Editoriale 1


 

Le pagine che seguono sono in gran parte composte da testimonianze di preti che per decenni si sono immersi nella vita di lavoro nelle fabbriche o, come nel mio caso nei servizi sanitari pubblici, non avendo mai tralasciato di aprire le pagine della Bibbia. Un antico padre, Gregorio Magno, diceva che la Scrittura cresce con il lettore. Cioè la sua comprensione diventa più profonda in rapporto alla maturazione di chi la legge. E’ indubbio che il lavoro quotidiano produce modificazioni importanti nella vita di chi lo adempie, e può anche lasciare delle pesanti conseguenze sul piano della salute fisica e pure ferite nella psiche e nell’equilibrio personale. Soprattutto, però, immerge in un mondo esigente e duro che costringe i soggetti a diventare adulti, esposti anche alle condizioni di oppressione e di sfruttamento, di squilibrio dei poteri che in esso si verifica. Spesso nell’impossibilità di reagire quando le proprie ragioni vengono ignorate.
Mai come oggi è stata attuale la testimonianza di Simon Weil, filtrata dalla propria vita di lavoro in fabbrica: “In conclusione, ho tratto due insegnamenti dalla mia esperienza. La prima, la più amara e la più impreveduta, è che l’oppressione, a partire da un certo grado di intensità, non genera una tendenza alla rivolta, bensì una tendenza quasi irresistibile alla più assoluta sottomissione. L’ho constatato su me stessa […].

Il secondo insegnamento è questo: che l’umanità si divide in due categorie: le persone che contano qualcosa e le persone che non contano nulla. Quando si appartiene alla seconda categoria si arriva a trovar naturale di non contare nulla – il ché non significa che non si soffra […] Per gli sventurati, l’inferiorità sociale è tanto e infinitamente più pesante a portare in quanto ovunque essa viene presentata come qualcosa di assolutamente naturale” (La condizione operaia, Milano 1980, 149.137).
Ecco: leggere la Scrittura avendo questi nervi scoperti ci fa apprezzare delle cose che mai si potrebbero notare affacciandosi agli sportelli dello IOR, la banca vaticana, se si deve dar credito a un proverbio brasiliano citato da un padre al Vaticano II “«Il pensiero della gente si accorda con il soffitto dell’abitazione». I soffitti rinascimentali non invitavano alla riflessione sulla povertà e i poveri” (cit. in Paul Gauthier, La chiesa dei poveri e il concilio, Firenze 1966, 153).
Eppure questa capacità di apprezzare la realtà dei poveri e dei senza potere è la condizione per entrare nel mondo della Bibbia per scoprire una parola che non è mai allineata con i poteri umani e che rivela un Dio che vede l’oppressione del suo popolo, dovunque l’umanità è negata e offesa, ascolta il grido che erompe dai cuori feriti. Nel panorama biblico la categoria della giustizia, intesa come retta relazione con Dio, con i propri simili e perfino con le cose create, è il criterio di fondo dell’Antico Testamento, mentre l’amore fraterno, inclusivo della giustizia, inteso sulla scorta dell’agape, cioè dell’amore gratuito di Dio, domina come caratteristica del Nuovo Testamento.
Ecco, sulla base di quel conoscere esperienziale che proviene dalla nostra vita di lavoro e dalla dimestichezza con la parola biblica, noi confessiamo il nostro dolore per la sofferenza ingiustamente scaricata su milioni di uomini e donne di tutte le età, in particolare di giovani ai quali dai pulpiti del potere viene negato un futuro.
Taluni diranno che tali linguaggi nascondono letture ideologiche della Bibbia. Noi diciamo, invece, che la parola del Vangelo è incatenata e silenziata, prigioniera dentro i muri delle chiese occupate nella propria autoconservazione, dove i fumi di una ideologia neoliberista onnipervasiva, alla quale ci si è arresi, si combina con le nuvole di incenso. E la parola che è nata all’aperto, nelle strade e campagne, nei villaggi e nelle piazze, e sulla collina del Golgotha, non risuona, anestetizzata nell’incapacità di dare un nome alle cose e agli eventi.

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Abbiamo assistito, impotenti, a dei veri misfatti consumati sotto i nostri occhi. Dall’oggi al domani intere classi di età sono state dichiarate per decreto senza lavoro e senza pensione con la creazione di un neologismo, “esodati”, che rovescia il senso biblico di esodo che indica un cammino di liberazione dalla schiavitù. Da noi in Italia è diventato la casella di appartenenza a un nulla: né lavoro, né pensione. Quanti sono e saranno? Sembra che nessuno lo sappia con precisione, o almeno a noi non è dato saperlo. Mentre c’è la precisione millimetrica nel calcolo quotidiano dello spread, in quest’altro campo trionfa un pressapochismo ignobile.
Con una novità che, dopo più di 60 anni di Repubblica “fondata sul lavoro”, esplode feroce. Quella che nascondono sotto il nome di riforma, con il seguente assioma: “il lavoro non è un diritto”. Una formulazione netta espressa dal ministro del lavoro e delle politiche sociali, in inglese Welfare, nel luglio scorso, con rituali smentite verbali, smentite a loro volta dalla concreta azione di governo.
“Il nostro impacciato ministro del “welfare” ripropone ora quel rigetto liberale del lavoro come diritto che è stato invece per oltre 60 anni il caposaldo della storia repubblicana e che parve alla gran parte dei costituenti…acquisizione definitiva.
Ma sarebbe ingenuo contestare questa sintomatica escandescenza in meri termini di diritto costituzionale. Se questa escandescenza è venuta fuori, se è «dal sen fuggita», essa significa molto. Significa che i rapporti di forza tra le classi sociali sono cambiati, e sono cambiati in peggio per le classi che vivono unicamente del loro lavoro e per quelle che, per molto ancora, lavoro non ne avranno affatto” (Luciano Canfora, E’ l’Europa che ce lo chiede! Falso, Bari 2012, 75).
L’altra pillola avvelenata è uscita dal premier professore che con gelido paternalismo si è rivolto alla generazione dei giovani, con più di uno su tre senza lavoro e oltre il 50% occupati con contratti di precariato assoluto, dichiarandoli “una generazione perduta”. Credo sia la prima volta nella storia che un capo di governo rivolga parole tanto disperate per quelle classi di età che rappresentano il futuro della nazione.
E’ davvero disperante che un premier sedicente al di sopra delle parti nella sua aura professorale, apra la campagna elettorale accanto a Marchionne alla Fiat di Melfi, davanti agli operai con le tute bianche. Peccato che solo 20 giorni dopo l’amministratore delegato dalla lontana Detroit annunciava per quella fabbrica modello la cassa integrazione a rotazione da febbraio alla fine del 2014! Se quella di Monti voleva essere una mossa elettorale, certo non è stata geniale. Ma non è stata casuale, visto che mette in prima fila la legge 300 sui diritti dei lavoratori come causa della diminuzione dei posti di lavoro, avanzando poi la pretesa che vengano “silenziati” noti esponenti politici e sindacali che hanno idee e proposte economiche che dissentono dalle sue.

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Ricordate l’alternativa idiota che veniva fatta balenare nei dibattiti televisivi quando l’Ilva di Taranto era sotto i riflettori: “O lavoro con malattia o salute senza lavoro”? Ora noi sappiamo bene che vi sono altre piccole o grandi Taranto in circolazione. In un recente articolo di Adriano Sofri si parla del caso di Trieste dove si moltiplicano i “malati della Ferriera”. Anche lì “l’acciaio uccide nell’Ilva del Nordest” dove tra gli operai “i tumori sono aumentati del 50%”. Nella scheda della stessa pagina sono riportati 22 siti di produzione dell’acciaio con tre alti forni, 17 forni elettrici e 2 convertitori all’ossigeno. La maggior parte sono concentrati nel nord Italia (La Repubblica, 14 gennaio 2013). Vengono alla luce le abitudini criminali di un sistema industriale italiano che basa il profitto sul massacro del territorio trasformato in un’enorme discarica che ne distrugge l’abitabilità, negando gli investimenti necessari e realizzabili per una produzione più pulita. Salvo poi andarsene, quando le convenienze sono esaurite, lasciando ai fondi pubblici e ai cittadini l’onere di bonifiche costosissime, impossibili da realizzare su tutti i territori contaminati del paese. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti in termini di malattie e di costi umani, sanitari ed economici conseguenti. Anche questo, ancor più del debito pubblico, va caricato come eredità alle nuove generazioni.
E che dire delle vere e proprie forme di schiavitù e di ricatto sistematico sul lavoro cui sono sottoposti uomini e donne? Qualche anno fa è esploso il caso di Rosarno in meridione, ma anche al nord non si scherza. In questo quaderno troverete delle situazioni tristemente esemplari in questa parte d’Italia che alzano il velo sullo sfruttamento brutale nell’ambito della raccolta dei prodotti ortofrutticoli e nelle grandi catene di distribuzione.
La rarefazione del lavoro disponibile con l’aumento della disoccupazione ufficiale che va verso il 12% in un contesto di precarizzazione diffusa, comporta la sua oggettiva svalutazione come realtà umana, dotata di intrinseco valore. La sua riduzione a semplice merce di mercato, porta con sé come inesorabile conseguenza la tendenziale scomparsa del diritto nella concretezza dei rapporti di lavoro.

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Sono almeno vent’ anni che in Italia manca una vera politica industriale e del lavoro. “Si paga caro il prezzo di venti anni di ideologia d’accatto e di politica industriale inesistente, grandi opere rimaste sulle lavagne televisive e riforme fiscali mai fatte” (Curzio Maltese, E mentre le aziende fuggono all’estero, la politica fa battute. In Il Venerdì di Republica 11 gennaio 2013, 8).
E così, in un contesto tanto confuso, continua senza sosta la fuga dall’Italia di imprese medie e piccole, l’ossatura sulla quale poggia l’intera economia italiana. E non solo, come si dice, per la ricerca ossessiva di mano d’opera a prezzi più stracciati. Infatti, dalla Lombardia si spostano anche nel vicino Canton Ticino, dove i salari sono più alti che in Italia, e in questi ultimi due anni dal Veneto se ne sono andate settecento imprese che hanno varcato il Brennero. Una parte hanno piantato le tende nella vicina Carinzia, dove il costo del lavoro non è certo più vantaggioso. Perché mai? “Cercano tasse eque, leggi chiare, incentivi alla ricerca, burocrazia efficiente, moderne infrastrutture…Chi scappa oltre il confine non lo fa soltanto per inseguire maggiori profitti, che comunque non sarebbe un reato. Nella maggioranza dei casi si tratta di scegliere se andare all’estero o chiudere e mandare a casa i lavoratori. Fuggire o morire a volte non è una metafora, viste le cronache di imprenditori suicidi” (Ivi).
Anche dal Sud si registrano fughe. Tunisia ed Egitto sono le mete preferite.
Altroché “più mercato e meno stato”, lo slogan liberista! L’assenza di una politica industriale e del lavoro rappresenta una perdita secca per i cittadini, anche di quelli che abitano nelle regioni più floride: “Basta fare un giro in macchina da Torno a Treviso, lungo la mitica Padania, per vedere i cimiteri della crisi, centinaia di stabilimenti ormai vuoti e abbandonati…” (Ivi).
Su questo fronte non si è visto nulla di nuovo anche con l’ultimo governo. Non pare che dai cospicui prelievi fiscali almeno una quota sia stata utilizzata per abbozzare una politica industriale e del lavoro. In Italia la tassazione incide molto sulla produzione, più che sulle rendite. E tutto questo ha un effetto economico e potenzialmente politico: l’abbassamento dei consumi che consegue all’impoverimento dei salari e all’incremento della disoccupazione, frena a monte anche la produzione e quindi il lavoro.
In compenso, ci si è ben guardati dal seguire l’esempio di paesi come la Norvegia, l’Australia, l’Olanda che si sono ritirati dal progetto dei caccia bombardieri F15 per i costi troppo alti, mentre il Canada ha sospeso l’adesione, rimandando la decisione a quando i test saranno conclusi e il prezzo definito. Per l’acquisto di 91 esemplari l’Italia ha stanziato attorno ai 15 miliardi. Ma il costo è destinato a salire, mentre da più parti si avanzano critiche tecniche sull’affidabilità del prodotto.
In campagna elettorale è anche uscita la notizia dell’acquisto di due sommergibili di “ultima generazione” di fabbricazione tedesca. Due battelli, come dicono in gergo, che costano quasi 1 miliardo di euro,  che sommato all’altro miliardo già speso per altre 2 unità già entrate in  esercizio e con base a Taranto, fanno 2 miliardi. Una somma pari a circa la metà di quanto gli italiani hanno dovuto  pagare di Imu sulla prima e in moltissimi casi unica casa di proprietà.
Intanto si tagliano scuola, sanità e pensioni.
Meno stato per quanto riguarda il lavoro, perché “il lavoro non è un diritto” ma più stato, con i soldi dei cittadini, quando la banche sono in crisi. E’ il caso dell’MPS, per titoli tossici e per errori di gestione. Ci sono in ballo interventi di tamponamento da parte dello stato per più di quattro miliardi.
E un’altra cosa ancora. Sembra che in Italia il 10% della popolazione controlli poco meno del 50 % della ricchezza. Sarebbe interessante conoscere l’ammontare del gettito fiscale prelevato dal 90%, in rapporto a quello versato dal 10%. Privacy permettendo.

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La Parola, il Vangelo, c’entra con tutto questo?
Negli ultimi 20 anni, dopo l’illusione di mani pulite, si è verificato un processo di decomposizione etica ancora più diffuso. Il proverbio dice che il pesce comincia a puzzare dalla testa. E’ difficile trovare un periodo equivalente nel quale in maniera così sfacciata e impudente si è deriso ogni appello etico. L’uso delle leggi è stato stravolto per la difesa degli interessi privati. Chi governava tuonava contro le tasse poi di fatto le aumentava ai soliti noti.
In questi vent’anni “la chiesa”, cioè i gerarchi che contano e parlano a nome di tutti, hanno sostenuto Berlusconi e company, fino all’inverosimile. In occasione di una campagna elettorale l’on Bondi scriveva ai parroci che il partito del suo capo era guidato dalla dottrina sociale della chiesa. Non risulta che dei vescovi siano insorti o abbiano obiettato. E l’Osservatore Romano pubblicava un articolo nel quale si sosteneva che il neofondato partito del popolo della libertà era quello che meglio rappresentava i valori cristiani.
Quando la misura è stata colma, mentre il mondo intero rideva e non c’era più alcuna via di uscita per l’unto del Signore anche il capo della Cei e il Vaticano si sono decisi a staccare la spina.
Ora i gerarchi che contano si sono convertiti a Monti che naturalmente non manca di fare le sue comparse in S. Pietro e di posare accanto a cardinali. E la storia continua…la stessa storia. Anche se non possono non constatare che «la condizione di indigenza» del Paese «è sotto gli occhi di chi vuol vedere» e «si va obiettivamente allargando» (card. Bagnasco).
Possibile che mai, a quei livelli, si senta il dovere di fare un minimo di autocritica, mai che ci si autodenunci come sentinelle addormentate, se non complici? Mai che nessuno si decida a ritirarsi nel deserto per 40 anni a pensare, riflettere e interrogarsi su che cosa dice il vangelo oggi??
Che in questo ventennio molte coscienze abbiano obiettato, con sincero amore per la fede cristiana, non fa problema perché “invece che puntare sulla formazione delle coscienze, si è cercata una strategia mediatica affine a quella di Berlusconi pensando «che il cristianesimo potesse tornare ad essere un fenomeno di massa […] E adesso la Chiesa cattolica in Italia, forgiata da quella illusione irrealistica, si trova a pagare la fattura di questo fallimento»”. Giancarlo Zizola continua l’intervista riassumendo questo lungo periodo storico: «E’ sotto la presidenza di Ruini che si è aperto un ciclo politico che io chiamo ‘avignonese’ e ‘simoniaco’ della Chiesa cattolica in Italia…Mai la Chiesa cattolica è stata così ‘bene’ dal punto di vista materiale». Riprendendo il pensiero di Rosmini espresso nel suo libro Le cinque piaghe della Santa Chiesa aggiunge ancora: «Una di quelle piaghe era la servitù dei beni ecclesiastici: Rosmini diceva che solo una Chiesa povera è una Chiesa libera che le servitù dei beni ecclesiastici finiscono per vincolare, per mettere la museruola alla Chiesa»”. Rosmini l’hanno fatto beato, ma chi si ricorda di queste sue parole?

La citazione è in Ferruccio Pinotti e Udo Gümpel, L’unto del Signore (Milano 2009, passim 213-220). Nello stesso libro (pag. 207) troviamo l’intervista di don Albino Bizzotto che affermava: “Oggi i rapporti a livello di potere sono appannaggio di un gruppo molto ristretto di persone con interscambio e confusione di ruoli e interventi tra Vaticano, Papa e presidenza della Cei. La Chiesa, con questa concezione religiosa, resta nel contesto del pensiero unico in cui il denaro rappresenta la vera Provvidenza e conta di più di ogni altra cosa, per fare il bene…E così il Vaticano fa ‘mercato aperto’ con Berlusconi, mercato per il potere, con estremo danno per la nostra nazione. Il Paese è oggi diretto da una concezione aziendale, nella quale l’orientamento è senz’altro quello di far girare il mercato piuttosto che rispettare i diritti delle persone, distribuendo le risorse anche ai più poveri”.

Quello che manca nella Chiesa italiana è la capacità di pronunciare in maniera autorevole e libera la parola del Vangelo. La parola è incatenata e solo l’opzione decisa per una Chiesa povera, “in faccia a tutti i popoli” e in Italia in particolare, che assuma la profezia di Papa Giovanni XXIII all’apertura del Concilio, potrà veicolarla e liberarla.

Un mese prima dell’inizio del Concilio, l’11 settembre 1962, Giovanni XXIII nel messaggio radiofonico indirizzato ai fedeli di tutto il mondo affidava al Concilio il compito di aprirsi al mondo, di trovare un linguaggio teologico appropriato, di dare testimonianza di una chiesa dei poveri. Questo terzo punto così viene espresso: “Altro punto luminoso. In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta quale è, e vuole essere, come la Chiesa di tutti, particolarmente la Chiesa dei poveri”.
Nel discorso di apertura del Concilio, l’11 ottobre 1962, Papa Giovanni così, in una sintesi mirabile, ne delineava un tratto fondamentale: Al genere umano, oppresso la tante difficoltà, essa, come Pietro al povero che gli chiedeva lelemosina, dice: «Io non ho né oro, né argento, ma ti do quello che ho: nel nome di Gesù Cristo Nazareno levati e cammina» (Documenti. Il Concilio Vaticano II, Bologna 1966, 985-986 e 996-997.

Ascoltiamo Yves Congar, uno dei teologi del Concilio “Se la Chiesa nella sequela e per la virtù del Cristo, è il sacramento della salvezza per il quale il Cristo medesimo è stato mandato, se tale è il contenuto della missione che le è propria, l’incontro con i pove­ri e con la povertà è il cuore di questa missione: essa deve andare incontro ai poveri e alla povertà, a somiglianza di Gesù che è andato ai poveri e alla povertà, abbrac­ciando questa per salvare quelli” (cit. in Corrado Lorefice, Dossetti e Lercaro. La Chiesa povera e dei poveri nella prospettiva del Vaticano II, Milano 2011, 228).
Non si tratta di fare “un po’ di più per i poveri”, ma di convertirsi verso una chiesa povera, in tutte le sue articolazioni. come condizione, per far emergere la forza del Vangelo. In realtà la stessa dizione “chiesa povera” è stata di fatto messa all’indice in questi decenni, proprio nel tempo in cui è apparsa su scala planetaria la disumanità del dominio del denaro.
Concludo richiamando una sintesi dell’autore sotto citato, del pensiero di Giuseppe Dossetti manifestato esattamente 60 anni fa, nel quale sottolinea la connessione tra crisi del vivere civile e le deviazioni di fondo presenti nel mondo cristiano cattolico.
“Le ragioni della «catastroficità sociale della situazione civile», a livello mondiale e non soltanto a livello italiano, venivano individuate dall’ex parlamentare nella «criticità del mondo ecclesiale» dovuta «a un certo modo cristiano cattolico di intendere il cristianesimo e di viverlo, […] attivistico e semipelagiano». Una Chiesa autoreferenziale, chiusa in se stessa, non concentrata sull’Evangelo, incapace di ripensarsi a partire dall’Evangelo e di comunicarlo (condividerlo) agli uomini di questo nostro tempo” (Ivi, 103. Su questo punto mi ero più ampiamente diffuso nell’editoriale n. 92-93 del 2011).

Roberto Fiorini


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