Ci scrivono
Caro Luigi,
lo spunto per esprimere i miei pensieri riguardo alla tua riflessione: “Parlare di Dio e pregarlo in questa terra sempre più straniera” mi viene da due brani del Nuovo Testamento. Il primo è la meditazione della parola di Gesù in Luca 13, 22-30: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi ma non vi riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta dicendo. Signore aprici. Ma egli vi risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete. Allora comincerete a dire: ma Signore, abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze. Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori d’iniquità!”.
Parole molto severe che hanno messo in crisi la mia sicurezza e scuotono la “beata” tranquillità delle nostre comunità parrocchiali.
…”quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno i primi e alcuni tra i primi che saranno gli ultimi”.
Quello che chiude le nostre voci, le nostre coscienze, il nostro cuore, quello che ci impedisce di pregare Dio e di parlare di Lui, è la nostra vita malvagia che non cerca la verità e la giustizia.
Il secondo brano mi è proposto dalla liturgia del tempo ordinario ed è il cap. 3° della seconda lettera ai Tessalonicesi. L’Apostolo Paolo ci ammonisce: “Vi ordiniamo, fratelli, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, di tenervi lontani da ogni fratello che si comporta in maniera indisciplinata e non secondo la tradizione che ha ricevuto da noi. Sapete infatti come dovete imitarci: poiché noi non abbiamo vissuto oziosamente tra voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare, neppure mangi.
Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono disordinatamente, senza fare nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace…”.
Di fronte a queste parole, caro Luigi, dobbiamo innanzitutto affermare con decisione che la spiritualità dei preti operai, che le tue riflessioni incarnano e sviluppano, ha pieno diritto di cittadinanza nella chiesa, anzi dobbiamo gridare forte che questa è la forma normale per essere testimoni della buona notizia di Gesù.
I “beati” professionisti del sacro, Gesù non li vuole.
La sua comunità, la Chiesa, è un popolo umile e povero che segue il comando e l’esempio del Maestro di mangiare il proprio pane, lavorando in pace.
E invece, caro Luigi, guarda che cosa succede nella chiesa, tutto il contrario, c’è una moltitudine di “professionisti” che campano con la religione. Questa non è la volontà di Dio. Gesù ha scelto l’ultimo posto, il più umile… un lavoro manuale per mantenersi. I suoi seguaci devono seguire il suo esempio, compiendo delle scelte anche coraggiose.
E allora, innanzitutto accogliamo nella chiesa, con gioia, la testimonianza dei preti operai; chiudiamo i seminari “minori” e cerchiamo le vocazioni nelle nostre comunità parrocchiali seguendo un percorso educativo che non li estranei dalla vita professionale quotidiana.
Lasciamo che lo Spirito diffonda nella chiesa la spiritualità dei preti operai che lavorano manualmente per mantenersi e per “campare”.
Auguriamoci che ci siano anche vescovi che abbandonino le curie e scelgano di testimoniare il Vangelo, guadagnandosi da vivere con un lavoro umile e manuale. E allora potremo cantare e lodare Dio per questo rifiorire di doni dello Spirito nella chiesa, suo popolo, in cui si rifiuta la violenza e l’autoritarismo e si testimonia la condivisione umile della fatica quotidiana del vivere, mangiando il pane guadagnato con fatica, in pace.
Caro Luigi, mi è sembrato innanzitutto doveroso dire queste parole per contribuire a togliere dal nascondimento l’esperienza dei preti operai che ormai da oltre mezzo secolo cercano di porsi in modo visibile nella Chiesa, nonostante il continuo tentativo dei vescovi e del papa di dimenticarli non parlandone mai. Questo filone di spiritualità, nella chiesa, nonostante tutti i tentativi di soffocarlo, grazie a Dio, è ancora presente e vuole essere accolto e valorizzato.
Certo, dobbiamo riconoscere che la testimonianza dei preti operai dà fastidio. È un modo di proporsi troppo diverso rispetto all’istituzione ecclesiastica che cerca invece il consenso dell’opinione pubblica con le grandi adunate dei convegni, dei meeting e dei pellegrinaggi, che cerca sempre il riconoscimento della pubblica autorità per avere visibilità.
Il prete che fa l’operaio, spesso è solo, e con fatica riesce a radunare una comunità per l’Eucaristia. È una scelta radicalmente diversa di essere prete e di vivere la fede. I preti operai annunciano a tutti l’incarnazione di Dio in Gesù, umile fratello, che sceglie una vita austera e povera per condividere con tutti il peso della vita quotidiana che si esprime soprattutto nel lavoro manuale, salariato. Come l’apostolo Paolo si affaticano giorno e notte lavorando con le proprie mani; ma in questo modo sono testimoni liberi e credibili dell’amore gratuito di Gesù per tutti.
Naturalmente, caro Luigi, con questa scelta, vanno in crisi e saltano i modelli tradizionali di riferimento di espressione della fede. Quel modo parrocchiale, diocesano, vaticano di vivere la propria religiosità, va in crisi e si rimane disorientati. D’altra parte, l’annuncio sconvolgente che Dio si è incarnato in Gesù ed è presente nella nostra umanità, ci obbliga a cercare la sua presenza nel contesto storico in cui viviamo, sentendoci interpellati dal nostro mondo globalizzato con tutti i suoi problemi.
Mi piace quell’immagine dei tre numeri 250-80-12 che possono rappresentare la drammatica situazione di degrado e di ingiustizia della nostra umanità che ci impedisce di essere ottimisti… (l’avevo sentita in una citazione di Lanza del Vasto, testimone della nonviolenza).
Non può meravigliare che in questo contesto… il parlare di Dio, il pregare, diventino problematici.
Ricordati della parola di Gesù: non chi dice Signore, Signore… entrerà nel Regno di Dio… ma chi fa la volontà del Padre… ogni giorno. Forse se pensassimo di più a essere fedeli alla parola di Gesù, sospenderemmo subito quel fiume di parole che a volte diventano le nostre preghiere. Caro Luigi, sto continuando a riflettere sulla provocazione delle tue riflessioni… alcuni aspetti non mi sono ancora chiari completamente: ti farò sapere, ti racconterò anche la mia esperienza di prete operaio, salariato, forse un po’ solo… in cerca sempre di una comunità con cui pregare e lodare Dio e fare eucarestia…
Ciao!