Testimonianze


 

1) Ho cominciato a lavorare in fabbrica nel 1971, con una forte caratterizzazione clericocentrica, che solo ora sono in grado di riconoscere. Tutto sommato, anche gli atteggiamenti più spiccatamente dialettici nei confronti dell’istituzione (ricordo il forte impegno anticoncordatario) nascondevano il desiderio della riforma della struttura e, nella Chiesa, del sacerdozio. La carica missionaria che mi animava non era un vero “andare”. Tra le varie trasformazioni avvenute in me, si è verificato, e continua a verificarsi, un profondo mutamento del mio essere prete.
E’ stato il diverso rapporto con il denaro, la quotidiana vicinanza con i miei compagni di lavoro e la condivisione dei loro problemi, anche “religiosi”, il poter infine guardare alla Chiesa da lontano, che mi hanno permesso di liberarmi da ogni latente integrismo, che a me sembra ormai cosa del passato.
Oggi mi rendo conto che il mio impegno sindacale e sociale possono essere maturi e incisivi solo se concretizzati sulla base della laicità.
Ciò mi domanda di agire innanzitutto in risposta alla mia sensibilità (che sa cercare spazi e strumenti di lavoro) ed in secondo luogo partendo dalle reali urgenze politiche che si conoscono e affrontano solo dietro a costanti analisi e senza nessun dogmatismo. Per me prete di parrocchia non poteva essere così, poiché la religione era una necessità ed un valore assoluto e totalizzante. In qualche modo il mio nuovo punto di riferimento è la vita, con le sue logiche e le sue esigenze, cui anche il fenomeno “religione” deve sottomettersi.

2) La logica della vita si sviluppa su binari diversi da quelli della istituzione. Non riconosciuto come prete dalla struttura ecclesiastica, perchè operaio, che significato poteva e può avere il mio sacerdozio?
Per me oggi non è più concepibile il fatto che il sacerdote in quanto tale sia l’uomo che conosce Dio, solo per il fatto che un Vescovo gli ha imposto le mani.
Per questo fatto egli sarà semplicemente il funzionario di una gerarchia. Non si è maestri di Verità solo se si è studiosi di alcune verità: bisogna averla cercata ed esserne stati illuminati; averla in qualche modo intuita.
Ma, per opposto, chiunque in qualsiasi modo abbia sperimentato un frammento di Dio, può essere sacerdote se aiuta un singolo od una comunità alla vigilanza, a creare le condizioni per l’incontro. Solo questo gli è permesso di fare, poiché chi attinge alle sorgenti del Vero capisce contemporaneamente che non esistono leggi che regolino il rapporto uomo/Dio: l’appuntamento è totalmente gratuito e indipendente dalle nostre condizioni, gesti e segni codificati. E’ totalmente personale e perfino la comunità, da sempre indicata come il luogo privilegiato dell’incontro, può diventare ostacolo. Certamente il sacerdote che pretendesse di porsi come mediatore rappresenta un ostacolo. Poiché il Mediatore è uno solo e tutti gli altri devono farsi piccoli e scomparire, come Giovanni il Battezzatore, per non togliere a nessuno la possibilità dell’incontro.
E’ forse da qui che potrebbe riacquisire significato il mio essere prete (una conquista sul campo), poiché è da qui che parte il discorso sulla novità del popolo sacerdotale e sul superamento del sacerdozio antico, araba fenice anche dei nostri tempi. Da questo sacerdozio antico non mi sento del tutto liberato e me lo sento pesare sulle spalle quando mi ritrovo all’interno dei pochi spazi clericali, che tuttavia utilizzo sforzandomi (ma ci riesco?) di pagare alla gente semplice il grosso debito della restituzione del diritto all’incontro con Dio. E se il mio ruolo servisse solo a riperpetuare vecchi schemi di mediazione?
Poiché la Chiesa ha fatto di Dio un oggetto posseduto da pochi e concesso al popolo, comunque cosa da consumare e non esperienza da vivere. E del messaggio di Cristo, proposta invivibile nella sua radicalità, un leggero manuale di norme morali.

3) A livello delle certezze in cui credere, sento crescere la mia povertà. Con l’aprirsi degli orizzonti, gli interrogativi crescono anziché diminuire. E forse la spogliazione è ancora lontana. Tuttavia questo continuo impoverimento lo vivo con estrema serenità e come progressivo avvicinamento all’essenziale. Mentre mi lascio interrogare da quanto mi capita attorno e dentro di me, vivo alcuni segni del mio futuro:
a) sento che la mia ricerca deve essere più seria, che non posso nascondermi dietro la routine clericale del mio passato: Dio è sempre più in là, l’inafferrabile; Cristo, il volto umano del Padre, è parola sempre equivoca, segno muto se non sgorga dalla pienezza dell’incontro, come del resto i segni della storia, la gente umile e normale, i miei compagni di lavoro.
b) I problemi radicali, quelli che pongono le domande di fondo, sono i problemi di tutti, anche delle persone che non riescono ad esplicitarli, perché sono i problemi dettati dal bisogno di senso del nostro essere e del nostro agire. Qui il credente e il non credente si trovano uno accanto all’altro, nudi. Dentro a tali problemi si pone l’interrogarsi su Dio e l’interrogare Dio.
c) Dalla sintonia con le persone che cercano nasce un nuovo popolo, fatto di gente che non “appartiene” a nessuna struttura o che, pur essendo “di parte”, non si lascia ingabbiare da schemi rigidi e sicurezze. Di gente che rischia perché non c’è alternativa, che cerca perchè spera. E la sintonia crea condivisione, crea appunto “popolo”.
Forse si intravvede il senso della profezia:

“Verrà giorno in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità.” (Giovanni 4, 23-24)

Gianni Manziega


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