Il Vangelo nel tempo
Con crescente disagio assistiamo alla trasformazione del Giubileo – straordinaria intuizione biblica (Lv 25,8-17) che affonda le radici nella fede in un Dio liberatore e unico dominus della terra, del tempo e dell’uomo – in un grande spettacolo, che rischia di tradirne il senso, e in un grande affare che, anziché essere occasione per “annunciare ai poveri un lieto messaggio” (Lc 4,18) diventa un lieto messaggio per gli operatori turistici, gli impresari edili, gli albergatori, i negozianti e… i furbi, mentre la gente di strada constata: “Ma quanti miliardi vengono spesi per l’Anno Santo? E da dove viene fuori tutto quel denaro?”.
Chi nutre qualche perplessità non ha il coraggio di parlare, nel timore di essere tacciato come “il solito contestatore” ormai fuori moda, imperando la più totale omologazione. Le chiese dovrebbero essere luogo/annuncio di una fraternità inedita (Gv 17,93), ma può esistere una fraternità senza quella comunicazione e quel confronto, che, unici, permettono ai singoli di diventare famiglia?
Ci piacerebbe che emergesse un salutare dibattito fra i credenti, tale da permettere all’evento giubilare di diventare la voce di una chiesa che sempre di più si riconosce umile discepola del Maestro, in atteggiamento di vero servizio, nei confronti del “mondo” di cui pure è parte, nel bene e nel male. Per questo, coscienti dei nostri limiti e delle nostre incoerenze ma animati dal desiderio di conversione e dalla responsabilità che condanna chi finge di non “vedere” (Mt 13, 15), invitiamo al dialogo i fratelli nella fede, tentando alcuni spunti di riflessione. E se errato è il nostro sentire, troveremo chi fraternamente ed evangelicamente ci vorrà correggere?
1. I poveri
L’annuncio dell’Anno di grazia, nelle parole stesse di Gesù (Lc 4,18), reca la gioia ai poveri: ad essi, infatti — scelti come popolo dei salvati e segno di salvezza per tutti i popoli della terra (Sof 9,13) — appartiene il regno di Dio (Lc 6,20). La stessa chiesa, a motivo della sequela del Cristo Signore che “da ricco che era si è fatto povero” perché noi diventassimo ricchi “per mezzo della sua povertà” (2 Cor 8,9), deve farsi segno povero in mezzo agli uomini. Al mendicante che ci chiede l’elemosina non siamo più in grado di donare autonomia e dignità, annunciando come Pietro “Non possiedo né oro né argento, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!” (At 3, 6). Che vuol dire oggi poter dare un tale annuncio? Si tratta di “cose passate”, semplicemente edificanti?
Si impone, crediamo, un serio ripensamento sulla povertà evangelica a noi che viviamo, anche come comunità di credenti, all’interno della società del benessere, e che ne abbiamo accolto le comodissime conseguenze. Ma come può la chiesa diventare annuncio di gioia per i poveri della terra se non si fa loro compagna di strada scegliendo la povertà, sentendosi invece appagata nel dar loro assistenza? Essa è ricca di strutture, di prestigio, di sicurezza economica; gli stessi sacerdoti con lo stipendio garantito e l’otto per mille sono ben lontani dal “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio…” (Mt 10,8-10). E lo spazio della profezia lentamente si eclissa:
l’autoaffermazione toglie all’uomo la possibilità di testimoniare la vita e di viverla in pienezza (Lc 10,39).
C’è poi la povertà come scandalo (Gc 5,1-6): chi ama i fratelli non può restare indifferente di fronte alla sofferenza e alle tragedie che colpiscono interi popoli. La chiesa non ha progetti politici da proporre,ma come non pensare che proprio il primo mondo, il mondo cristiano, promuove e sostiene un’economia mondiale che arricchisce pochi e abbandona molti nella miseria totale, creando le condizioni per sempre nuove guerre, da cui trarre ulteriori vantaggi? La stessa chiesa è poi estranea a queste logiche, al di sopra delle parti? I credenti, mentre nell’impegno nella politica sono chiamati a cercare risposte globali di giustizia nel rispetto dei diritti di ogni singolo e di tutti i popoli assieme a tutti gli uomini di buona volontà, singolarmente dovrebbero ridimensionare drasticamente i consumi, seguendo una regola di vita povera impostata sull’austerità, coscienti che il sovrappiù di chi possiede è sottratto al poco o nulla di chi è affamato (cfr At 4,34-35). Se questo si facesse, non sarebbe cosa da poco
2. Ricostruire la chiesa
Francesco d’Assisi, in risposta alla pressante richiesta di “restaurare la chiesa”, corse a prendere mattoni e calce. Ma il Signore non parlava della chiesa di pietre, destinata a sparire (Mt. 24,2), bensì di quella fatta di uomini e donne.
È disorientante constatare il fervore con cui ci si appresta all’evento giubilare restaurando le strutture. Non è questa l’occasione per ripensare la chiesa in ordine al Regno di Dio? Se essa è semper reformanda, quale riforma si impone oggi? Tra le molte possibili, ecco alcune indicazioni:
• Tutto è di Dio, tutto è regolato dalla sua Parola. La chiesa “giubilare” deve dare spazio alla Parola del Signore e allo Spirito promesso ai discepoli da Gesù per guidarli “alla verità tutta intera” (Gv 16,13). L’accentuazione dell’aspetto istituzionale mortifica il primato della Parola e impedisce allo Spirito di “insegnare ogni cosa” (Gv 14,26). Su questo versante i fratelli della chiesa riformata ci hanno preceduto, e prezioso poteva essere il loro contributo nel progettare ili Giubileo del 2000: è stato un errore non coinvolgerli, facendo riferimento al tema delle indulgenze, frutto di una visione giuridica della salvezza, tutta da ripensare alla luce del primato della grazia e della divina libera iniziativa d’amore (1Gv 4,10).
Come ridare nelle nostre comunità – spesso esaurite nella sacramentalizzazione – il primato alla Parola e allo Spirito?
• Liberare le potenzialità presenti nella comunità, ridimensionando il ministero ordinato a vantaggio del sacerdozio di tutti i battezzati. In qualche modo la proclamata “liberazione dei prigionieri” ci richiama alla necessità di dare spazio e voce, dignità piena a tutti i laici, in particolare alle donne, ancora marginali nella chiesa. Non è vero che la chiesa è diventata “popolo di Dio” solo perché lo ha sancito il Vaticano II.
• Ma di altre “schiavitù/esclusioni” dovremmo farci carico: i divorziati risposati, i preti sposati, le famiglie di fatto, gli omosessuali… Le risposte ai molti drammi devono essere cercate a partire dalla concretezza delle situazioni, più che dalle leggi. Ce lo insegna il Maestro: “Io voglio l’amore e non il sacrificio” (Os 6,6): non bisognerebbe pensare più alle persone e meno alle strutture e ai ritualismo?
3. Condono / perdono
L’aspetto biblico del Giubileo più accentuato oggi è quello del condono, ma visto tutto dal punto di vista spiritualistico/individuale. Si tratterebbe cioè di approfittare dell’Anno Santo per riconciliarsi con Dio. E questo, per la verità, è il cuore di tutto il discorso. Ma se la conversione è solo interiore, si tradisce il concetto di riconciliazione e si dimentica il significato del Giubileo, che invita a restituire la terre, a rimettere i debiti, a riscattare le proprietà. Di fronte al dramma del debito estero dei paesi poveri della terra (ma di fatto, anche se nessuno, lo dice, sono essi creditori nei confronti dell’Occidente che ha saccheggiato e saccheggia i loro territori: materie prime, monocolture imposte, economie capestro…) si impone una soluzione in linea con il condono, e con il progetto di un piano economico basato sull’equità, la solidarietà internazionale, ma anche sulla programmazione di uno sviluppo sostenibile, che inevitabilmente mette sotto accusa i paesi ricchi.
Giovanni Paolo II, a questo proposito, ha ripetutamente invitato gli Stati a prendere adeguate decisioni. Ha altresì, coraggiosamente, invitato la chiesa tutta a chiedere perdono per gli errori commessi.
Nella linea proposta dal papa, ci sembra importante far notare che una chiesa profetica sa leggere il presente, sa individuare gli errori del presente e non solo quelli del passato, sa riconciliarsi con gli esclusi di oggi e non solo con quelli di ieri. A noi sembra un peccato la strenua difesa delle “cose” cattoliche alternative allo Stato: la scuola, gli strumenti di comunicazione, la sanità, i consultori… Non dovrebbe, la fede del credente, essere lievito nella farina? (Mt 13,33).
4. Il pellegrinaggio
Attraverso il pellegrinaggio che contrassegna il Giubileo cristiano dalla sua origine (anno 1300), Bonifacio VIII intendeva riaffermare la centralità di Roma e la superiorità spirituale del papato mentre decadeva la sua potenza politica. Forse nel medioevo poteva avere un senso il camminare per giorni verso il santuario; non oggi, visto che i pellegrini arrivano in aereo o in comodi autobus. Stiamo prendendo coscienza che il vero pellegrinaggio è il seguire Gesù il Maestro come unico Signore, il farci umili discepoli. Sarà il camminare sulle sue orme che aprirà l’altro versante del pellegrinaggio: andare verso i fratelli più deboli non da luogo a luogo, ma da persona a persona. Ciò può e deve avvenire negli spazi della quotidianità: perché non affermare questo, dichiarando chiuso il turismo spirituale di massa che crea equivoci ed intralcio ad una retta comprensione dell’Anno Santo?
Ad un altro drammatico pellegrinaggio, piuttosto, stiamo assistendo: popoli interi si stanno spostando dai paesi della fame e della guerra ai paesi ricchi cercando disperatamente il diritto alla sopravvivenza. Come la chiesa può rendersi disponibile ad accogliere il Figlio dell’uomo nel forestiero? Quante strutture, case, edifici, patronati ormai vuoti potrebbero essere offerti per l’ospitalità, come forma di “restituzione”. Certo, ciò non porterà gli incassi previsti per l’alloggiamento ai pellegrini di passaggio verso Roma, ma impedirà di cadere nella condanna minacciata da Gesù a tutti coloro che praticano le opere buone per ottenerne un vantaggio: “Hanno già ricevuto la loro ricompensa” (Mt 6, 2).
Luciano Bano, Corrado Brutti, Emilio Coslovi, Mario Faldani, Lidio Foffano, Luigi Forigo, Gianni Manziega, Luigi Meggiato, Sergio Pellegrini, Gastone Pettenon, Giancarlo Ruffato, Antonio Uderzo,
pretioperai del Veneto