Editoriale


 

…sindrome giapponese, prognosi messicana?

Credere che i lavoratori sostituiti dalle macchine troveranno inevitabilmente un’occupazione nella costruzione di quelle stesse macchine, equivale a pensare che i cavalli sostituiti dai veicoli meccanici possano essere utilizzati nelle differenti branche dell’industria automobilistica (Wassily Leontief)

Esuberi. Con questa parola si indicano le eccedenze del personale che lavora nelle aziende ristrutturate. In genere i primi ad essere tagliati sono gli operai politicizzati in compagnia di quelli che, per motivi di salute o altro, sarebbero poco scattanti nel seguire i movimenti rapidi previsti dalle ristrutturazioni. Una sorta di darwinismo che vede eliminati i più deboli, corretto però con la scrematura di quelli, che, fin troppo agili, hanno caratteristiche di leaders e capacità di aggregare i compagni in forme di resistenza più o meno efficaci.
È avvenuto, però, qualcosa di nuovo. Sono diventati esuberi anche quadri tecnici ed impiegatizi, da sempre legati anche affettivamente all’azienda. Persone la cui identità faceva corpo unico con il suo prestigio, che mai si sarebbero sognate di fare uno sgarro, uno sciopero, una benché minima protesta. Gente preparata, lavoratrice, con una robusta etica del lavoro. È accaduto alla Fiat. Ma si sa che quello che avviene nell’azienda torinese spesso ha una valenza anticipatrice, quasi profetica.
Ecco una delle tante storie: «Se nasci da un padre operaio Fiat, frequenti l’asilo nido Fiat, passi le vacanze alla colonia estiva Fiat, fai sport con i corsi nuovo Fiat, a che cosa puoi aspirare se non a lavorare per la Fiat? La fedeltà, l’obbedienza, l’identità con l’azienda erano scontate. Come l’intoccabilità dei nostri privilegi. Gli anni settanta e ottanta mi sono scivolati addosso. Diluviava, ma io avevo l’impermeabile del mio posto sicuro, del mio lavoro gratificante. Per la Fiat giravo l’Italia e il mondo: ero felice» (Smemoranda D.F.B. n°6, marzo ‘94, p. 30).
In molti nell’ottanta avevano partecipato alla marcia dei 40 mila colletti bianchi contro le tute blu in lotta per il nuovo contratto di lavoro. «Credevo di far bene. Credevo di manifestare con gli altri capi per ripristinare un diverso clima: per lavorare… Non pensavo di agire contro qualcuno ma a favore di tutti. Oggi capisco che eravamo pilotati. Di più: oggi so che la manifestazione ha avuto quell’esito perché dietro c’era l’azienda… La stessa azienda ora ci lascia a casa» (ibidem, p. 28).
Alcune considerazioni. Innanzitutto la condizione di espulsi ha provocato una nuova presa di coscienza oltre che sul presente, duro da affrontare, anche sul passato “felice” e sullo stato di piena dipendenza culturale nei confronti dell’azienda.
Inoltre le manifestazioni a Torino alle quali congiuntamente hanno partecipato tute blu e colletti bianchi hanno messo in luce che vi è una condizione ed un interesse in comune. La questione del lavoro ormai non è più soltanto una questione operaia, ma investe i tradizionalmente garantiti, e persino quanti possono vantare buone o elevate capacità tecniche acquisite, oltre che indiscutibile senso di appartenenza all’azienda-famiglia. Per nessuno il futuro rimane certo e senza rischi.
Anche le garanzie ottenute attraverso tresche individuali con le imprese, al di fuori di un quadro che includa il diritto di ciascuno nell’ambito di certezze normative per tutti, rappresentano un ombrello bucato che può far acqua al primo temporale. Arriva una nuova generazione di computer e di robot ed anche i più garantiti possono saltare. In qualche City del mondo decidono una diversa politica industriale o commerciale e quella buona azienda con personale qualificato diventa un deserto.
La questione del lavoro si profila con una drammaticità elevata proprio nelle culle del capitalismo vincente. L’evacuazione del lavoro vivo umano e la sua sostituzione progressiva con l’avanzante macchinismo innesca una serie di processi che, se lasciati alla grettezza di chi ragiona in termini esclusivi di profitto, avranno come esito inevitabile l’acuirsi delle tensioni sociali e, coi tempi che corrono, la minaccia che le risposte ai problemi del lavoro vengano date aumentando il tasso di violenza legittima per ottenere l’ordine pubblico.

Chi ha detto che i motivi dei licenziamenti debbano essere ricercati nella crisi delle aziende? Un servizio di Vittorio Zucconi su L’Espresso (1 agosto 1993) portava significativamente questo titolo “Andiamo così bene che ti licenzio”:
«Dalla sera alla mattina, a sorpresa, la più grande azienda americana di prodotti per l’igiene, la Procter & Gamble, annuncia a New York che 13.000 dei suoi 105.000 dipendenti in tutto il mondo saranno licenziati, e 30 delle sue fabbriche verranno chiuse come ‘misura preventiva’».
Nessuna crisi, nessun problema di bilanci, di vendite, di profitti hanno spinto al panico questo colosso …Anzi. Il bilancio di previsione per l’anno in corso calcola i profitti lordi a ben due miliardi di dollari, tremila miliardi di lire.
Ora quei 13.000 si uniranno ai 24.000 della Ibm, ai 50.000 della General Motors, ai… nella caccia di impieghi e stipendi inesistenti. Stiamo entrando nell’era della “prosperità senza lavoro”… Sempre più prodotti, fabbricati da aziende sempre più efficienti, inseguiranno sempre meno compratori, licenziati dalle stesse società che poi sperano di conquistarli come clienti… Persino il Giappone, patria del “posto di lavoro a vita garantito” in cambio della fedeltà cieca ed assoluta all’azienda, si comincia a lavorare di accetta. La Fujitsu, massima produttrice di computer nipponici, ha appena licenziato 6.000 persone e ha annunciato il congelamento delle assunzioni. Occorre sfatare una illusione che viene fatta balenare dai mass-media e nelle assemblee sindacali: che l’incremento della occupazione sia un effetto sicuro della ripresa produttiva, dell’aumento della competitività sui mercati… bla bla bla.
L’ingresso sempre più massiccio ed inevitabile dei processi di automazione erode sistematicamente i posti di lavoro, mentre i livelli della produzione rimangono inalterati o aumentano.
Siamo arrivati ad una svolta epocale:
«La straordinaria capacità con cui le nuove tecnologie sono capaci di sostituire il lavoro umano, il costo decrescente dei prodotti, la saturazione del mercato per quanto riguarda automobili, elettrodomestici e via dicendo, l’obiettiva capacità di lavorare meno producendo di più (in Germania, tra il 1950 e il 1975, il potere d’acquisto per abitante è quadruplicato mentre la durata del lavoro è diminuita del 23%) costituiscono […] altrettanti fattori a favore di una grande svolta che porti alla drastica riduzione degli orari, alla migliore distribuzione dei frutti del progresso tecnologico, alla creazione di un nuovo equilibrio tra il tempo di lavoro e il tempo libero…
Ma i paesi ricchi hanno scelto un’altra strada: mentre ormai il problema reale non è quello della produzione ma quello dell’equa ripartizione sia della ricchezza, sia del lavoro che occorre per produrla, essi invece fingono che il problema principale sia quello di rendere più veloce la produzione di beni. Ne deriva, ovviamente, un aumento della disoccupazione, la cui eventualità non è trattata come premessa per una gioiosa liberazione dal lavoro ma come spauracchio per tenere disciplinati i lavoratori, efficiente il loro rendimento, competitivo il loro comportamento» (D. De Masi, Jobless growth, Milano, novembre 1993, Erre Emme, p. 22).
Si sente ripetere che dove più intensa è stata l’introduzione della tecnologia (Giappone, USA) si sono anche creati milioni di nuovi posti di lavoro. È vero. Ma se si va a verificare la qualità di questi nuovi posti lo spettacolo non è certo esaltante: «La maggior parte dei nuovi posti, infatti, consiste in quelli che gli americani chiamano sarcasticamente hamburger – flipping jobs: lavori a mezzo tempo, di bassa qualità e bassa paga, svolti per la maggior parte da immigrati e part-timers» (Ibidem, pp. 25-26). Nella sostanza essi non possono riempire il vuoto di posti creato da una tecnologia onnivora.
Nel momento in cui il capitalismo si è imposto come dominatore assoluto emergono vistose le contraddizioni di una logica con alto tasso di disumanità. «Questa organizzazione, lasciata a se stessa, tende a dividere nettamente la popolazione: da una parte lavoratori iperindaffarati fino all’infarto, che dedicano alla loro mansione tutto il proprio tempo vitale; dall’altra, disoccupati completamente esclusi dal mondo della produzione e, di conseguenza, dal mondo civile (dal momento che il lavoro è considerato l’unico passaporto per la cittadinanza). Questo esercito di moderni meteci aumenta a vista d’occhio, nei Paesi avanzati come in quelli arretrati, e rischia di diventare in pochi decenni la maggioranza della popolazione» (ibidem, p. 31).
Ritorna al centro il tema della equa ripartizione delle ricchezze e del lavoro che è necessario per produrle. (Solo in questa accezione è legittimo parlare di solidarietà perché il discorso non sia mistificante). È il tema della finalità in società nelle quali “è avvenuta la sostituzione del mezzo al fine” (Weil). Porre ancora il mito della produttività quale principio assiologico sul quale ridisegnare l’organizzazione sociale e politica – questo è il messaggio vincente – significa cadere in un tragico errore, le cui conseguenze, nel nostro occidente, siamo solo vagamente in grado di calcolare. È l’errore di lasciare fuori dalla porta la vita concreta di uomini e donne consegnandole alla dismisura di meccanismi quantitativi sciolti da qualunque misura umana. In questo contesto la riduzione secca dell’orario di lavoro individuale è un obiettivo politico irrinunciabile quale condizione per ottenere il massimo di ripartizione possibile del bene lavoro.
Contestualmente si impone un impegno culturale autonomo rispetto alle direttrici dettate dall’inerzia dei dominatori dell’economia, capace di immaginare un diverso rapporto tra lavoro produttivo ed il resto della vita, alla quale deve essere restituita la possibilità di esprimersi e ricrearsi fuori dalla folle alternativa tra il parossismo della produttività e l’inattività forzata.
Alla preparazione di questo numero hanno collaborato i P.O. lombardi. In verità i contributi esprimono un tratto di cammino che stiamo facendo e che è ancora in pieno svolgimento. È una rinnovata riflessione critica sulla fede a partire dalla dislocazione in condizione operaia. In sostanza è lo sforzo di esprimere la nostra esistenza teologale riflettendo, comunicando, narrando e attuando un confronto serrato. […]

Roberto Fiorini



Dopo l’esito elettorale ci è venuto in mente questo testo
(Resistenza e Resa, 1988, pp. 64-67).
Non abbiamo resistito alla tentazione di pubblicarlo…

DELLA STUPIDITÀ
di Dietrich Bonhoeffer

 

Per il bene la stupidità è un nemico più pericoloso della malvagità. Contro il male è possibile protestare, ci si può compromettere, in caso di necessità è possibile opporsi con la forza; il male porta sempre con sé il germe dell’autodissoluzione, perché dietro di sé nell’uomo lascia almeno un senso di malessere. Ma contro la stupidità non abbiamo difese. Qui non si può ottenere nulla, né con proteste, né con la forza; le motivazioni non servono a niente.
Ai fatti che sono in contraddizione con i pregiudizi personali semplicemente non si deve credere – in questi casi lo stupido diventa addirittura scettico – e quando sia impossibile sfuggire ad essi, possono essere messi semplicemente da parte come casi irrilevanti. Nel far questo lo stupido, a differenza del malvagio, si sente completamente soddisfatto di sé; anzi, diventa addirittura pericoloso, perché con facilità passa rabbiosamente all’attacco. Perciò è necessario essere più guardinghi nei confronti dello stupido che del malvagio. Non tenteremo mai più di persuadere con argomentazioni lo stupido: è una cosa senza senso e pericolosa.
Se vogliamo trovare il modo di spuntarla con la stupidità, dobbiamo cercare di conoscerne l’essenza. Una cosa è certa, che si tratta essenzialmente di un difetto che interessa non l’intelletto ma l’umanità di una persona.
Ci sono uomini straordinariamente elastici dal punto di vista intellettuale che sono stupidi, e uomini molto goffi intellettualmente che non lo sono affatto. Ci accorgiamo con stupore di questo in certe situazioni, nelle quali si ha l’impressione che la stupidità non sia un difetto congenito, ma piuttosto che in determinate circostanze gli uomini vengano resi stupidi, ovvero si lascino rendere tali. Ci è dato osservare, inoltre, che uomini indipendenti, che conducono vita solitaria, denunciano questo difetto più raramente di uomini o gruppi che inclinano o sono costretti a vivere in compagnia.
Perciò la stupidità sembra essere un problema sociologico piuttosto che un problema psicologico. È una forma particolare degli effetti che le circostanze storiche producono negli uomini; un fenomeno psicologico che si accompagna a determinati rapporti esterni. Osservando meglio, si nota che qualsiasi ostentazione esteriore di potenza, politica o religiosa che sia, provoca l’istupidimento di una gran parte degli uomini. Sembra anzi che si tratti di una legge socio-psicologica. La potenza dell’uno richiede la stupidità degli altri.
Il processo secondo cui ciò avviene, non è tanto quello dell’atrofia o della perdita improvvisa di determinate facoltà umane – ad esempio quelle intellettuali – ma piuttosto quello per cui, sotto la schiacciante impressione prodotta dall’ostentazione di potenza, l’uomo viene derubato della sua indipendenza interiore e rinuncia così, più o meno consapevolmente, ad assumere un atteggiamento personale davanti alle situazioni che gli si presentano.
Il fatto che lo stupido sia spesso testardo non deve ingannare sulla sua mancanza di indipendenza. Parlandogli ci si accorge addirittura che non si ha a che fare direttamente con lui, con lui personalmente, ma con slogan, motti ecc. da cui egli è dominato. È ammaliato, accecato, vittima di un abuso e di un trattamento pervertito che coinvolge la sua stessa persona. Trasformatosi in uno strumento senza volontà, lo stupido sarà capace di qualsiasi malvagità, essendo contemporaneamente incapace di riconoscerla come tale. Questo è il pericolo che una profanazione diabolica porta con sé. Ci sono uomini che potranno esserne rovinati per sempre.
Ma a questo punto è chiaro che la stupidità non potrà essere vinta impartendo degli insegnamenti, ma solo da un atto di liberazione. Ci si dovrà rassegnare al fatto che nella maggioranza dei casi un’autentica liberazione interiore è possibile solo dopo esser stata preceduta dalla liberazione esteriore; fino a quel momento, dovremo rinunciare ad ogni tentativo di convincere lo stupido.
In questo stato di cose sta anche la ragione per cui in simili circostanze inutilmente ci sforziamo di capire che cosa effettivamente pensi il «popolo», e per cui questo interrogativo risulta contemporaneamente superfluo – sempre però solo in queste circostanze – per chi pensa e agisce in modo responsabile. La Bibbia, affermando che il timore di Dio è l’inizio della sapienza (Sal.111,10), dice che la liberazione interiore dell’uomo alla vita responsabile davanti a Dio è l’unica reale vittoria sulla stupidità.
Del resto, siffatte riflessioni sulla stupidità comportano questo di consolante, che con esse viene assolutamente esclusa la possibilità di considerare la maggioranza degli uomini come stupida in ogni caso. Tutto dipenderà in realtà dall’atteggiamento di coloro che detengono il potere: se essi ripongono le loro aspettative più nella stupidità o più nella autonomia interiore e nella intelligenza degli uomini.

Disprezzo degli uomini?

Il rischio di lasciarci spingere al disprezzo degli uomini è molto grande. Sappiamo bene di non aver alcun diritto di farlo e che ciò ci porterebbe ad un rapporto assolutamente sterile con gli uomini. Le considerazioni che stiamo per fare ci possono tenere lontani da una simile tentazione. Disprezzando gli uomini cadremmo esattamente nello stesso errore dei nostri avversari. Chi disprezza un uomo non potrà ottenerne mai nulla. Niente di ciò che disprezziamo negli altri ci è completamente estraneo.
Spesso ci aspettiamo dagli altri più di quanto noi stessi siamo disposti a dare. Perché finora abbiamo riflettuto in modo così poco obiettivo sulla debolezza dell’uomo, e su quanto sia esposto alla tentazione? Dobbiamo imparare a valutare gli uomini più per quello che soffrono che per quello che fanno o non fanno.
L’unico rapporto fruttuoso con gli uomini – e specialmente con i deboli – è l’amore, cioè la volontà di mantenere la comunione con loro. Dio non ha disprezzato gli uomini, ma si è fatto uomo per amor loro».

 


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