatiche di un comune operaio?
«Ho scelto la vita semplice, la vita dei poveri quando ho avvertito il distacco storico tra chiesa e mondo operaio. Non me la sono sentita di restare fuori dalla scontro tra operai e padroni, lontano dalla lotta di classe».
Nella lotta, mi pare, si sia immerso fino al collo.
«La Wierer è uno dei sessanta stabilimenti europei di un gruppo multinazionale. È una piccola fabbrica che occupa appena quaranta persone nella quale si avvertono più che altrove certe prevaricazioni. È qui che la lotta è più difficile».
Prima di questa occupazione ha lavorato altrove?
«Per un anno e quattro mesi ho lavorato in un mulino di Montalto Dora e poi a Borgofranco d’Ivrea come stagionale».
Figlio di un falegname e di una contadina di Chivasso, se non sbaglio, da ragazzo aveva tutt’altra vocazione?
«Ho studiato al seminario d’Ivrea e alla Gregoriana di Roma e poi ho insegnato teologia morale allo stesso seminario eporediese e a quello interdiocesano di Vercelli».
Lei è stato segretario del vescovo di Ivrea, monsignor Bettazzi, noto per le sue idee progressiste, di cui si ricorda la lunga lotta assieme ai lavoratori del canavese. L’insegnamento di Bettazzi ha influito sulla sua scelta?
«La decisione l’ho maturata da solo, in anni di riflessione. Forse Bettazzi mi ha aiutato a realizzarla».
Ma torniamo alla vertenza. È iscritto a qualche sindacato?
«Sì, alla Fillea-Cgil».
E adesso cosa fa?
«Lotto con i compagni fino a quando la direzione non ritirerà i licenziamenti e fino a quando non avremo chiuso la vertenza».
E se l’azienda insiste con i licenziamenti?
«Mi cercherò un lavoro altrove, anche se sono sicuro che mi porterò appresso il marchio del licenziato. Già in passato altre fabbriche mi hanno chiuso la porta in faccia».
Perché era battagliero?
«No, perché ero prete ».
Glielo hanno detto espressamente?
«Non me lo hanno certo messo per iscritto. Ma mi raccomando non ne faccia un caso personale. Alla Wierer c’è un altro licenziamento e cinque operai ammoniti. La vertenza riguarda tutti e non soltanto me».
Stia tranquillo, Don Renato.
Salvatore Tropea
La Repubblica, 17-6-1977