Caro Gianni,
il numero 47/48 di aprile mi ha ricollegato col movimento… Mi ha portato una buona dose di stimoli e di coraggio rassicurante nel cammino di “solitudine teologica” in cui spesso mi trovo per mancanza di possibilità di confronto qui in Africa! Ti e vi sono grato.
Ti mando qualcosa che ho scritto per una rivista locale. Se pensi che possa esserci qualcosa di utile puoi spigolare tranquillamente. So che siete in grado di tradurre dal francese per cui mi risparmio di farlo io…
Buon lavoro e un grande abbraccio ai compagni tutti.
Raffaele Boi
(N.D. Fatima – Korhogo – Costa d’Avorio)
Sono sposati, lavorano, annunciano il Vangelo
Prima di avventurarmi sulle piste indicate dal confratello Benjamin Tiecoura nel n° 253 di “Rencontre” – marzo-aprile 2000, io voglio ricordare una incontestabile verità: dove vi è dipendenza economica lì vi è pure dipendenza politica!
Ecco perché il prete “mendicante” di fronte ai paesi ricchi, ai dirigenti locali, ai politici e ai… laici, suoi fedeli, perde la sua libertà e diventa “un agnello, se non un pourceau” sull’altare della servitù untuosa verso i potenti in danaro ed in potere! Io trovo che vi è del servilismo di fronte alle comunità cristiane quando il prete è obbligato a preferire la sacramentalizzazione all’evangelizzazione perché rende di più.
Ero in Camerun quando per la prima volta fui obbligato a riflettere sulla situazione economica e familiare del prete diocesano africano. Avevo sostituito l’abbé Rigobert alla chiesa centrale durante la sua visita negli altri villaggi della sua parrocchia. La raccolta delle offerte nella domenica non arrivava a 1.000 franchi!
“Come può vivere questo povero prete? Io non potrei farlo!”. Lui neppure, se, per caso, avesse preteso di vivere… secondo il suo status di capo, o peggio, alla maniera europea. Ma lui non aveva amici in Europa, e neppure una Congregazione religiosa europea…
La parrocchia si trova a 70 Km da Yaoundé con tutte le conseguenze: niente denaro… niente supermercati per acquistare alimenti, niente ristoranti dove mangiare, nemmeno una… pizza, non una donna o… una moglie per preparare, lavare i piatti, fare il bucato e neppure figli per coltivare… fagioli! Niente denaro per pagare persone per condurre la casa. Niente denaro per mantenere la macchina, per curarsi in caso di malattia…
Il denaro diventa una preoccupazione che può ostacolare la fiducia del prete nella… gerarchia e che non gli permette di adempiere serenamente al suo apostolato con i suoi fratelli nella savana come possono fare i suoi confratelli in città.
Non ci sono cristiani solidali che suppliscano a tutto questo. Al contrario vi sono dei “buoni cristiani” con gli occhi aperti sulla casa del prete per controllare chi entra e chi esce dalla canonica! Avevo compreso perché gli “abbés” preferiscono rimanere in città senza la preoccupazione del denaro per soddisfare i loro bisogni… primari.
Il confratello Tiecoura chiede delle risposte alla Chiesa.
A quale chiesa? Nella Chiesa-Famiglia c’è la gerarchia e i fedeli. L’una non può rispondere per gli altri. Ai laici normalmente si domanda l’aiuto economico, alla gerarchia le leggi canoniche per meglio organizzare la vita cristiana e la vita del clero, di cui il celibato è un aspetto. Fondandomi sulla verità che i fedeli domandano alla Chiesa (ai preti) ciò che la Chiesa ha loro insegnato a domandare, è chiaro che soprattutto “i buoni cristiani” vogliono il prete celibe. È quello che essi hanno imparato da sempre senza troppo preoccuparsi delle conseguenze esistenziali, sia affettive che economiche, per il prete.
Se, abbandonando la tolleranza… ipocrita suggerita dal vecchio detto latino “se non castamente almeno cautamente” (cioè nella clandestinità), si rivolgesse l’attenzione sul problema del celibato, io credo che bisognerebbe cominciare da un sincero e realistico dialogo di coscientizzazione con le comunità cristiane perché tutti i cristiani arrivino a comprendere e ad accettare il prete sposato… “uomo di una sola donna” (1 Tim. 3,2).
Però, se i preti arriveranno a disporre della libertà di potersi sposare senza correggere il modo di essere preti, non verrà risolto il problema economico. Egli rimarrà ancora un “mendicante” dell’elemosina dei fedeli, dei ricchi, dei politici o della benevolenza dei Vescovi che distribuiscono il danaro secondo certi criteri, talvolta difficili da comprendere e da accettare da parte degli interessati.
A parte la formazione ricevuta nella mia Congregazione (don Orione) che, per regola, chiede che “ciascun religioso deve saper esercitare un mestiere o un’arte” per guadagnarsi da vivere, dopo la mia ordinazione avevo compreso che, se volevo salvaguardare la mia libertà politica dovevo fare di tutto per salvaguardare la mia libertà economica dinanzi ai miei superiori ed ai fedeli della mia parrocchia.
Questa convinzione non è mai stata una rivolta, bensì una “scelta di vita e di classe sociale”, cioè di semplice fedeltà alle mie origini familiari di lavoratori. Per arrivare a fare la mia scelta di “prete operaio” e prete della parrocchia, io sono partito dalla Sacra Scrittura. Mi sono chiesto all’inizio se Gesù di Nazareth aveva veramente abbandonato il lavoro cominciando la sua “vita pubblica”. Nessuna risposta nei Vangeli.
La pista incoraggiante e liberatrice l’ho trovata nella vita di S. Paolo, operaio e messaggero infaticabile del Vangelo.
“Vi incoraggio a fare sempre meglio. Fate il possibile per vivere in pace; curate i vostri impegni e guadagnatevi da vivere con il vostro lavoro, come vi ho insegnato. Così quelli che non sono cristiani avranno rispetto del vostro modo di vivere, e voi non sarete di peso a nessuno” (1 Ts. 4, 10-12).
“Non sono libero io? Non sono apostolo? … A chi mi critica rispondo così: non abbiamo anche noi il diritto di mangiare e di bere? Non abbiamo anche noi il diritto di portare con noi una moglie credente come l’hanno gli altri apostoli e i fratelli nel Signore e Pietro? O forse solo io e Barnaba dobbiamo lavorare e mantenerci? … Ma noi non facciamo uso di questo diritto, anzi sopportiamo ogni specie di difficoltà per eliminare qualsiasi ostacolo all’annuncio di Cristo. Chi lavora nel tempio riceve dal tempio il proprio nutrimento… io però non ho mai fatto uso di questo diritto. E non vi scrivo per pretenderlo ora. Piuttosto preferisco morire!…” (1 Cor. 9, 9-15).
“Voi sapete bene come dovete fare per seguire il mio esempio. Quando sono stato in mezzo a voi, non sono rimasto in ozio: non mi sono fatto mantenere da nessuno, ma ho lavorato giorno e notte con grande fatica, perché non volevo essere un peso per nessuno. Certamente avevo qualche diritto, ma ho fatto così per darvi un esempio da imitare. Infatti quando ero in mezzo a voi, vi ho dato questa regola: chi non vuol lavorare, non deve neanche mangiare. Ora, sento dire che alcuni tra voi vivono in maniera sregolata: non fanno niente, anzi, fanno continue sciocchezze. In nome del Signore Gesù Cristo, io ordino e raccomando a questi fratelli di lavorare tranquilli e di guadagnarsi da vivere” (2 Ts. 3,7-12).
La ricchezza di questa Parola mi impedisce di aggiungere commenti. Salvo questo: ho fatto l’esperienza gratificante per me ed arricchente per le comunità parrocchiali responsabilizzando i laici nella gestione della parrocchia. Il mio “ruolo” era ben accolto e i miei discorsi erano più credibili. Come esempio aggiungo quello dei catechisti dei villaggi: sono sposati, lavorano, annunciano il Vangelo.
Raffaele Boi
(traduzione di Roberto Fiorini)