Editoriale


 

È diventato luogo comune parlare delle macerie della nostra vita politica. Si vorrebbe portare altrove l’attenzione, ma è difficile. Perchè quello che avviene nella vita pubblica ci ferisce, perchè quando i momenti diventano duri sono sempre i più deboli a soffrire e perire, perchè il cinismo e la corruzione se da un lato vengono a galla, oscenamente smascherati, dall’altro stanno covando nuove uova cercando nuove forme di legalità apparente.
Sembra il tempo dell’impotenza; invece è proprio questo il tempo di lottare facendo appello alle riserve di energia, alle ragioni più vere ed alla più lucida ragione. Ciascuno cerchi quel nucleo di luce che abita nel profondo o quel sogno che non ha del tutto dimenticato. È tempo di riprendere la parola, di comunicare tra umani, perchè il rischio è proprio l’eclisse di quanto è umano in noi, l’appiattimento di ogni soggettività e della dimensione comunitaria del nostro vivere.

 

Dopo il 31 luglio

Il 31 luglio è una data da ricordare!
Le fabbriche chiudevano per le ferie. Si entrava nel periodo vuoto di aggregazione dei lavoratori, di impossibilità a mobilitarsi. Il tempo giusto per l’accordo sulla cessazione della scala mobile e sul blocco della contrattazione aziendale.
Che il governo giochi in questo modo le sue carte, non scandalizza nessuno. Che i leaders sindacali facciano fessi in questo modo i lavoratori che rappresentano, è intollerabile.
Si è consumato un rito il cui esito inevitabile è l’approfondimento della sfiducia nelle istituzioni sindacali. Oltre ai contenuti dell’accordo, la cui vera natura è apparsa negli atti successivi del governo, è lo stile, il metodo, il cinismo con i quali si è proceduto. Si firma nel momento in cui gli interessati primi sono nella impossibilità di abbozzare qualunque reazione immediata. Emerge la figura di un sindacato alieno, che abusa della rappresentanza, che giustamente si è preso i fischi e i pomodori. Anche qualche bullone, e su questo non sono d’accordo. Aggiungendo subito però che la violenza prima e scatenante è trattare da idioti milioni di lavoratori, consumando una frode sfacciata ai loro danni. La perversione più grande è disattivare i loro strumenti di difesa, disarticolare le loro capacità di reagire, condannarli al silenzio.
Le piazze che si sono riempite sono state un segnale forte: una reazione spontanea, cosciente della gravità dei momenti che si stanno vivendo e della posta in gioco per operai, pensionati e per le classi subalterne.
I Consigli che si autoconvocano e ricercano modalità di coordinamento permanente, rappresentano in maniera evidente la crisi di rapporto con leadership sindacali che prediligono ricevere gli attestati di legittimità dal governo e dal padronato e che faticano sempre più ad occultare il fiancheggiamento a questa o a quella corrente di partito politico. La domanda che emerge fortissima verte proprio sulla affidabilità degli attuali vertici sindacali e dell’esercito di funzionari, sulle procedure della loro selezione, sugli equilibri “politici” che debbono essere garantiti, sui meccanismi che portano alle decisioni.
La richiesta che viene fortissima dalle piazze, dalle assemblee e dai processi di autoorganizzazione ha questo significato: “vogliamo un sindacato dei lavoratori, non per i lavoratori”. Un sindacato proprietà dei lavoratori.
Il sindacato non ha altra fonte di legittimazione se non i lavoratori. Il sollevamento della base è esploso in un momento nel quale un regime sta andando a rotoli ed escono dall’ombra scenari di corruzione politica articolata e capillare. In questa fase di transizione un attacco pesantissimo viene portato allo stato sociale ed alle garanzie che in decenni di lotte sono state conquistate per le classi più deboli. Alcuni atti governativi, sottratti mediante il voto di fiducia ad una vera dialettica parlamentare, bastano per lacerare il telo di protezione che la legislazione sociale e sanitaria garantiva, almeno in linea di principio. Nella sostanza la gestione della materia previdenziale viene requisita dalle controparti per avere assoluta libertà di manovra in materia di pensionamenti e prepensionamenti. L’annunciato riordino del sistema previdenziale che lo stesso regime ha fatto prosperare, le cui sperequazioni ed iniquità erano sotto gli occhi di tutti, è il pretesto per imporre ai più deboli tagli sostanziosi, mentre un minimo di equità fiscale rimane un’araba fenice invisibile ed irraggiungibile.
Per la sanità si prevede una sterzata decisa rispetto alla impostazione della legge 833 interprete del dettato costituzionale che sancisce l’interesse pubblico e sociale della salute dei cittadini. Sempre più questa è vista come bene privato e individuale, la cui difesa rientra nella logica del mercato. Una sorta di scala mobile a rovescio colpisce chi ha la sfortuna di aver bisogno dei servizi sanitari.
“Saremo tutti più poveri”‘ dicono gli opinion leaders, facendo eco ad Agnelli che profeticamente aveva annunciato che “la festa è finita”. La Commissione ministeriale sulla povertà ha calcolato che i poveri in Italia si avvicinano ai 9 milioni (Secondo rapporto sulla povertà, Franco Angeli 1992). l dati si riferiscono al 1988. “È la media europea. Ma una media comunque elevata” – ammette il ministro degli affari sociali Bompiani. A seguito della manovra si prevede un loro “arrotondamento” di 700.000 unità (alle previste 300.000 se ne aggiungono altre 400.000). Non è vero che tutti saremo più poveri. È vero invece che aumenta la distanza tra i ricchi più ricchi e una massa, destinata ad aumentare, di veri poveri.
Sicuramente una molla che ha portato i lavoratori in piazza è la paura di piombare da una situazione di relativa sufficienza, a volte anche di piccolo benessere, al di sotto della soglia della povertà. Quando vengono colpiti, simultaneamente con una manovra a tenaglia, occupazione, salari, sanità, pensioni, casa, basta poco perché famiglie anche a doppio reddito da lavoro dipendente entrino in fibrillazione.
“Nelle grandi aree urbane la maggioranza delle famiglie vive in un equilibrio precario. E basta la perdita di uno stipendio o della casa a equo canone perché dalla relativa tranquillità si scivoli nella fascia del bisogno” (G. M. Fara, presidente ISPES).
Tornando al discorso sindacale per tentare una lettura delle lotte organizzate contro la manovra governativa, sembra di dover porre alcuni interrogativi che hanno la funzione di chiarire la qualità dell’azione sindacale, il senso stesso delle lotte.
Gli scioperi e le manifestazioni sindacali hanno l’obiettivo di bloccare questa manovra governativa proponendo un cambiamento di logica?
Oppure le richieste riguardano alcuni ritocchi da contrattare lasciando inalterata la sostanza?
O addirittura manifestazioni e scioperi, con le alchimie della gradualità, hanno la semplice funzione di contenere la protesta e lo sfogo popolare, quale compito che spetta al sindacato assolvere?
Che cosa deve succedere ancora per arrivare a proclamare uno sciopero generale? Perché questa azione di lotta estrema non viene utilizzata per dare un segnale preciso, come inizio e rilancio di una decisa azione sindacale?
I segnali allarmanti che sono pervenuti nel processo politico della unificazione europea, la crisi che investe l’occidente per una maggiore efficienza del sistema, le esasperazioni della cosiddetta libertà di mercato con i sussulti ai quali abbiamo assistito negli ultimi mesi, lo sfaldamento dei partiti che sono stati l’asse del regime politico italiano, l’uso della crisi economica per imporre modalità di governo maggiormente autoritarie … sono tutti motivi che fanno da cornice al bisogno nuovo di sindacato. Non di un sindacato in più che si aggiunga a quelli esistenti, ma di un modo nuovo di essere e fare sindacato.
Come nel mondo politico, così in quello sindacale, per troppi aspetti speculare al primo, vi è un cascame che non ha più alcuna ragion d’essere, una strutturazione che non può più essere riverniciata per apparire presentabile. Una nomenclatura che mette in discussione il diritto all’autoconvocazione, che teme il confronto con i lavoratori, che ha bisogno della polizia per farsi difendere, dichiara di non possedere una leadership reale. Il congelamento di un tale stato può essere davvero pericoloso, considerando il quadro economico, sociale e politico nel suo insieme.
L’espulsione di milioni di persone dal lavoro e l’aumento massiccio della popolazione povera significa la loro costrizione ai margini dello spazio sociale. Tale fenomeno unito alla crisi della rappresentanza reale delle istituzioni sindacali lascia apparire un vuoto di rapporti organizzativi che si ispirino a valori e progettualità comuni e condivisibili. Un vuoto di democrazia che rischia di essere colmato da forme degenerate che già compaiono sotto il segno dell’intolleranza, dell’arroccamento nel proprio particulare, delle guerre tra poveri, della ricerca del nemico quale minaccia che prende corpo in ogni diverso. Quando è perduta la speranza di una ripartizione minimamente equa per tutti di beni, servizi e di quanto è necessario per sentirsi parte legittima di una comunità, allora facilmente diventa nemico chiunque minaccia il mio pezzetto.
Ora più che mai c’è bisogno di sindacato. Vi è dovere etico e politico di essere e fare sindacato perché quello che è in gioco è molto più di quanto è minacciato dalla manovra Amato. Una democrazia si difende unicamente con la sua pratica quotidiana e cercando consensi e convergenze su grandi mete che affondino le radici in valori umani autentici da condividere e per cui lottare.
Per questo serve ed ha senso solo un sindacato dei lavoratori che trovi continuamente la sua forma espressiva, decisionale ed organizzativa a partire dai soggetti che operano nei luoghi ove avvengono i processi lavorativi e sociali.
È questo il segnale più chiaro della reazione al 31 luglio

Nostalgia

Non intendo la voglia di passato, né la memoria mitizzata di fatti personalmente significativi. Neppure il contorno emotivo che solitamente si accompagna a questa spina.
“Nostalgia è il recupero, al tempo stesso trepido e appassionato, della realtà e della sua origine, o meglio della realtà nella sua origine” (U. Perone, Storia e antologia. Roma 1976, p. 32).
Nostalgia, dunque, dice rapporto con la densità della realtà percepita nella sua verità. E dice frattura e lacerazione quando le parole che alludono a quella realtà sono stemperate, consumate ed equivoche, tanto che non si sa più quello che vogliano dire. Così amare la verità è anche lottare per salvare il significato delle parole, riscattandole dalla corruzione cui sono piegate dall’uso strumentale, dalla volontà di dominio e di potere.
La nostalgia si concentra sugli aggettivi cristiano e cattolico. Nostalgia è anche passione e desiderio. Desiderio che queste grandi parole vengano riconsegnate alla disciplina dell’arcano, quella alla quale si esercitava Bonhoeffer quando nell’orrore del carcere nazista, cercava la parola cristiana per quanti dovevano mettere mano alla ricostruzione, dopo la dissoluzione di un mondo che aveva annullato ogni senso umano della vita.
Ormai da decenni con l’aggettivo cristiano si identifica un partito politico, cioè una parzialità, un elettorato, una organizzazione, un insieme di correnti, una gestione del potere … la Democrazia Cristiana. Analoga sorte tocca all’aggettivo-sostantivo i cattolici. Le grandi realtà che con queste parole si dovrebbero nominare e che proprio nella precisione del loro significato teologico evocano la dimensione universale, l’orientamento ed apertura verso tutti, vengono miseramente costrette in un imbuto, snervate della loro forza; vengono condannate ad un travestimento che le rende irriconoscibili.
Nostalgia di parole che sono state esiliate nel loro vero valore.
Qualche anno fa un cardinale che occupava un posto di prim’ordine nella direzione della CEI, interpellato sul perché della …sordità della gerarchia italiana ai problemi posti dai pretioperai, si lasciava sfuggire una confessione molto significativa: “il vero problema per voi PO non si pone tanto a livello della fede, quanto sulle garanzie della vostra affidabilità politica ”.
Chi è inaffidabile politicamente è privo di quella nuova circoncisione che viene richiesta quale garanzia per non essere condannati alla marginalità nelle dinamiche della organizzazione ecclesiale.

Ormai da decenni noi PO denunciamo la degradazione a cui il cristianesimo viene sottoposto, la sua riduzione a strumento di potere, l’uso ideologico cui il dono santissimo è condannato, piegato alla copertura di una bandiera, di una sigla, di un simbolo elettorale.
Le oscenità portate alla luce in questi ultimi tempi, non attribuibili a semplici disonestà individuali, ma ad un vero sistema di corruzione che ha nella D.C. uno degli assi portanti, hanno illuminato in maniera sinistra i tanti, anche recenti e sempre più inutili, appelli all’unità politica dei cattolici. E le solidarietà oggettive, le coperture, i silenzi, i vantaggi, l’alone di rispettabilità garantito dalle benedizioni e cerimonie religiose.
Non è possibile che quanto accade nel nostro paese non induca ad una riflessione seria sul cristianesimo in Italia. Non è possibile che non ci si ponga almeno qualche domanda sul come mai proprio nelle zone bianche, dove vi è una tradizionale egemonia cattolica, la contestazione assuma la forma plebiscitaria delle leghe.
Non è possibile andare avanti in un continuum come se nulla fosse accaduto.
È arrivato il tempo di dare un segno, un segno pubblico che sottolinei una volontà penitenziale, se non si vuole confinare questa parola evangelica nei segreti delle singole coscienze, sottraendole lo spazio comunitario.
Il segno è che non si usi mai più il nome cristiano per qualificare un partito politico. I vescovi devono decidere e optare per questa rinuncia.
Chiediamo che i nomi cristiano, cattolico, vengano rimessi in libertà: che finiscano la cattività ed il sequestro a cui sono stati sottoposti. Chiediamo che tornino a significare in maniera inequivoca la dimensione della fede nella sua santità e universalità.
Questo segno non è tutto, però sarebbe un messaggio non superfluo per l’Italia e per l’occidente, ove la profezia è diventata rara. Forse eclissata per la nebbia troppo a lungo sopportata

Tempo di raccoglier pietre

Narra la Bibbia che il giovane Davide mentre si preparava all’impari duello con un avversario da tutti ritenuto invincibile si scelse cinque ciottoli lisci dal torrente e li pose nel suo sacco da pastore che gli serviva da bisaccia” (1Sam. 17,40). L’immagine vuol significare l’accuratezza con la quale ci si deve attrezzare per vivere e lottare in tempi esigenti, nei quali la speranza è difficile e tutto sembra proclamare l’inutilità degli sforzi tesi a rendere la storia più umana. Sproporzione di forze, eppure …
Siamo in tempi di resistenza. Il quaderno numero 22 è organizzato attorno a questo nucleo tematico. I contributi non hanno la pretesa di suggerire un quadro di riferimento organico. Sono spunti, esperienze, riflessioni, testimonianze, offerti da diverse angolature.

Roberto Fiorini


 

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