Il vangelo nel tempo


 

Prima parte di una meditazione sulla pace
di Giordano Remondi, monaco di Camaldoli

 

“Grande è la pace, poiché il nome del Santo,
benedetto Egli sia, significa pace”
(Sifre Nm 6,26 §42 – commento rabbinico)

“La pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza,
custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù”
(Fil 4,7)


Nella Bibbia il termine ebraico shalom indica una prospettiva molta vasta con almeno tre significati: prosperità, armonia, salvezza. Si può dire che la Bibbia tutta intera sia pervasa dallo shalom, fino al punto che, alla fine, la pace può essere intesa anche come il nome stesso di Dio, il quale ci attende per la nuova “città della pace” (Gerusalemme). Ma va detto subito che ne saremo cittadini soltanto se saremo stati uomini e donne di pace qui sulla terra, in questo tempo, cioè se cercheremo di costruirla mentre l’aspetteremo come dono pieno. Vedremo come lo shalom è già un dono di Dio che “sorpassa ogni intelligenza”, nel senso che va oltre la possibilità di aspettarlo, prima, e praticarlo, poi, secondo le categorie ordinarie. Tuttavia la pace non è, come vorrebbero taluni, così “al di fuori” della portata umana da non essere nemmeno concepibile tentarla in questo mondo, ragion per cui non ci resterebbe che attenderla per l’ultimo giorno…
Questo per mettere subito in chiaro qual è la mia chiave di lettura. Ed essendo il nostro un ritiro e non un seminario biblico sulla pace, cercherò di far vedere, in forma divulgativa, la convergenza dei tre significati del termine shalom. Si vede già come la Bibbia parla sempre la lingua più adatta alla cultura umana, e proprio lo shalom, come pure l’arabo salam, è uno dei termini più ricchi, o forse il più ricco, sia per legare strettamente fede e opere in chi già crede, sia per riconoscere il massimo valore umano che fa stare insieme.
Prima di tutto, perché il termine shalom ha tanti significati che non sono equivalenti? Il motivo è che una lingua molto concreta come quella semitica mette in luce nello shalom l’aspetto positivo che c’è (o manca), piuttosto che quello negativo a cui si contrappone. Allora la pace, prima di tutto, non è assenza di guerra, non è nemmeno la “calma relativa”, o un periodo durevole di “tranquillità” (più consono al termine greco eirene). Né può essere ridotto ad un “intervallo” tra due guerre, una tregua fissata da un armistizio pattuito (talvolta imposto con la forza, insito nella pax imperiale romana…), ed è proprio questo significato di “accordo” o “trattato” che passa nelle lingue neolatine, mentre il germanico Friede ha la stessa radice di “amicizia” (Freundheit) e “libertà” (Freiheit). Con un po’ di sforzo, possiamo trovare nella Bibbia tutti questi significati, che però non sono i principali, anche se poi è logico che noi dobbiamo tradurli nel linguaggio del nostro tempo.
Da che cosa dipende la ricchezza del termine semitico shalom, derivante dal sumerico e dall’accadico? C’è un’idea-madre da cui derivano tutte le altre caratteristiche: completezza, o compiutezza o integrità. Allora, se manca qualcosa o addirittura ci sono ostacoli o, peggio, si agisce nella direzione contraria, si dice: “Non c’è shalom”. Sorge subito spontanea la domanda: in quale prospettiva si avverte la mancanza di pace? Si può aspirare alla completezza solo in una prospettiva di fede, quella in cui mi colloco? La domanda è giustificata, perché tutti, credenti o no, ci sentiamo limitati, o incapaci di mantenere le promesse, o così cattivi, talvolta, che sprechiamo il meglio di noi stessi. Ci diciamo spesso gli uni agli altri che basterebbe essere più ragionevoli e accontentarci di un po’ di pace in mezzo a tutte le tragedie che ci sono. Anzi, per qualcuno proprio le religioni le hanno fomentate, tutte, più o meno. Lasciando da parte questa triste storia, mi concentro su quello che è più adatto alla meditazione.

 

Prosperità, armonia e salvezza in Cristo Principe di pace

1. Prosperità

Nella Bibbia l’uomo e la donna sanno fin troppo bene di essere limitati, oltre che cattivi e peccatori, ma non si rassegnano e, paradossalmente, “non si mettono il cuore in pace”… Un conto è rimanere inerti nella delusione, un conto è, con la coscienza del limite, cercare di superare la situazione di disagio per tentare di “star bene” al mondo, dal momento che non è bene crogiolarsi nella mancanza di qualcosa che fa “star male”. Certo, tale mancanza sarà accettata come prova, come momento critico ma anche il credente domanderà: “Fino a quando, o Signore?”.
Qual è allora il primo significato di shalom, che è poi quello del saluto bene-augurante? È “ben-essere”, “prosperità”: “Un tale shalom è legato, nella prospettiva antico-testamentaria, alla benedizione divina che assicura lo sviluppo della vita, anche attraverso la fecondità, e le condizioni che rendono la vita realizzata” (A. Barbi, La pace sulla terra, Verona 2003) . Ci sono due brani esemplificativi in libri scritti in epoche diverse: 1 Sam 25,5s e Gb 5,23s, a cui possiamo aggiungere la benedizione di Aronne di Nm 6,24-27 (presente nella Liturgia della Parola della Messa del primo giorno dell’anno e ripresa nel “pace e bene” di san Francesco).
Appartengono a quest’area semantica altri testi:
a) il dialogo tra Giuseppe e i suoi fratelli sulla salute del loro padre Giacobbe in Gen 43,23-28;
b) i due Salmi di benedizione e shalom su Gerusalemme e sulle tribù d’Israele, il 122 e il 128;
c) la speranza di shalom sulla terra, sia dentro quella “promessa” secondo Lv 26,6; Is 26,3.12; 32,17, mentre per Ger 29,7-11 è possibile dovunque, anche nella diaspora dell’esilio.
Nelle Scritture cristiane lo “star bene” ricorre in moltissime lettere, nei saluti iniziali e finali, unitamente alla “grazia” o alla “carità”. Così anche il saluto del presidente dell’assemblea eucaristica può usare una di queste formule, soprattutto paoline: “La pace, la carità e la fede da parte di Dio nostro Padre e del Signore nostro Gesù Cristo sia con tutti voi” (Ef 6,23). Sempre più la pace/prosperità diventerà dono di Dio, quando si unisce all’attesa messianica del regno di “giustizia e pace”, regno “compiuto” in Gesù Cristo, ma non ancora instaurato nella storia.
Che tipo di pace è il desiderio di “star bene” al mondo? Solo un vivere per se stessi, come saremmo tentati di leggere con le lenti della nostra cultura individualistica? Una cultura, la nostra, che ha tutelato i diritti del singolo, cosa sacrosanta, ma anche quella che li ha esaltati fino a soffocare o negare i diritti sociali, i diritti di accedere agli stessi beni tutti insieme. È vero che sono presenti nelle Costituzioni recenti, compresa quella europea, ma solo perché strappati dopo decenni di sangue versato. No! L’uomo conforme alla volontà di Dio non si concepisce come uno che può star bene da solo, né può badare soltanto alla sua cerchia. Il popolo d’Israele, prima, e la chiesa delle origini, poi, hanno tutelato i diritti dei più deboli (stranieri, orfani, vedove) e si sono aperti alle esigenze delle altre culture, anche se con molta fatica, a caro prezzo.
Ricapitolando, il primo significato di shalom è prosperità, lo stare bene nella solidarietà tra esseri umani. Sarà sempre più connessa ad un “ordine” giusto, man mano che tale pace/prosperità viene allontanata dalle guerre.


2. Pace/armonia interiore e concordia comunitaria

Il secondo significato di shalom è “armonia”. Siccome è frequente nelle preghiere dei Salmi e nelle scelte dei cristiani (poi ne è ricca anche la nostra liturgia, in parole e gesti), è un uso che si richiama alla “pace interiore”, o pace dell’anima o del cuore che dir si voglia. Come il carattere della madre-integrità si riversa nella figlia-armonia? Per sé non è che manchi qualcosa, ma ci sono ostacoli e tribolazioni, insieme a conflitti quotidiani, potremmo chiamarli oggi, o anche piccole vendette che, seppur con varie gradazioni, turbano fino alla rottura, alla lacerazione, specie se ci sono abusi e violenze. Allora, che cosa si desidera? Integrare il “dentro e il “fuori”, cioè trovare corrispondenze tra il vissuto personale e le relazioni esterne. Il termine italiano più vicino ad un’esperienza del genere è proprio armonia, una scelta in parte influenzata dalla musica occidentale, che nasce per la mirabile integrazione tra la consonanza di fondo (gli accordi perfetti) e le necessarie dissonanze (note contrastanti di passaggio).
Nelle Scritture ebraiche la pace come “armonia”, interiore ed esteriore, ricorre soprattutto nei Salmi, ove l’orante ringrazia e supplica il Signore di custodirlo nella pace. Ci sono due serie di espressioni:
a) nella prima, la ricerca perseverante della pace da parte dell’umile di cuore (Sal 34,15) può subire ostacoli e persecuzioni, ma viene conservata nella preghiera (Sal 35,20.27), specialmente quando la tribolazione è molto forte (Sal 116,7):
b) nella seconda serie, l’orante ha fiducia che i miti possederanno la terra (Sal 37,11.37), se si manterranno fedeli alla Legge che dà la pace del cuore con se stessi e con gli altri (Sal 119,165; vedi anche la “pace con Dio” in Is 27,5).
Nelle Scritture cristiane, grazie al dono della pace per mezzo dello Spirito Santo (cfr. Gal 5,16), ogni fedele può sviluppare armonicamente la propria vita interiore. Questa però ha consistenza vera se ognuno è disposto a stringere legami duraturi di comunione con altri. La pace del cuore (cfr. Rm 5,1; 8,6; 15,13) si rende visibile come “vincolo della pace” (Ef 4,3) per edificare la comunità nella concordia (cfr. Rm 14,17-19). In questa prospettiva, ognuno nutre la speranza di ricevere dal “Dio della pace” (1 Ts 5,23; Fil 4,7; Eb 13,20) l’integrità personale che rende stabili i rapporti anche dove permangono conflitti e persecuzioni (cfr. At 9,31; 1 Ts 5,3), o dove la convivenza è in balia di tensioni distruttive interne ed esterne (cfr. Mc 9,50; 1 Ts 5,13; Eb 12,14; Gc 3,13 – 4,6).
Non c’è quindi separazione tra pace del singolo e pace comunitaria o sociale, né subordinazione di quella “esteriore” all’aspetto “interiore”: entrambe vengono da Dio ma esigono la nostra collaborazione, come viene indicato in modo esemplare da un’espressione di Gc 3,18, che parafrasiamo liberamente in questo modo: “Coloro che fanno una sapiente opera di pace raccolgono il frutto che è la giustizia, cioè diventano conformi alla volontà salvifica di Dio”.
Ricapitolando, il secondo significato di pace è l’armonia che nasce nell’equilibrio interiore dentro conflitti di ogni tipo, per godere di un clima che favorisca la “concordia”. In pratica, un sentirsi sulla stessa barca, anche quando ci sono differenze marcate tra i singoli naviganti.


3. Pace/salvezza

Il terzo uso di shalom si avvicina al nostro linguaggio corrente. Quando ormai è scoppiata la guerra, o c’è da ricostruire dopo le sue macerie e nefandezze, le vittime ancora vive hanno bisogno di salvezza, oppure di riconciliazione, cioè di qualcosa che cambi la loro situazione tragica. È abbastanza evidente che chi desidera la pace si opponga non solo alla guerra, ma soprattutto alla violenza annientante che ha scatenato la guerra. Noi oggi siamo sensibili al fatto che nel Novecento le vittime civili sono di gran lunga maggiori di quelle militari come non era mai capitato in nessun’altra epoca. Si capisce perché la pace/salvezza/riconciliazione interagisca a livello di vissuto con i primi due significati, se ricordiamo quanto detto sopra, cioè che la guerra con la sua disgregazione sociale non permette prosperità alcuna alle popolazioni, né favorisce l’equilibrio interiore di ognuno.
Il percorso biblico è meno lineare rispetto ai precedenti significati, forse non a caso. Infatti nelle Scritture ebraiche shalom viene inizialmente usato per designare uno stato, un periodo senza guerre, una volta sottomessi i popoli invasori. È una mentalità comune ai popoli del Vicino Oriente, che però crea notevoli problemi di interpretazione dei testi.
A noi interessa, attratti dalla prospettiva in Cristo Principe di una pace “non-aspettata”, mettere in luce l’istanza profetica che nasce nell’esilio a Babilonia (587-538) e che poi verrà sempre più sviluppata. La tendenza si radica in un Dio che farà un’alleanza di pace stabile in opposizione alle false paci, ovvero al benessere a poco prezzo e all’armonia illusoria (cfr. Is 54,10-13; Ger 6,9-15; Ez 37,26-28). Per questo motivo i due significati precedenti di shalom vengono spostati sull’attesa escatologica di una pace che solo Dio può dare. Ciò equivale alla speranza della salvezza quando il popolo d’Israele deve sopportare una delle seguenti situazioni pesanti, o anche entrambe insieme: violenze e ingiustizie interne, e guerra con i popoli vicini che invadono la terra promessa con la conseguenza dell’esilio. Non è sempre facile individuare, a causa delle redazioni successive, se la speranza dello shalom come salvezza dalla disgregazione in atto riguardi violenze all’interno o la guerra.
Al di là di questo, è possibile distinguere due tipologie: c’è un’attesa della pace/salvezza che si lega strettamente alla giustizia instaurata nell’oggi da un inviato di Dio (re-messia, o servo sofferente, o pastore) e c’è un’attesa che si sposta verso una visione escatologica, fino a coincidere con la speranza della nuova alleanza per un diretto intervento di Dio che cambia il cuore malvagio e violento.
Nel primo tipo, la speranza di un mediatore per l’oggi, inseriamo:

Is 9,1-6 (messia principe di una pace che non avrà fine);
Is 11,1-9 (eden ritrovato grazie al germoglio giusto di Iesse);
Is 53,5 (servo sofferente che riconcilia addossandosi i nostri peccati);
Ez 34,23-25 (pastore giusto che cura i deboli);
Zc 9,8-10 (re mite che toglie la violenza).

Nel secondo tipo, la speranza della nuova alleanza futura, inseriamo:

Is 2,1-5 (= Mi 4,1-4: popoli in pace);
Ger 33,6-9 (il perdono che cambia la sorte e dà pace);
Is 52,7 (messaggeri di pace in Gerusalemme);
Is 57,14-21 (guarigione profonda per gli afflitti);
Is 60,17-18 (convivenza ristabilita).

Che cosa eredita la figlia-salvezza/riconciliazione dalla madre-compiutezza? Eredita l’esigenza di una paziente ricucitura di legami fatti a pezzi, una tessitura ex-novo di fili che non hanno più alcuna attrazione gli uni verso gli altri. Pace a caro prezzo, che richiede un investimento di energie maggiori rispetto al ristabilimento della prosperità o alla ricerca di nuove consonanze per vivere le tensioni in modo equilibrato. Infatti, con la guerra vince solo il potere della violenza che distrugge. Dopo la fine delle ostilità, la riconciliazione è per molto tempo aleatoria, nel senso che nessuno può essere sicuro di aver trovato la soluzione per una convivenza giusta e prospera (lo sanno bene coloro che operano concretamente per la riconciliazione con le ferite sia qui quando sono ospitati da noi, sia nei luoghi dove ha infuriato la guerra…).
Così anche la cultura laica è costretta a fare i conti con la categoria del “perdono”, che, nel suo significato di fondo, non vuol dire condono di una colpa, bensì liberazione dalla schiavitù della vendetta, che è proprio una catena a spirale che non lascia vivere in pace.

 

Prospettive per una cultura di pace

Se guardiamo al Novecento e in particolare all’ultimo decennio del secolo scorso e ormai ai primi del nostro, il quadro è desolante per quantità e qualità di guerre lesive della dignità originaria che custodiamo tutti come cittadini del mondo. È mai possibile che la Bibbia non riesca ad influenzare le coscienze credenti? Perché, peggio ancora, la contrapposizione radicale trionfa proprio con la sua volontà di potenza anche in loro? E, infine, perché la soluzione della nonviolenza è ancora poco stimata nella sua efficacia politica in quanto ritenuta utopistica?
Tutte domande che hanno bisogno di una risposta lunga. Noi dobbiamo invece limitarci a segnalare l’urgenza di una rifondazione della cultura su nuove basi. Non possiamo più vivere bloccati nel cerchio infernale delle appartenenze esclusive, dove regna il mito di un’identità rigida “contro” altri, ad ogni livello. A questo giudizio possiamo arrivarci con ragionamenti diversi. Con un metodo di ricerca rigoroso possiamo riconoscere che il vertice della Bibbia risiede in un passo di san Paolo nella lettera rivolta ai cristiani di Efeso (Turchia occidentale). Qui c’è una nuova creatura pacificata, rappresentata da Cristo crocifisso, il quale è la nostra pace, perché ha abbattuto muri di separazione, che sono innalzati non solo dai “lontani” (sottinteso: cattivi, idolatri), ma anche dai “vicini” (sottinteso, buoni, credenti praticanti) quando questi ultimi pretendono di avere l’esclusiva nell’acceso a Dio Padre (cfr. Ef 2,11-19).
Potremmo dire con una frase un po’ provocatoria: la miccia che accende la violenza nel cuore è costituita quasi sempre da un’immagine religiosa deformata, che si contamina con altre motivazioni bellicose, più o meno reali, finendo poi per non essere nemmeno riconoscibile, talvolta. Da qui nasce l’ideologia dell’appartenenza esclusiva, che si costruisce un nemico da annientare, ideologia non spenta sul nascere, purtroppo, nemmeno dalle chiese.
Finisco con una citazione sul “disarmo” del cuore violento che attende tutti coloro che lavorano verso una cultura di pace:

“Il cammino verso la pace consiste nel decidere di intraprenderlo. Questa decisione è già di per sé pacificatrice. Fanatismi e assolutismi impediscono di camminare assieme, perché ci fanno credere autosufficienti o detentori della Verità. […] La pace integrale della persona, tanto interiore quanto esteriore, è un imperativo per l’umanità. Ogni uomo ha il diritto alla pace perché ne ha anche il dovere. Un cambiamento nel microcosmo personale è causa ed effetto di un cambiamento nel macrocosmo dell’umanità” (R.Panikkar, Pace e disarmo culturale, Rizzoli 2003).

Giordano Remondi


 

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