Il vangelo nel tempo
Leggo la Scrittura con occhi che cercano di mettere a fuoco uno sguardo capace di coniugare passione e disincanto. Questo tipo di sguardo è particolarmente attento a cogliere un filo rosso “tragico” lungo l’intera narrazione biblica. Ne emerge una fede paradossale, che prova a tenere insieme la parola salvifica e le smentite storiche. Essa si differenzia da una fede “sapienziale”, capace di scovare ovunque le tracce di un senso e, dunque, di giustificare l’esistente, di armonizzarlo. La fede tragica contesta lo sguardo del sapiente non perché non condivida la sua sete di senso ma perché la realtà le appare incapace di spegnere quella sete, non all’altezza di quanto promesso.
E tuttavia, c’è una sapienza di cui anche chi legge la Bibbia in modo tragico ha bisogno. Una necessità, a mio giudizio, vitale, dal momento che lo sguardo tragico rischia di consumarsi nella sua struggente passione senza avere la forza di indicare passi concreti da muovere anche nella terra del disincanto.
Mi sembra che il libro di Qohelet possa rivelarsi prezioso in questo senso. Letto normalmente come enfant terrible tra i libri biblici, come presa di distanza dalla più tranquilla sapienza ortodossa e, dunque, come messa in crisi di tale sapienza (vocazione che condividerebbe con il libro di Giobbe), Qohelet può essere meglio letto come “sapienza della crisi”, capace di parlare quando tutto viene meno e su quanto avevamo fatto affidamento cala l’ombra dell’inconsistenza.
La sapienza di Qohelet sorge come frutto maturo dopo un coraggioso processo di decostruzione. Un processo dal sapore teatrale: viene rappresentato uno spettacolo nel quale il protagonista si presenta con la maschera regale. Annunciata da subito nel titolo: Parole di Qohelet figlio di Davide re in Gerusalemme (1, 1); e prontamente indossata sotto gli occhi di tutti: Io, Qohelet, sono re su Gerusalemme… (1, 12ss).
Che si trattasse di una finzione doveva essere evidente per chi lo ascoltava: da secoli in Israele non c’era più un re. Per il lettore, invece, vale l’indicazione in 12, 9ss: “Oltre ad essere saggio, Qohelet insegnò anche la scienza al popolo; ascoltò, scrutò, editò letteratura in quantità. Cercò Qohelet d’inventare parole positive, una scrittura accurata, parole di verità. Come pungoli le parole dei saggi, come paletti piantati le raccolte di autori, date da un unico pastore…”
Dunque Qohelet è un sapiente che si finge re. Perché una tale finzione? Certo qui assistiamo alla satira nei confronti degli imperatori del tempo. Le parole del nostro saggio suonano come ironiche, se confrontate con le iscrizioni regali dell’Antico Vicino Oriente, con le quali i sovrani si autocelebravano consegnando a futura memoria tutte le loro inedite ed insuperabili imprese. Ma la maschera regale prende di mira ogni uomo col suo desiderio di onnipotenza. In scena è posto quel sogno narcisistico che normalmente non viene spudoratamente esibito bensì custodito nel proprio cassetto segreto. Il re, infatti, è colui che può fare tutto quel che vuole (Qoh 8, 2-4) e ciascuno di noi vorrebbe sperimentare questo delirio d’onnipotenza, misurarsi con l’insaziabilità del desiderio, arginato fin dall’infanzia con il noto detto: l’erba voglio non cresce neanche nel giardino del re!
Qohelet mette dunque in scena tale desiderio, facendo della sua finzione uno specchio per ogni lettore. Leggiamo il testo: Qoh 1, 12- 2, 26 (traduzione di R. Vignolo):
Io Qohelet sono re su Israele in Gerusalemme
e sapientemente mi dedico a cercare, a scrutare
ogni impresa che si fa sotto il sole,
compito duro questo che Iddio assegnò in dono agli uomini per farceli sfiancare.
Ogni impresa ho visto sotto il sole
ed ecco tutto un soffio e fame di vento.
Quel che è storto drizzare non si può
e nemmeno contare ciò che manca.
Mi dico: eccomi più grande e più sapiente
di quanti prima di me sopra Gerusalemme furono re,
tanto godo di conoscere e sapere,
totalmente dedicato a scoprire sapienza e follia e idiozia.
Ma ora so che anche questo è fame di vento,
poiché: più sai, più soffri; cresce il sapere, cresce il dolore.
Dai, mi dico, prova con la gioia, godi ogni bellezza.
Ed ecco, anche questo un soffio.
A chi ride dico: “matto!”. A chi è contento: “ma che fai?”.
Penso in cuor mio di trattarmi con il vino
ma di guidare la sapienza controllando la follia
per vedere il bello dove sia
per gli uomini occupati sotto il sole nei giorni contati della vita.
Ingrandisco le mie imprese
case mi edifico, vigne mi pianto,
giardini e parchi mi apro, ci pianto ogni albero da frutto;
bacini d’acqua mi costruisco per irrigare il mio rigoglio d’alberi;
compro schiavi e schiave, servi nati in casa possiedo,
bestiame grosso e minuto tantissimo
più di tutti prima di me in Gerusalemme;
oro e argento ammasso per me, tesori di re e di province;
di cantanti e cantori mi circondo – delizia della gente –
e di donne belle, bellissime.
Più di quelli prima di me in Gerusalemme
m’ingrandisco, progredisco.
Sempre mi assiste questa mia sapienza
quando ai miei occhi nulla rifiuto,
mai negando al mio cuore gioia alcuna.
Ecco, il mio cuore di ogni mia fatica gioisce:
questa la mia parte d’ogni mia fatica.
Ma poi riguardo io
ogni impresa di mia mano intrapresa, ogni fatica penata ed attuata,
ed ecco: tutto questo un soffio, fame di vento; nessun guadagno sotto il sole.
Allora provo a riguardare bene sapienza, follia e idiozia.
Il successore del re che cosa fa? Soltanto quello che fu fatto già.
E vedo allora io il guadagno della sapienza sull’idiozia,
come il guadagno della luce sulle tenebre:
l’uomo saggio ha gli occhi in testa, il cretino avanza sempre al buio,
Ma io so pure: stessa fine finisce entrambi.
E concludo in cuor mio che la fine del cretino farò anch’io.
E allora: perché farmi saggio? Che ci guadagno io?
E mi dico in cuor mio: un soffio pure questo,
niente più ricordo del saggio e del cretino per sempre,
presto tutto in oblio.
Ma come?! Anche il saggio muore con il cretino?
E odio la vita: sciagura per me ogni impresa, fatta sotto il sole,
poiché tutto è soffio, fame di vento.
E odio ogni mia fatica che peno sotto il sole,
se devo lasciarla a uno che viene dopo di me.
Chissà se sarà capace o cretino.
Certo di ogni mia fatica sapiente
penata sotto il sole dispone lui
– assurdo anche questo.
Di nuovo mi esaspero in cuor mio
per tutta questa mia pena sotto il sole,
poiché uno si affatica con capacità, competenza e successo
e poi cede la sua parte ad un altro che non ha faticato:
anche questo un soffio, gran sventura.
Ma cosa resta a uno di ogni fatica ed angoscia del suo cuore
penata sotto il sole?
Tutti i suoi giorni sofferti, triste la sua ansia.
Neanche di notte il suo cuore riposa: anche questo un soffio.
Nulla di meglio allora per l’uomo che mangiare e bere
e in ogni fatica soddisfarsi.
Ma questo io vedo venire dalla mano di Dio:
chi infatti potrà mai mangiare e gioire senza di Lui?
Però:
“All’uomo buono ai suoi occhi Lui dona sapienza, scienza e gioia,
mentre a chi sbaglia dà pena di raccogliere e ammassare
per darlo a chi è buono davanti a Dio“.
Ma anche questo è un soffio e fame di vento.
In questo testo, che potrebbe essere definito il diario di un sapiente mascherato da re, Qohelet mette in scena l’eccesso nelle sue diverse manifestazioni: l’homo sapiens, l’homo ludens, l’homo faber, l’homo oeconomicus… Ma tutto ciò che normalmente viene visto come indicatore di successo appare come un vano soffio di vento, se considerato alla luce della morte. È quest’ultima, accanto al cuore, la vera protagonista della scena allestita da Qohelet. È lei, livella di ogni differenza, che fa cadere la corona e la porpora regale. Una presenza scomoda, normalmente assente dalle altre riflessioni sapienziali sulla vita umana presenti nella Scrittura. Si pensi al Salmo 8, nel quale l’essere umano è considerato poco meno di un Dio: qui non si sente il peso dello stare sotto il sole, bensì l’esaltazione di chi ha tutto sotto i propri piedi. Uno sguardo di stupore sulla condizione umana possibile solo al prezzo di rimuovere il negativo. Qohelet non lo rimuove; decide di nominarlo nella sua massima espressione, la morte, e di renderlo criterio di verifica delle diverse aspirazioni umane. Tutto appare vano, alla luce della morte: la vita stessa diviene oggetto di odio. Viene rappresentata la depressione di chi sperimenta che niente tiene e, come Elia e Giona, preferirebbe morire; di chi si ritrova dissanguato e senza forze a causa delle ferite narcisistiche inferte dalla sorte.
Se è toccato al re decostruirsi, allora toccherà anche agli altri. Ma costruzione e decostruzione dell’io regale non sono esibite da Qohelet per affermare l’assurdità della vita bensì per ridimensionare il desiderio e ricalibrare la bussola esistenziale. Infatti c’è qualcosa che si sottrae alla vanità delle pretese regali, un piccolo zoccolo duro positivo:
Nulla di meglio per l’uomo che mangiare e bere
Ma questo io vedo venire dalla mano di Dio.
Si può tener fisso lo sguardo sulla scena tragica della storia e contemporaneamente avere un cuore che, nonostante tutto, sappia gustare le piccole gioie che al vita offre? Si può gridare a Dio e lottare strenuamente contro l’ingiustizia e, allo stesso tempo, cantare e godersi quegli spiragli di serenità che si lasciano intravedere anche nelle tenebre?
L’immensa forza del negativo, che per lo più paralizza o spinge ad una lotta disperata contro il male che affligge, potrà mai consentire il maturare di una sapienza ironica e propositiva, capace di indicare stili di vita e passi concreti da muovere non in alternativa alla imprescindibile lotta di resistenza ma su un fronte al tempo stesso più ampio e più parziale, quotidiano?
E ancora: quanto i nostri progetti di cambiamento si rivelano deliri di onnipotenza da decostruire e quanto, invece, sono espressione di un amore per la vita che non viene meno neppure in tempo di crisi?
È veramente possibile coniugare il tragico con l’ironico ed il sapienziale? O succede che la rabbia non permetta il distacco (auto-) ironico; il disincanto azzeri l’impegno militante; e la saggezza divenga inevitabilmente atteggiamento di ottimistico buon senso, incapace di fare i conti con l’abisso del male?
Sono domande che mi sorgono dopo aver assistito alla mascherata di Qohelet. Uno spettacolo, forse, più convincente nella sua pars construens per la tenacia con la quale salvaguarda un apprezzamento sapienziale della vita nella chiara consapevolezza della crisi. Meno convincente, mi sembra, la sua pars destruens: non sono immediatamente convincenti per chi è a pancia vuota le considerazioni sulla vanità fatte da chi, in quanto re, ha potuto sperimentare tutto! Se è vero che la morte livella ogni differenza sociale, la vita, al contrario, le pone in primo piano e da esse fa dipendere condizioni di vita, sguardi sulla realtà, giudizi di valore estremamente differenziati. Sicuramente, assumendo la maschera dello schiavo al posto di quella regale, Qohelet avrebbe recitato un copione assai diverso, con differenti considerazioni sulla crisi e l’inconsistenza del reale…
E tuttavia, pur nella diversità di scenari, nella consapevolezza della distanza tra il mondo di Qohelet ed il nostro, vale la pena assistere e coinvolgersi nello spettacolo che ci propone e, conseguentemente, interrogarci su quale sapienza della crisi sia possibile elaborare e tentare di vivere ai nostri giorni, quando la tentazione della resa cinica e disperata sembra essere l’unica parola da ascoltare…