Il Vangelo nel tempo / la Parola nelle biografie


 

Per caso o per grazia mi è toccato di percorrere strade che toccano da vicino l’esistenza concreta delle persone del mio tempo.
Non è che non lo fosse quando ero in parrocchia, ma qui accade in forma intensiva trovandomi fianco a fianco con persone che vivono drammi personali, e famigliari al limite della sopportazione. Uomini separati dalle mogli, senza lavoro e con figli da mantenere che a pelle lasciano la percezione di vissuti nell’angoscia della solitudine, dell’abbandono e del fallimento esistenziale.
Ne ascolto voci e gridi di cui non sempre giunge eco nelle comunità religiose e civili.
Prendo spunto dal particolare di un messaggio inviatomi da uno di questi amici, che mi scriveva dal luogo dove aveva trovato una occupazione provvisoria: “Mi mancano i colloqui serali con te”.
Ebbi conferma che il primo e più importante atteggiamento è l’ascolto.
Già mi aveva insegnato la Bibbia dei nostri fratelli Ebrei quando dice “Shema Israel – ascolta Israele”. 
Un Dio che chiede a noi come comunità se siamo disposti a fare spazio a Lui che equivale a fare spazio all’altro.
Imparare dunque a ospitare l’altro che ti sta accanto e scoprire che anche nel più disperato c’è un brandello di umanità su cui poggiare la speranza di recupero di dignità e di umanità.
Imparare a rispettare chi mi sta a fianco.

E qui mi viene spontaneo ripensare a un altro affascinante momento del dialogo tra Dio e Mosè, al roveto ardente che non si consumava mai e da quel roveto viene un grido: “Non avvicinarti oltre, togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale stai è suolo santo” (Es 3, 5).
Anche oggi il grido chiede riconoscimento del mistero dell’altro.
E ci dice: “Fermati alla soglia. Togliti i sandali. Riconosci le tue fragilità e lavati dai tuoi pregiudizi”.
Quanti racconti, quante domande impreviste, quelle della vita a cui non posso dare una risposta programmata o confezionata in piani pastorali (in situazioni come queste non è facile trovare lavoro o affrontare insieme problemi di separazione), ma mi hanno insegnato a camminare con l’altro. Loro privilegiano i racconti, le esperienze di vita che sono altra cosa dalle declamazioni che noi preti facciamo e che spesso anch’io ho fatto.
Leggendo il Vangelo mi confermo sempre di più che quel Gesù di Nazareth, di cui si narra in tutti i vangeli, ha frequentato poco le sinagoghe e il tempio, ma ha vissuto molto per strada, dove ha incrociato la storia e la vita concreta di persone qualsiasi, a partire dai più deboli.
È impressionante quella insistenza sul particolare che dice “passando, vide”.
E Gesù scelse di condividere la condizione di vita di tutti, la domanda di vita e di speranza che ognuno esprimeva.
Questo ci chiede ancora oggi il Signore: stare nella storia con tutte le sue conseguenze miserabili. Come questo momento squallido che stiamo vivendo, perché questa è la condizione unica indispensabile per essere comunità cristiana che è sale, “sapore, senso del vivere oggi”; e lievito che fa fermentare la pasta, la storia.
Riprendendo a sognare e a sperare con chiunque che è possibile una società più a misura di uomo e di donna.
Quello che manca oggi è la capacità di sognare.
E chi non impara a sognare, immaginare, non vive.
Sopravvive, ma, soprattutto, dimentica la responsabilità nei confronti delle nuove generazioni.
Mi sovviene quello sconosciuto che si accompagna ai due discepoli di Emmaus, tristi e sfiduciati. Perché il loro sogno era svanito.
Era un sogno illusorio, su misura di una società come la nostra, dove prevale la carriera, la spregiudicatezza di una vita vissuta per i soldi e con la paura che gli altri ci precedano.
Non si erano accorti che Gesù aveva un altro sogno e uno stile diverso nel vivere.
Per questo nel dialogo passo passo si svelano l’un l’altro, fino alla complicità di trovarsi a tavola insieme.
Una persona non si svela a uno che sta in alto, ma a uno che sta a fianco, che sente il fiatone del passo e si fa compagno di strada.
Quella tavola, in una osteria di strada, è stato per loro l’inizio di una nuova vita nella speranza e nella gioia.
Quello sconosciuto, compagno di strada, era stato per loro una benedizione.
Mi sembra questo il senso del nostro vivere da cristiani in questo mondo: essere motivo di ringraziamento a Dio perché siamo stati una benedizione per loro.
Cioè possono dire bene di noi.
José Castillo nel suo libro dal titolo “Fuori dalle righe” ha una frase illuminante per ognuno di noi quando dice: “Lo specchio del mio comportamento etico-morale non è solo e necessariamente la coscienza individuale, bensì il volto di chi mi sta di fronte. Se il suo volto è sereno, felice, ha in sé una speranza, posso stare tranquillo. Se l’altro non è felice allora devo rivedere il mio comportamento”.
Mi sembra questo una piccola interpretazione delle Beatitudini: la felicità è di coloro che sono poveri, perché con il loro comportamento aprono lo sguardo dell’altro verso la speranza.
Scegliendo l’essenziale che dà spazio e tempo all’altro.
Non sono biblista, ma so che Gesù si rivolgeva non al singolo, ma alla comunità anche nella versione di Luca, che è più netta, “Beati i poveri” e “Guai ai ricchi”.
Sarebbe un non senso e un insulto ritenere che i miei amici inguaiati siano felici agli occhi di Dio.
Mi sembra più consono al vangelo se in una comunità che ha alla sorgente l’Eucarestia ci fossero persone che come stile di vita scelgono di camminare con chi fa più fatica e scoprire insieme la felicità.
Grazie a Dio, nello squallore del momento ci sono tante persone, soprattutto giovani, che scelgono tempo e passione per gli altri.

Adriano Peracchi


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