CIVILTÀ TECNOLOGICA, SFRUTTAMENTO, EMARGINAZIONE
“La fede interroga i progetti”
Convegno nazionale PO 1986
8) Dopo Firenze…
Il numero zero della nostra rivista si chiude con queste pagine di Gianni Tognoni, uno dei nostri più cari amici.
Una proposta ai PO lombardi
Nota di lettura
Il testo che segue è di fatto una lista di appunti, ordinati in modo da permettere di seguire un ragionamento.
Il contesto generale a cui vorrei rimandare è il testo che una volta ho scritto sulle “memorie “dei Preti Operai della Lombardia: non tanto evidentemente per il fatto di averlo scritto, ma perché, più prendo le distanze da quell’occasione che l’ha provocato, più sento che quella è una griglia di lettura che sembra generalmente valida anche a chi di preti e di operai ha solo sentito parlare.
L‘altro testo di riferimento, da ricordare soprattutto in fondo per la proposta, è quello sulla storia della Redaelli, “Le Due Morali”. Ma di questo parlerò meglio dopo.
Come si addice ad appunti, è più semplice procedere attraverso una serie di affermazioni.
A. Il quadro di riferimento
1. Essere pretioperai significa condividere la situazione di tutti coloro che, nella loro microstoria, sono portatori di un’idea molto grande, tale da sfidare le regole della macro – storia.
La scelta che si fa presente dentro, non da un punto di vista razionale, ma come un bivio istintivo della conoscenza (o della stanchezza), è quella tra vivere questo stato di sproporzione o come “minoranza – lievito”, o come “pretesa”:
* La “minoranza – lievito” è quella che trova in sé la giustificazione profonda, naturale, totale, di essere quello che si è;
* la “pretesa” è quella che, in un modo o nell’altro, dipende da un riconoscimento esterno, da un’istanza non necessariamente identificata, per poter vivere con pienezza di significato.
2. Essere portatori – nella microstoria – di un’idea grande coincide con l’essere membri e nodi di un popolo che ha come caratteristica quella dell’ esilio, e perciò della nostalgia.
Questo popolo di esiliati – o di guerriglieri di una lotta di liberazione – è quello che fa la storia nel suo significato più essenziale, perché ne rivela il senso: cioè l’incompiutezza ed insieme il rischio, la tentazione, la violenza di cancellare la nostalgia, il cammino in avanti.
3. Anche se li rimangia, la storia sarebbe deserta senza questi esiliati portatori di nostalgia. Perché essi dicono la storia che vorremmo vivere. Un’altra non ci interesserebbe.
Quando riconosciamo, nella storia – grande, le persone che ci dicono qualcosa, è come se tracciassimo la mappa di quel popolo che vorremmo essere. È come se raccontassimo o ci accorgessimo di una storia del nostro sguardo: noi siamo capaci di vedere solo con quegli occhi. Anche se, a volte, vien voglia di chiuderli, o di desiderare di avere uno sguardo diverso.
4. Questo sguardo – necessario, che ci portiamo dentro, ci fa vedere soprattutto e ripetitivamente le bugie della macrostoria. Queste bugie sono molto concrete: sono le protagoniste del quotidiano. Sono molto normali, al punto che rendono difficile continuare a credere che ci sia spazio per i portatori di nostalgia. Più ancora: che abbia senso avere nostalgia. Addirittura: che sia la nostalgia ad essere, forse, una cosa falsa.
5. La macrostoria minaccia i portatori di nostalgia di “dissociazione”. Di essere non solo i perdenti, ma coloro che hanno torto, che non hanno senso.
L’utopia che non diventa più un futuro, che emerge in un posto e in un tempo che non si sa, ma che in ogni modo ha un posto e un tempo certi, anche se non identificabili nella storia dell’amore dell’uomo. L’utopia che coincide con il significato letterale: il non – luogo. Il miraggio. Il dubbio della follia.
Perché si è soli a ripetere che la nostalgia è il vero rivelatore della storia dell’uomo. Gli altri – gli Alberoni, le chiese o le istituzioni – dicono con sempre più normalità di sapere il dove va la realtà, e come si creano gli equilibri vivibili.
B. Il contesto della fede
Siamo coloro che interpretano le parabole rappresentandole, come in una grande recita nella quale ci è toccata la parte del lievito: che non sa se la massa fermenta, se fermenta male o bene. Lievito come potenzialità certa: ma anche come caso.
Teologia della liberazione non come tesi, o identità, o strategia di una chiesa che cammina al passo con i tempi, e risponde con nuove parole o prassi alle esigenze diverse che emergono, ma come intuizione – istinto di dover vivere così, perché è quello che ci si trova dentro come modo di guardare e di vivere: e che in qualche caso, qui o là, diventa come massa che cresce.
“Vangelo” come gusto – sguardo che capita di aver dentro. Come allegria (che a volte si fa dramma) di un modo di vivere: scelto? donato? È là. È molto integrato nello sguardo, nella nostalgia. Come si fa a distinguerlo?
C. Il contesto del “mio – nostro” vivere
La nostalgia è un’identità. Registrati all’anagrafe del popolo – lievito – che – non sa – quale – sarà – il – suo – destino.
Cammino di rivoluzionari, che giorno per giorno sanno che la guerra di montagna non è solo un camminare per una selva verde piena di fascino.
Se la nostalgia è l’identità – anagrafica, la speranza non è qualcosa che dobbiamo trapiantarci dentro periodicamente per darci senso.
Non si può vivere ogni giorno giustificando i sacrifici in nome dei principi generali, o di riflessioni complessive, o della convinzione che bisogna aver pazienza perché un giorno la guerra di liberazione finirà.
Quando la nostalgia riguarda la storia nel suo complesso, ad una guerra di liberazione ne segue un’altra: non perché siamo malati della malattia del guerrigliero, ma perché il confronto tra la grande – idea e la grande – opacità è la sostanza stessa, l’identità, del nostro essere popolo – del – lievito.
La speranza – nostalgia come logica – modo di camminare, tessitura della nostra lingua e del nostro sguardo.
In questo cammino, l’essere “preti – operai” non è legato al significato letterale delle parole che ci definiscono. Siamo coloro che hanno lo sguardo e parlano la lingua di tutti gli ultimi. Ci troviamo agli incroci e ai punti di confluenza di tutti coloro che recitano la parte del lievito. E che la recitano in una storia nella quale i critici – che raccontano come è andata la rappresentazione – sembrano sempre più interessati a fermarsi sulla massa, dimenticando la lunga avventura del lievito.
D. Per un linguaggio ed un’identità del lievito
Occorre salvare l’allegria, la paura, lo sguardo, la stanchezza, il futuro degli esuli. Perché la storia non sia solo raccontata dai critici che hanno visto la rappresentazione e che sono stati presi dalla massa.
Occorre raccontare, scrivere, comunicare la grammatica di quel linguaggio di nostalgia che solo il lievito conosce e continua a praticare, nei posti più impensati del mondo e del tempo; affinché si salvi l’idea e la coscienza di essere popolo, e non guerrigliero disperso in una selva nella quale arrivano messaggi che la guerra è finita e che allora noi siamo dei folli.
Dobbiamo ridarci un linguaggio quotidiano, che ci permetta di riconoscerci, di comunicare, tra noi e con gli altri, non per opporci al linguaggio dei critici e della massa, ma per vivere la nostra vita, e permettere che altri possa continuare ad incontrare la nostalgia.
Così che possa ripetersi la sorpresa e l’allegria che abbiamo anche noi sperimentato, e sperimentiamo, quando nella storia, passata e presente, incontriamo ed ascoltiamo il racconto di coloro che hanno dato senso alla storia.
Dobbiamo partecipare al racconto della storia da parte degli ultimi – lievito. Salvare la lingua di questo strano affascinante popolo, che ha attraversato tutta la storia parlando un linguaggio sorprendentemente riconoscibile a distanza di secoli e continenti: popolo della Bibbia vecchia e nuova, dei francescani e piccoli fratelli, di operai emergenti in popolo, di neri, palestinesi, nicaraguensi, eritrei, emarginati, morti di martirio e di fame.
Perché una lingua si salvi deve essere parlata, giorno per giorno, non solo nei trattati o nelle riflessioni, o negli esami di autocoscieuza.
La proposta che si fa è quella di parlare e di ricordare giorno per giorno la nostra storia di lievito che incontra le potenzialità e le opacità della massa.
Esercizio di dire la nostra verità quotidiana, perché nel grande rumore della macrostoria non venga minacciata dall’invasione delle interpretazioni ufficiali, che ci condannerebbero a vivere da eroi, o da specie in via di sparizione da rispettare.
Esercizio di identità quotidiana: in cui ci accorgiamo di esistere.
Proposta di osservatorio degli ultimi.
Scrittura della teologia della speranza di liberazione, come diario della prassi di liberazione, del suo scontrarsi con la negazione e la ri-emergenza della speranza, e del significato.
Ri-alfabetizzazione permanente della nostra identità di esuli, per non cadere in un analfabetismo di ritorno.
Costruzione concreta della storia da raccontare agli amici – figli di oggi e domani, non con il linguaggio retorico delle celebrazioni periodiche o postume, ma con la sobrietà di chi vede e vive ciò che vuol comunicare.
Scrittura messa a disposizione di tutti coloro che vogliono incontrare l’utopia, non fuori ma dentro la storia, il quotidiano.
Documentazione del giudizio e dell’esperienza che della macrostoria danno ed hanno coloro che l’utopia non vanno a cercarla altrove, ma l’hanno dentro.
Perché noi, e altri ultimi, coloro che vogliono, non diventiamo dipendenti da lingua straniera, o malinconici reduci da guerre, che non si sa più – a distanza – se sono state vinte o perse, e che senso avevano.
Anamnesi scritta, giorno per giorno, perché possa abitare fra noi, molto sobriamente, come una casa da finire nel quotidiano, la “memoria del fuoco”, delle notti e dei giorni di una guerra che è (stata) anche amore (vedi Eduardo Galeano, Nuto Revelli, Manuel Scorza…).
E. Una proposta
Ognuno di noi scrive il proprio diario di lievito. Come un diario dei nostri incontri, dentro e fuori, con la massa della pasta. Diario di allegria e di stanchezza.
Parole non interpretate, ma buttate là quando incontriamo – vediamo: la nostra esperienza di lotta nel mondo “operaio” (fabbrica, scuola, quartiere. .); lo sdegno che ci prende davanti agli apartheid; la delusione per i tradimenti; la sorpresa per i momenti alti in cui “verità” singole o collettive si impongono sulla macrostoria (le persone meravigliose che incontriamo o di cui sentiamo raccontare, i piccoli – grandi nicaragua); i racconti – poesie, scritte o vissute, che ci fanno accorgere che siamo in tanti ultimi a continuare a vivere, e ad avere voglia di essere popolo in cammino e che “nonostante tutto” continua a dire – affermare la propria allegria di essere quello che si è.
Questo diario si scrive come un diario. Quando vien voglia, quando si è presi dentro, quando si immaginano vie di futuro, quando non si vede più il senso. Pezzi di carta. Quaderni regolari. Non importa il materiale. Durante un certo numero di mesi – da dicembre ad aprile? – diario della nostra ricerca quotidiana di liberazione, documentazione del linguaggio che ci portiamo dentro, senza mediazioni: linguaggio della politica, della religione, del desiderio personale, dell’economia, dell’imprecazione, dell’analisi, della citazione di cose – testi – persone che rivelano pezzi di storia nostra e del mondo.
Ne dovrebbe uscire, naturalmente, lo specchio di quello che siamo, speriamo, vogliamo. Osservatorio scientifico – cioè aderente alla realtà delle cose e della vita – della nostra identità, che è anche quella dei tanti ultimi. Scrittura del libro dei racconti con i quali confrontarci, e da tramandare. Verifica di essere ancora vivi, o di essere reduci, di avere una lingua che parla e che ha senso, o di essere fatti di reminiscenze e di luoghi comuni.
Materiale per dirci la verità, e per decidere se siamo ancora contenti di essere preti – operai – popolo – lievito, o se questa lunga avventura non ha più posto nella nostra vita. Per non finire per lisi progressiva, o per adattamento.
Per essere quello che siamo in un mondo che ci attraversa, per vedere se siamo sempre in grado di attraversare noi il mondo come portatori di una grande semplicissima idea di verità e di allegria, con tutta la varietà delle nostre motivazioni, degli stili, dei linguaggi, dei lavori.
F. Della scientificità e della testimonianza
Quanto è stato proposto può apparire un residuo di vecchie abitudini adolescenziali: il tempo appunto dei diari. O un esercizio di quel genere letterario un po’ obsoleto che sono le testimonianze. Se lo si fa, come ci interessa farlo, da adulti che sono confrontati con le sfide di cui abbiamo parlato, il rischio – diario si trasforma in un’azione di ricerca collettiva, molto solida, di significato, di intelligenza, di verità.
Il libro di Cesare nella – più che sulla – Redaelli, è un buon esempio. Sguardo quotidiano, semplicemente molto vero perché molto personale, su fatti, grandi e piccoli, che altrimenti sarebbero stati, al massimo, cronaca, trafiletti di giornali. È diventato quel genere raro che è la memoria: sua e di tanti. E con ciò, memoria di una storia grande che nessuno avrebbe potuto più ricordare – raccontare – apprendere – scegliere.
La storia degli ultimi è fatta di queste possibilità quotidiane: di esserci, e di divenire memoria scientifica e personale; o di essere accaduta a qualcuno e non essere più rintracciata.
Utopia – per quanto perdente – che segnala il luogo dove c’è la verità di uomini che hanno vissuto; o utopia, come luogo che non esiste, e che perciò può essere irriso, o negato.
Lavoro scientifico sulla lingua di persone vive. Come si chiama questa lingua? Evangelizzazione? Lotta sociale? Animazione? Mi sembra che una lingua abbia bisogno anzitutto di essere parlata, e dare a coloro che la parlano l’allegria e l’esperienza di liberazione di riconoscersi. La catalogazione delle lingue in una o in un’altra categoria è un problema che riguarda le lingue morte.
Mi piace, per ora, immaginare di poter insieme scrivere un libro “Grammatica degli ultimi”, che sia – per noi e per 100, 1000… persone – un luogo di incontro con la nostalgia concreta che nella storia fa vivere tutti coloro che non hanno il tempo – potere di decidere se e quando la propria identità è compatibile con le anagrafi ufficiali.