Ci scrivono
Cari amici,
ho letto con interesse l’ultimo numero della rivista e vorrei osservare quanto segue, sempre tenendo conto che l’esperienza dei PO, grande o piccola, in ascesa o al tramonto o finita, sugli altari di qualche riconoscimento o nella polvere dell’oblio, ha solo un valore, e mi pare questo.
Avendo vissuto e ancora vivendo nella intersezione del fatto religioso e, insieme, del lavoro e della cittadinanza, (anche se mancano le esperienze di una propria famiglia), vedere lo stato dei loro rapporti e cogliere eventuali confusioni dove dovrebbe esserci separazione, e separazioni dove dovrebbero esserci corrispondenze.
Che cosa mi pare di dover osservare:
1. L’intervento di Martini è ottimo, come quello del resto sulle cure doverose ai cosiddetti immigrati (era del resto la circolare Bindi), ma questi interventi di un vescovo appartengono alla varia fenomenologia degli interventi vescovili più vari e contrastanti, cioè alle loro opinioni. Se valesse il “in necessariis unitas” non accadrebbe il fatto evidente, per cui quello che dice Martini non vale nel metro quadrato che segue al confine di Milano, per es. a Como. È la situazione rilevata dagli storici dopo lo stabilizzarsi della riforma e della controriforma nei molti stati tedeschi, “cuius regio illius et religio”. Di qui il “medico cura te stesso”, ci porta dritti a dire chiaramente l’assurdità di una struttura, il nostro cristianesimo, istituzionale o alternativo che sia, a cercare di mettere ordine, dignità per i fedeli che non possono essere lasciati agli arbitrî morali dei vari vescovi, nei vari tempi e spazi, e insieme lavorare alla costruzione o alla salvaguardia di una rete di diritti e doveri, nei vari ambiti sociali dove non è minore l’arbitrio. Martini non è un opinionista; è un vescovo, e deve preoccuparsi che quello che dice non sia una opinione della quale un Maggiolini non tiene conto. Se invece è una opinione, che vale quella di tutti noi, perché cercare di renderla autorevole a partire da un ruolo che solo lui ha?
2. Sul tema della guerra. Anche qui, “medico cura te stesso”. Nonostante tutti gli sforzi, tutte le posizioni contro la guerra e per la guerra, stanno dentro ad un quadro fissato anche dai cc. 2307/2317 del catechismo. Questo è solo in apparenza un testo religioso che detta norme alla politica, è un testo politico che riconosce il diritto all’autodifesa, però con tutte le correzioni e i controlli più o meno dettati dai sensi di colpa, che danno origine al concetto di guerra giusta (nel testo) e più recentemente, di “guerra umanitaria”. Tutte le posizioni, dal papa cosiddetto pacifista al Ruini cosiddetto “americano”, o “guerrafondaio”, sono dentro a questo quadro, che è contraddittorio.
Domanda : se la politica è arte di navigare nella contraddizione e anche il cosiddetto pacifista avrebbe difficoltà a rifiutare qualsiasi azione di autodifesa, c’è uno spazio per una posizione religiosa che assuma la contraddizione? Certamente, ma non truccando da religioso un compromesso politico. Il “medico cura te stesso” indica la necessaria espulsione dal catechismo di una qualche eccezione al “non uccidere”.
Non si capisce come il moralista si nasconda dietro la foglia di fico del concetto di autodifesa, quando anche i bambini sanno che tutte le guerre, dalle infime in una famiglia o in un condominio, alle grandi, sono di autodifesa. Anche il terrorista legge quei canoni ed è d’accordo. È strano che negli studiatissimi S. Weil e Bonhoeffer, non si veda invece il varco giusto sulla faccenda, varco difficile ma unico per chi prima debba e poi voglia formare coscienze cristiane che non prendano come “di fede” qualche motivazione politica stralciata dal contesto. Per farla breve. Nella lotta contro il nazismo, sia la Weil che Bonhoeffer sono entrati in una guerra di autodifesa e il secondo facendosi, ancora adesso, poco amare dai tedeschi, ma mai affermando che la loro era una causa giusta. Sono posizioni note. Esse pongono al centro del catechismo il semplice “non uccidere”, così che anche azioni di autodifesa sono sotto il giudizio di Dio e non “giuste”. Allargando il discorso è il rifiuto che la fede oppone alle polarizzazioni bene/male che evita di pensare che la prostituzione, la malattia mentale, il terrorismo, il clandestino, l’immigrato, il ladro ecc. siano quelle figure che ora incarnano quei mali, e non invece il male che resta diffuso. Così, sempre, si può vedere il clandestino nel cittadino italiano che non paga le tasse, l’immigrato in quello che va a puttane a Cuba, il prostituto nell’intellettuale o giornalista che vende il pensiero, il malato mentale in Baget Bozzo oppure in Ratzinger che permette insieme che il papa raccomandi qualche condannato a morte e la presenza del canone 2267, che questa morte ritiene lecita, esattamente nei termini nei quali così la ritiene il giudice americano.
3. Sull’articolo 18 e le varie periferie nelle quali i beni essenziali che la costituzione dice dover essere fuori delle leggi di mercato, passano tutti sul mercato. Molto bene che i cento PO, lavoratori o pensionati, si aggiungono ai 2 milioni che questo denunciano. Ma noi, sempre attenti alle intersezioni, dovremo anche intervenire sui fatti religiosi che di quella faccenda proprio non gliene importa niente.
Il buon Martini ha detto qualcosa su tutto quell’aziendalismo cristiano di CL e compagnia, molto interessati a che il pubblico scompaia nella sanità, nella scuola, così che i diritti essenziali diventino tutti “a pagamento”? Non c’è nulla nel fatto religioso italiano che “accompagni” quel minimo di valori non corporativi così presenti nelle lotte di questi giorni. La cosiddetta chiesa italiana e l’aziendalismo cristiano, aspetta solo finanziamenti e assunzioni per i suoi operatori, nemmeno ci pensa di immettere nel fatto religioso stesso, per la sua parte, quegli elementi di discussione, di confronto ecc. che anche in ambito poi sociale sarebbero preziosi. Tutti i mezzi della organizzazione della superstizione, sono buoni allo scopo di creare popolino, gente che canta e batte le mani e si preoccupa dell’ormai famoso “ginocchio del papa”. Nessun rapporto serio quindi tra fede e condizione operaia e fede e diritti e doveri di cittadinanza. Sul problema della fede poi, se il farsi cristianesimo posto di lavoro, azienda, ormai è così profondo come un destino, non sarebbe importante che noi che un qualche misero straccio di fede solo come specchio oscuro, abbiamo intravisto nel non aver fatto della fede un posto di lavoro, denunciassimo la forma più astuta e potente di ateismo cioè l’“ateismo dei sacrestani”?
4. Allora, esperienza dei PO e Chiesa/società-civile, cioè sui terreni e le cerniere che le legano, cosa vorrà dire? Per avere qualche risposta attiva e non ci si perda nei brodi storici che tutto triturano ai fini dell’oblio (l’ultima trovata della Cucina è stata di Ruini: il cacciatissimo Don Sturzo lo facciamo santo perché ha molto amato la dottrina sociale della Chiesa…) un presupposto: abbandonare, noi per primi il principio base che, dal papa all’ultimo credente e cosiddetto non credente, guida tutti. È l’autoimprenditorialità. Ognuno fa quello che gli pare nelle teologie, morali e pratiche. Nonostante le molte chiacchiere sulla comunità, in basso il fatto religioso è acquistato come un prodotto in base ai bisogni, in alto proposto a tutti, anche se è una qualche mania o gusto personale. Anche noi abbiamo avuto la tendenza di mostrarci i più bravi, quelli più ‘in’, e cercato “il vescovo che capisca”, ecc. ecc. Molta carrozzeria, ma quel po’ di motore è altrove ed è proprio l’essere, come tutte le esperienze personali di questo mondo, una qualsiasi “mascella d’asino”, prima che Sansone, il bene comune, la prenda in mano. L’essere “mascella d’asino” la si vede proprio ora, ma non perché “siamo pochi, precari”.
Anche se fossimo tutti in pensione, i PO, per il motore non per la carrozzeria, sono una rara esperienza che ha un futuro. Perché? Il suo essere “osso di asino”, nemmeno riciclabile come reliquia, lo si vede come essa appare su tutto il grasso che oggi Chiesa e società civile mostrano del fatto religioso. Grasso vuol dire efficace, visibile, produttivo. Le centinaia di preti assunti dalle ASL del Lazio e della Sicilia, i ventimila insegnanti di religione assunti dal ministero della pubblica istruzione, tutte le “cose cattoliche” strafinanziate, tutto lo spirito confindustriale di CL, i capi rispettati e adorati, il popolino adorante, acclamante in una liturgia continua e totale, gonfio di certezze e della mercede delle “buone azioni”… mostrano questo grasso della cosa cristiana. Esso si vede anche nel modo in cui riempie tutti gli spazi come un silicone potente: Assisi serve, per esempio, a fornire energie al pacifismo più assurdo ma anche il cappellano militare alle truppe italiane di Kabul. Le teologie più nichiliste lavorano all’estrema sinistra, mentre altre teologie della incarnazione più allegra e del mito eterno della “gente semplice”, coprono tutti i fenomeni della destra dove sono al lavoro gli orefici di Efeso (Atti, 19,23 ss.) in tutti i fenomeni nei quali il desiderio di miracoli, la superstizione e il problema serio del lavoro, diventano una materia prima che nei vari santuari è lavorata a livelli industriali. Di qui la “gran fede” di tours operators, di aziende di trasporti ecc. ecc. nel giubileo.
E il prete operaio? Pochissimo grasso, soprattutto per quegli ammirevoli tra noi che ancora lavorano. La fede oscura dello specchio antico, la gente vera che non vuole molte responsabilità, una società ostile al lavoro, la divisione del lavoro in migliaia di contratti ecc. e alla fin fine un semplice ragionamento: se il prete è quello utile alla società, il prete operaio non è o il classico ex-prete che fa tutt’altro oppure non sono due preziose braccia rubate ad ambiti dove ci sarebbe, con la sua testa e preparazione, “tanto da fare”? Infatti tutti i preti, il papa per primo, sono ora preti operai del sociale.
E allora? E allora, invece, è proprio qui che si vede, cadute le carrozzerie, quella parte di motore che c’è e proprio ora che l’essenza del tutto impersonale della cosa appare di più e appare come cosa futura da sottrarre alle pur legittime logiche del ricordo o del “reducismo”.
Cos’è questo motore? È qualcosa di semplicissimo che è accaduto nella nostra esperienza, che noi stessi abbiamo abbozzato e che può essere gettato sul tavolo grasso della società/chiesa e società civile, non come un nostro ulteriore prodotto delle mille autoimprenditorialità religiose oggi al lavoro, ma come qualcosa attorno a cui si legano discorsi antichi e attuali, decisivi.
È detto in due parole: la distinzione, tentata in noi, tra fede e posto di lavoro, articolazione dove via via si oppone o si implica il dialogo scontro tra beni privati e beni comuni. Sembra niente ma è una spada di separazione e distinzione fondamentale. Agisce nella società civile da sempre (basti vedere la riflessione di Platone nel Critone e nel Gorgia, e ora sul tema dei conflitti di interesse) e ancora più nella società religiosa dove tonnellate di comunitarismo di facciata deve ancora cominciare a parlare di questo. È quel bisturi per esempio presente in Matteo 6, che taglia, nel cristiano, tra il grasso delle buone azioni e i servizi delle robe cristiane, tutte piene di “mercedi”, e il tendere all’azione buona per un bene comune che mai, forse, si vedrà. E taglia sempre in alto e in basso, tra i beni del vaticano e i beni legittimi di vescovi, preti, tutte le strutture delle “nostre cose cattoliche” e il bene della chiesa e della società civile.
Solo nella apertura di questo spazio si evita che problemi sessuali dei vescovi (telenovela Milingo) o della vecchiaia di un papa, cose che vanno lasciate al riserbo e alla privacy come beni o problemi legittimi di privati, diventino cose immediate relative al bene comune. La confusione tra beni legittimi da separare, ha risultati che mostrano nella chiesa una società grassa ma povera, arretrata, senza manutenzione. S. Weil parlava della società dei re buoni o cattivi. Un papa buono fa un concilio, un altro “cattivo” lo distrugge. Martini dice delle cose sugli immigrati di cui Biffi e Maggiolini, “buoni” come lui, perché no?, ridacchiano… Di qui le mille teologie, come se Dio e Gesù fossero temi letterari come Don Giovanni, Ulisse, e le mille morali da un prete, da un tempo all’altro.
Lutero rimproverava a Hus di criticare il papa e i vescovi in quanto peccatori. “Siamo tutti peccatori…” – diceva – “li critico perché sulle indulgenze sono dei cattivi maestri”. Oggi una specie di eresia hussita ha invaso tutto e ha il nome di quel dileggiato culto della personalità della società sovietica. Mentre il cristiano che pensi un poco sa che non solo purtroppo ha solo “Mosè e i profeti” (Lc. 16,29) e qualsiasi papa, vescovo, prete assicura solo l’“arrosto” dei sacramenti validi, parola di Dio e norme morali, tutto diventa organizzazione attorno al “fumo” dei singoli pastori. Sedici pagine del settimanale diocesano di Venezia (più pagine e pagine dei giornali cosiddetti laici) sul nuovo patriarca, con tutte le sue cose messe in pubblico all’ammirazione del popolino. Anche noi PO abbiamo esagerato alla ricerca di qualche “fumo”, come i vescovi che i capiscano ecc.
Sul tavolo si butta invece quella cosa che non è nostra, è solo apparsa in abbozzo e oscuramente in noi, cioè la distinzione tra beni privati e bene comune così da rilevare subito la bizzarria di un papa che ha fatto la legge dei 75 anni ma non per lui. Una ridicolaggine che farà sì che il bene della chiesa sarà la sua sorte di vecchio, il suo ginocchio ecc. come se mancassero gli esempi di veri mali ai quali dedicare la nostra scarsa pietà e non si sapesse che non meritano pietà gli accidenti che capitano o alle persone che fanno gli sport estremi o ai vecchi o anziani che tentano performances sessuali, sportive o di fecondazioni tecnologiche, che il fisico rifiuta.
5. Naturalmente, parlare di bene comune distinto dai beni delle persone, parlare del bene “della chiesa” come distinto dal bene delle persone, sarà etrusco per una società che è in pieno sonnambulismo se manda i Pio Laghi (il nunzio che della dittatura argentina ha detto “io non c’ero, se c’ero dormivo”) con una lettera inviata alle parti in conflitto e tiene lezioni di teologia e pastorale per malati terminali…
Forse queste idee sul bene comune della chiesa sono una continuazione del Don Chisciotte. In quale discredito sia tenuto il fatto religioso contemporaneamente stimato e comperato lo si vede da come il problema di quella distinzione tra beni privati e bene pubblico nella chiesa, etrusco per la chiesa, è da sempre all’ordine del giorno in società coscienti, nelle loro migliori coscienze, di una necessità di continua manutenzione di quella distinzione. Già l’ebraismo nella sua continua lotta tra potere politico, sacerdozio e profetismo, mostra questa attenzione. E nella stessa società civile questo è il senso della distinzione tra i tre poteri, la costituzione, nelle sue basi di libertà di espressione, di associazione e insieme di senso dello stato. E questi sono i problemi attuali e insieme eterni, cioè la distinzione tra i beni dei politici, degli operatori sanitari, dei magistrati, degli economisti, dei giornalisti ecc. e i beni comuni della politica, della sanità, della informazione, della giustizia, ecc.
La parte di futuro della esperienza dei PO, anche se non ce ne fosse nessuno, è questa e si vede quali risonanze abbia anche nell’ambito civile delle etiche professionali e pubbliche.
6. Che oggi i PO dicano questo non come esempio, loro patrimonio da “bravi o eroi” ma come un problema comune di tutte le società e urgente anche per il grasso e insieme miserabile stato del fatto religioso che è ormai solo un posto di lavoro come un altro, farà di queste pagine non solo una chissà quale rivoluzione da chiesa di base o rivoluzionaria come di novelli Th. Müntzer (mentre sono invito alla normale manutenzione di una società) ma un voler “drizzare le gambe ai cani”? Infatti solo così si può spiegare che nella chiesa dove ci sono moralisti a seguire gli andamenti etici delle più varie combinazioni tra ovuli e spermatozoi e le varie cellule che vanno e vengono, che sanno tutto e parlano sempre di tutti i tipi di pillole del giorno prima, del momento e del giorno dopo… conservino un silenzio da perfetta chiesa del silenzio sul problema etico dei conflitti di interesse non risolti. In parte perché sono persone che badano a quello che passano i vari governi per le “nostre opere” ma soprattutto perché proprio non capiranno nemmeno il vocabolario di base del conflitto di interessi. Come si fa a dubitare che (per fare un esempio) il bene del papa, compresi i suoi gusti legittimi per i viaggi, per i santi e santuari, per le folle che devono solo ascoltare a capo chino ecc., non siano il bene della chiesa? È così che l’hobby del re diventa legge e Caligola, raccontano, fece senatore il suo cavallo…
Eppure questo devono dire i PO, non come la loro “bella” esperienza, (aspetti importanti appartengono appunto all’ambito prezioso del personale) ma come problema che essi stessi hanno appena intravisto e che gettano sul tavolo del cristianesimo aziendale e grasso come un problema di tutti, religiosi o no: «io, oltre i miei beni legittimi perseguo anche il bene comune, quello “senza mercede”, quello che non vedrò mai, quello dell’etica professionale, dell’etica pubblica e proprio oggi che è planetaria»?
Tutto questo, se nella società civile è abbastanza dibattuto, è perfetto deserto nella chiesa, dove tutti perseguono il loro legittimo bene “sposandosi”, “mangiando” ecc. e che venga il diluvio o il Messia, sono pie teologie che niente producono.
Eppure, non c’è niente da perdere, proprio un assente ma impellente bene comune esigerebbe che i PO, che qualcosa hanno intravisto di quella distinzione onerosa anche per loro, parlassero, senza molti complimenti, come si usa tra operai, sulla questione.
Per molti motivi:
Il primo : dare un mano anche come cristiani e sul campo etico a tutte quelle forze che quella distinzione ritengono vitale per la società. Che i cittadini del vaticano e i vescovi e i preti che di quella città sembrano alle volte i rappresentanti nella società civile, di questa società non gliene importa niente, dato che a loro della costituzione interessa solo l’art. 7 e i privilegi e i finanziamenti che ne seguono, non ce ne importa niente. In questo senso sono “immigrati”, nel senso di quella invasività rimproverata ai poveri diavoli nigeriani ai quali prima si ruba il petrolio e che poi, appunto, vengono qui in casa nostra a rovinare la nostra bella civiltà… Il cristiano italiano ha due fari, la fede che mostra la cittadinanza cristiana e la costituzione che, frutto di lotte e morti, quando il vaticano lavorava per altri interessi, ha delle basi civili proprio sul concetto di bene comune, già presenti nelle dichiarazioni dei diritti dell’Onu e ora della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. I beni dei cittadini del vaticano e di quelli che i vari concordati proteggono, sono beni legittimi, ma è necessario che siano sottoposti a quello che regola tutti i beni privati .
Che siano anche bene della chiesa appartiene alla discussione che in una ecclesia, dato il suo campo alla liturgia, è proprio il campo assembleare. È ridicola quindi la situazione per cui da un lato la liturgia, dove agisce l’ex opere operato, sia invasa dal culto della personalità dei vari pastori o usata per socializzare e andare a benedire banche, oratori e a sacralizzare tutti i tipi di “trovarsi bene tra noi” di preti e cristiani, d’altro lato , proprio per evitare discussioni e avere sempre popolino che canta, viene tutto liturgicizzato e il fatto cristiano assume quell’aria da recita continua dove il popolino fa da comparsa per le recite e le tirate dei pastori-tenori.
Il secondo : la distinzione tra beni privati e beni comuni sarebbe anche un modo per salvare da tutta questa palude il messaggio cristiano. Già le varie fedi della “tunica inconsutile” hanno fatto milioni di coriandoli e di botteghe. L’ultima, il papa che pianta diocesi cattoliche non su Marte ma nei centri della ortodossia, ma oggi l’industria del sacro, di quella tigre che sono tutti i testi evangelici, ha fatto dei pelouches inoffensivi, materiali per il parco giochi dei sacramenti infantili, motore di un volontariato che è fasullo non solo perché pagato ma anche perché nella piena coscienza della “buona azione che sto facendo”… Oggi il messaggio cristiano è finito nella imbecillità più completa. All’altezza dei grandi classici delle civiltà, è diventato melassa, sentimento e miracolismo in tutto quel cristianesimo mediatico che naturalmente è tutta “evangelizzazione” ed è la stupidità dei vari preti delle telenovele, delle mille vite dei padri pii, santantoni, e adesso il papa buono che tanto buono e intelligente non deve essere stato se ha mantenuto la pena di morte e la guerra giusta nel catechismo.
Naturalmente non saranno certo i PO a salvare il messaggio, ma avendo vissuto in ambiente dove ci sono meno cornici e buona educazione, possiamo portare un po’ di controipocrisia nella recita cristiana? A chi toccherà dire, a partire da Isaia, “vogliamo finirla con tutti questi altari di Baal, con questi santuari dove si prostituisce il mio popolo”? E per imparare dalle difficili assemblee operaie, vogliamo portare un po’ di verità in questo trovarsi cristiano tutto composto come alle prime? Chi dirà se non noi che le prime comunioni sono le ultime? Chi dirà ai produttori del fatto cristiano che oggi esso non è una delle più piccole forze che agiscono per la distruzione della rete di diritti e doveri?
L’incontro con Dio è in mano a lui solo, per questo ogni prete, operaio o no, progressista o meno, va bene, siamo tutti mascelle d’asino e non Sansone. Ma in mano nostra è il legame che i fatti religiosi hanno con i processi sociali. Qualcuno di noi che ha studiato Bonhoeffer o i fascismi, ha notato con preoccupazione quanto anche il fatto religioso ha lavorato nelle fabbriche delle dittature. Ora, noi che abbiamo vissuto nella condizione operaia e viviamo anche nella città (e se non lo facciamo dobbiamo rimproverarcelo), noi soprattutto dobbiamo stare attenti come il cristianesimo dei sacrestani o dei bigotti lavora nelle battaglie civili. Per primi dobbiamo denunciare come imbecilli quei cappellani militari che vanno a seppellire le scatole di cartone dove ci sono le ossa dei giovani alpini che loro, per il concordato, hanno accompagnato in Russia a uccidere e a morire. Essi dovrebbero invece piangere e fermare la macchina della chiesa a pensare. È per questo che l’unico catechismo che deve essere presente nelle scuole pubbliche e in tutte le agenzie educative, deve essere l’educazione civica. Gli altri catechismi si ritirino nei luoghi di culto e si chiedano sempre se producono o no società civile, etica professionale, impegno per i vari beni comuni o per le loro botteghe. I ventimila insegnanti di religione, presto assunti dallo stato, ci saranno in questa ricerca di produrre le diverse cittadinanze? Naturalmente dovrebbero dal primo giorno dire che sono da espellere dal catechismo la liceità della pena di morte e della guerra… Ora, potrebbero farlo se rivendicassero contro il vescovo che li licenzia l’art. 18, se qualcosa di simile esistesse nella chiesa… ma presto, licenziati, entreranno nel grande mare dei dipendenti pubblici.
Il terzo. Se non si procede in qualche modo alla distinzione tra beni privati e beni comuni (e il messaggio è così comune che non è di nessuno) non si può evitare che sul continuo essere “anime belle” che fanno la predica a tutti, non cada il “medico, cura te stesso”: criticare l’America perché i suoi beni sono il bene del mondo? Ma se la preoccupazione dei propri beni e interessi è il primo nella scala dei fini del cristianesimo italiano! Occupare spazi intanto, non i problemi.
Invitare israeliani e palestinesi al dialogo? Ma come può essere una cosa seria, se si ha il coraggio di ritenere sacri i luoghi santi (già dichiarati vuoti dal vangelo) come la sacralità di una terra ritenuta patria unica per due popoli? Come non vedere, invece, che è con un sospiro di sollievo che il cristianesimo vede l’ebraismo perdere tutto il “credito come vittima”, diventando, si dice, “oppressore come tutti gli altri”. Infatti, non essere antiebrei è relativamente facile ma impossibile per i cristiani. Il fondamento della loro identità (“noi abbiamo riconosciuto il Messia in Gesù, gli ebrei no”) è troppo costoso. Infatti i cristiani avrebbero, loro, riconosciuto Gesù? Un Gesù senza più comandamenti, senza messianismo, senza profetismo e usato nelle imprese storiche più nefande… sarebbe questo il riconoscimento di Gesù? L’ebraismo legge la lettera agli Ebrei e si fa quattro risate a sentire di quel Dio incarnato, senza mediazioni, ecc. e vede una quantità enorme di “alberi di Baal”, di superstizioni, stati cristiani, concordati e tutta la paccottiglia di santi, madonne… Ritornare alla sospensione del riconoscimento come unico compito sempre non risolto: questo, purtroppo per tutti, chiede il vangelo. Il Matteo 25 ricordato da Sandro Artioli e Luca 13,22 mostrano che il vangelo non è un manuale per diventare cristiani. Quindi, altro che luoghi santi, in questo senso siamo tutti ebrei perché tutti aspettiamo ancora, proprio nel mezzo di una massiccia invasione sul mercato di roba sacra.
Quando poi si predicano continuamente i valori dai davanzali dei predicatori a tempo pieno… “medico, cura te stesso”. La chiesa è la palude più piatta dove, senza un minimo uso delle categorie della coscientizzazione, dibattito, scontro, elaborazione di progetti comuni…) non si fa altro che coltivare popolino ascoltante e ipocritamente rispettoso. La nota simpatia della chiesa per i regimi forti non è poi presente anche nei suoi media? L’ Osservatore non è come la Pravda ? E i vari giornali cattolici non sono proprio come Il Giornale e La Padania di Berlusconi e di Bossi, dove non si ospitano voci contro i capi? Che cosa può capire una società senza discussione su diritti e doveri al proprio interno, di cose come l’art. 18? Come operai siamo con gli altri negli ambiti politici e sindacali, ma come PO il nostro lavoro è perché anche la società chiesa non sia contro valori laici della costituzione.
Il quarto. Solo aprendo spazi per il confronto tra adulti nella chiesa i cristiani possono essere un po’ all’altezza di quello che accade. “Ma, dice il Grande Inquisitore, è la gente che vuole miracoli, sottomissioni e baci alle sacre pantofole…”, ma allora perché organizzare l’industria di dare le perle ai porci? Se si va avanti così aumenterà solo il lavoro di maestri di cerimonie, di tours operators…
Aprire spazi vuol dire aprire il confronto tra adulti e non tra bambini pigolanti, adolescenti da Tor Vergata… tutte categorie che sono senza i problemi etici dell’adulto cristiano. Si apre anche lo spazio per il singolo, non per l’individuo fai da te, che oggi è il re della chiesa. E singolo è confronto anche con le norme morali ora distrutte dai continui condoni, perdoni, assoluzioni, indulgenze. Singolarità è anche confronto con la morte come l’unica cosa del singolo. Oggi la chiesa non dedica nessuna cura a queste cose, con tutte le sagre e le attività più folli che oggi fanno le parrocchie ridotte a club degli amici del prete, che tempo ci sarà per altro? A Venezia il settore funerario è gestito dalla stessa azienda che smaltisce i rifiuti… questi hanno capito qual è, oggi, la più adeguata teologia della morte…
Il quinto. Aprire gli spazi tra beni privati e beni pubblici, vuol dire che anche i beni del prete “prendono aria”, comincia a temere anche lui la privatizzazione della sanità, la vecchiaia, comincia a fare politica, a votare, comincia a non dover nascondere come ora la sua vita privata (vizi e virtù che siano) e la pianta di affliggere con i suoi problemi, i suoi hobbies, il suo celibato o non celibato, le sue vere propensioni ecc. il povero gregge. Quanti preti e vescovi ora sono braccia rubate al lavoro aziendale, alla politica, alla psicologia, alla letteratura… Nella vita del PO si vede questo distinguersi tra i propri beni e il bene spesso sfuggente e non chiaro degli altri. Se il bene comune si allontana in quanto compito che sempre supera la facile mappatura dei propri beni, si apre qualche varco.
Il sesto. È il motivo ricordato da Artioli, che si riferisce al solito Matteo 25 e anche al meno ricordato Lc. 13, 22. Come non confessare che questi testi sono una grande tentazione per far perdere la speranza? Infatti essi, proibendo al cristiano di sentirsi tale proprio quando cerca di esserlo, mostra le grandi forze del male, della nebbia che ci sono anche in noi e già per primi capiremmo che non vale molto la nostra aristocrazia per la quale subito diciamo, anche in queste pagine, “popolino” quello che protegge e insieme disprezza il Grande Inquisitore. Si capisce allora che non è facile nemmeno mettersi dalla parte di Gesù che respinge le tentazioni. I beni che chiedono le persone nei Karamazov e che offre il demonio non sono per niente demoniaci, sembrano spesso le riserve del vivere. E allora (qui è l’essenziale che dice Sandro) si vede un panorama per il quale il dire, da Luca 13, 22, che “non sappiamo se siamo cristiani”, già domanda “se siamo ancora uomini”. Appare come un vanificarsi di tutte le religioni, che, quando va bene, procurano una vacanza all’assillo del pensiero ma poi lavorano solo per identità in guerra. Sulle tre religioni del seno di Abramo non cade il ricordo amaro del mito dei tre fratelli in lotta già nel seno della madre e quale dio crudele ha promesso come sua e loro terra, a tre popoli diversi, un fazzoletto di terra che quindi è sacro perché maledetto? Se una civiltà spedisce una sonda su un piccolo sasso, Eros, che sta tra Marte e Giove, tra milioni di altri sassi e fa foto di un metro di dm., è questa civiltà di uomini come gli uomini al fondo del canale di Otranto? Le religioni, quando va bene, sembrano fanciullaggini di fronte a questa domanda sullo stesso concetto di specie umana. Le varie divinità più che uno scendere a vivere con gli uomini, a condividerne il destino come spesso si racconta, sembrano invece averci abbandonato ai nostri politeismi…
Ma tutto questo in critica ai nostri pastori? Per niente. I loro difetti sono quelli del corpo complessivo. Aprire i varchi per una ricerca del bene comune assente, non a partire dalla esperienza magisteriale di noi PO, ma come problema che è apparso appena abbozzato nei PO ma che è centrale per tutti.
Roberto Berton