“Abita la terra e vivi con fede” (Sal 37)
Rileggiamo oggi la Gaudium et Spes

Convegno di Bergamo 2014 / Contributi


 

1. Conosco i preti operai dal 1950-51, quando lessi il libro di don Godin “Francia, paese di missione”. Ero in seminario a Pavia, e mi ha entusiasmato. All’inizio del 1953 sono entrato nella Compagnia di Gesù. Credo sia stata anche l’esperienza di cui poi racconterò qualcosa che mi ha fatto ritrovare i preti operai. Ed è la scoperta della povertà. Verso la fine del 1972 chiesi e ottenni la riduzione allo stato laicale, per poter continuare a “pensare con la mia testa”.

In quello stesso anno e nel seguente scrissi due lunghi articoli sulla teologia della liberazione (pubblicati sulla Rivista di Teologia Morale: Dehoniani di Bologna)): uno di esposizione, con una trentina di pagine, l’altro di dialogo critico.Tra i vari autori presentati primeggiava Gustavo Gutierrez, prete e teologo peruviano, che nel 1972 aveva scritto un libro intitolato appunto “Teologia della liberazione”, immediatamente tradotto in italiano dall’ed. Queriniana.

L’interesse che mi aveva portato e leggere e scrivere su questo tema era quello teologico: si trattava infatti di un approccio che, sulla spinta del Vaticano II, aveva affrontato il tema della povertà in America Latina per fondare una nuova prassi pastorale. Ma non capii allora che era questo lo scopo, pratico-esistenziale, di quella teologia. Lo capii soltanto dieci anni dopo, quando, nel 1983, andai per la prima volta in Perù. La ragione anche di questo viaggio fu teologica: l’invito dei padri monfortani a proporre un corso di antropologia teologica, della durata più o meno di un mese. In realtà mi accorsi ben presto di non poter svolgere quel corso, perché era giunta la notizia che io ero un ex-gesuita, e quindi non potevo insegnare.

Questa fu una fortuna, perché mi permise di viaggiare per il Perù e di conoscerlo abbastanza bene. La vera scoperta che feci (una scoperta che mi ha sorpreso, stupito, addolorato) fu quella di capire che cos’è la povertà.

2. Ero nato e cresciuto a Belgioioso (Pavia), in una famiglia povera, ma di una povertà dignitosa. Avevo vissuto durante la guerra con le limitazioni anche sul cibo, sulla sua qualità (sia in famiglia che in seminario), ma senza soffrire la fame. Quando sono arrivato a Lima, dopo pochi giorni mi hanno portato a vedere una zona vicina alla chiesa parrocchiale dei frati monfortani. Sono rimasto sconvolto. Non posso dimenticare la prima abitazione in cui sono entrato: pochi metri quadrati erano lo spazio in cui una famiglia – genitori e figli – facevano tutto: mangiavano, dormivano, lavoravano.

3. Per un mese sono andato con un nodo alla gola ogni volta che entravo in una di queste “case”. Poi mi hanno trasferito da Lima, perché lì era inverno (luglio- agosto), e in quella stagione non si vedeva mai il sole; mi hanno portato in una cittadina fuori 25-30 km dalla capitale, a circa 500 metri di altitudine, dove da mezzogiorno alle ore 18 si riesce a vedere il sole. Sono rimasto lì facendo alcune conferenze o anche omelie; poi mi sono prefisso di fare una conoscenza più ampia del Perù, visitando i luoghi più importanti (Cuzco, Arequipa, lago Titicaca, Huànuco…). E’ stato allora che ho capito qual è il significato della Teologia della Liberazione: non tanto un arricchimento intellettuale quanto uno studio da cui doveva nascere – ed è nata – una nuova prassi: condivisione e promozione della vita dei poveri, “opzione preferenziale” per essi.
Sono rimasto in Perù quasi tre mesi, di cui non posso raccontare la ricchezza umana e spirituale. Mi ricordo di aver composto allora una canzone per mia moglie, che le ho cantato quando sono tornato in Italia: ”Amore, non è andato perduto / questo tempo passato / sull’altra riva del mondo…”. In qualche modo le prospettavo la possibilità che decidessimo di vivere ambedue in Perù.
Questo non è avvenuto; ma per me il rapporto col Perù non si è cancellato. Per diversi anni attraverso le iniziative del Centro S.Apollinare a Fiesole (dove ho vissuto 29 anni) ho raccolto somme discrete da inviare ai padri monfortani che lavoravano in Perù.

Accanto alla scoperta della povertà, e intrecciata con essa, l’esperienza peruviana mi ha aperto un’altra dimensione, stavolta culturale. Ho appreso che c’era stata una civiltà e una religione originaria che meritava di essere studiata: quella della Pacha Mama, cioè della Madre Terra. Ho fatto molte letture su questo tema (l’interesse per le religioni primitive era nato durante lo studio della teologia all’Università Gregoriana). Tornato a casa, ho scritto alcuni articoli, e poi, su richiesta della EMI, un libretto: “L’oro del Perù: la solidarietà dei poveri”.
Sono tornato in Perù cinque anni dopo (1988) con la moglie e un amico di Mestre. Questa volta non fu un invito ricevuto, ma un’iniziativa mia: prepararmi ad affrontare con seria competenza, nel 1992, il quinto centenario della scoperta/conquista dell’America. Fummo accolti come ospiti ancora dai monfortani, rivisitammo i luoghi più interessanti del Perù; ma il mio scopo principale era quello di cercare e acquistare testi su cui prepararmi in vista del “quinto centenario”: ne raccolsi una novantina (tra libri e riviste), che potei acquistare (dato il prezzo peruviano allora irrisorio) e trasportare ( data la collaborazione di moglie e amico).

Per cinque anni ho occupato il mio tempo libero leggendo questi testi, e maturando una posizione equilibrata: tra la celebrazione della “scoperta” e la denuncia della ”conquista”; puntando soprattutto a capire come avesse fatto presa la “evangelizzazione”. Su questa ho anche scritto diversi articoli e organizzato, sempre nel Centro sant’Apollinare di Fiesole, seminari tenuti alcuni da me e altri da studiosi latino-americani.

4. Una delle cose che mi hanno aiutato di più a restare vicino al Perù e sensibile al problema della povertà, sono stati dei canti. Mi limito a farvi sentire uno di questi canti.

Sono nati senza difesa e senza rifugio
e il volto confuso con la terra,
hanno saziato la loro fame con miserie
di spine han riempito la loro bocca.
Le mani incallite
e il volto oscurato e appassito
dal sole e dal vento
e dalla sofferenza.

Rit. Dai poveri della terra,
dalle Ande tremano
Cristi che lottano e soffrono,
figli benedetti del Signore.
Il loro sangue fervente e fecondo
redime tutta la terra.

Con denaro ammucchiato a piene mani
comprano la giustizia e le coscienze;
si spegneranno le loro vite,
non brillerà il loro Spirito.
Poveri e umili della terra,
sarete voi a salvare il mondo,
frumento piccolo e fecondo,
carne del Cristo vivente.

5. Ecco perché è rinato dentro di me l’interesse per i “preti operai”: perché vi ho colto una modalità seria e forte di accompagnare la vita di chi è povero, di condividerla, e di fare di questa condivisione una testimonianza della propria fede. E’ stata la coniugazione della condizione sacerdotale con la vita dei bisognosi che mi ha fatto capire che essere “preti operai” non significava tradire la propria vocazione ma muoverla nella direzione del servizio, della solidarietà; in quella direzione secondo la quale si era mossa la teologia della liberazione.
Con questa scelta non si abbandona Dio per cercare gli uomini, ma si cerca Dio negli uomini: lo si ”ama” facendo la sua volontà, che è appunto “amare il prossimo”, cioè “farsi prossimi” a chi è nel bisogno: ai “poveri” nel senso più ampio del termine: non soltanto gli affamati ma gli ammalati, gli stranieri, gli orfani, i carcerati…
Non dovrebbe essere questa la missione fondamentale della chiesa? Evangelizzare, sì; ma non soltanto con la parola, bensì con la vita, con il vangelo della carità vissuta.

ARMIDO RIZZI


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