Sirio Politi:
Una zolla di terra
Introduzione di Luisito Bianchi
A cura di Maria Grazia Galimberti

Don Sirio Politi è stato e rimane, anzitutto, una zolla di terra, una zolla della Chiesa di Lucca con la sua Versilia. Ripubblicare il suo primo libro a vent’anni dalla sua morte, avvenuta il 19 febbraio 1988, non è solo volontà di rinnovare la memoria di un testimone appassionato e profetico dell’amore di Dio e della causa dei poveri, ma è anche trasmettere alle nuove generazioni un mistero, una visione, una passione.
“Una zolla di terra” è una ricchezza della terra, è una ricchezza della Chiesa di Lucca da riscoprire e avvicinare con passione e riconoscenza.
“La zolla del mio campo – scrive don Sirio – è tutta la terra. Ogni uomo la mia carne e il mio sangue. Tutta la storia il mio destino”. Egli è ormai quella zolla che, trasformata in terra di dio, sostiene e dilata il passo di tutti noi.
“Io – prosegue don Sirio – mi trovo in tutti e di ognuno continuamente scopro qualcosa in me. Qualsiasi cosa vengo a sapere dagli altri sento che già la conoscevo: era in me da tempo. È venuta a galla in quello o nell’altro fratello, in quell’angolo della terra invece che in me o dove abito io, in un altro piuttosto che nel mio tempo. Ma è realtà mia, ugualmente che sua. E la pietà che ho per loro è pietà verso me stesso: compassione per tutto il mistero degli uomini. E la tristezza sale e cresce nel cuore come la nebbia d’inverno”.


Luisito Bianchi:
I miei amici (Diari 1968-1970)

L’autore di questo diario è un prete, che fa l’operaio: «L’esperienza della fabbrica […] era un fatto di coerenza: trovare il sostentamento nel lavoro per essere gratuiti nel ministero, per cercare di capire come poteva essere credibile la Chiesa. Io potevo esserlo, come persona, ma quello che mi interessava era che lo fosse la Chiesa. E quell’interrogativo rimane aperto ancora oggi, forse ancora di più».
Le sue sono annotazioni quotidiane: tumultuose, appassionate, dubbiose e drammatiche. E animate da un affetto sincero, pieno di arguzia e allegria, verso i compagni: quelli che condividono i turni nel reparto della Montecatini, a Spinetta Marengo.
Leggendo ci accorgiamo di essere entrati nella vita di questi amici: sappiamo tutto di loro e delle loro famiglie; tutto della Commissione interna di fabbrica e dei vari direttori; abbiamo imparato a fiutare l’odore chimico del reparto, abbiamo provato la lunghezza del turno di notte, condiviso gli innumerevoli thermos di caffè, attraversato i conflitti, visto gli incidenti e patito le morti.
È questa la ragione del titolo “I miei amici”, perché è attorno ai compagni che prende senso tutta l’esperienza di don Luisito Bianchi.
Ci passa la storia d’Italia in questo libro: il movimento operaio, i difficili anni postconciliari, quel ‘68 che ha scompigliato come un vento la società del nostro Paese. Ma, soprattutto, protagoniste sono la Chiesa e la Fabbrica: restituite senza ideologia e con la capacità di far emergere problemi e contraddizioni in cui ci sorprendiamo ancora oggi immersi.
Società, politica, teologia, cronaca: qui non sono concetti, ma forze che agiscono nella viva carne di una persona che a quarant’anni mette da parte tutto, tranne la propria coscienza, per esporre alla nuda prova della vita la sua vocazione e la sua umanità.
“I miei amici” sono un vero «giornale dell’anima», che non seleziona né gerarchizza, non censura né abbellisce, non ammaestra né moraleggia, ma provoca con il semplice potere della verità.



Bellavite Bianchi Ciccolini Fiorini Virgili:
Sulla Chiesa povera

Negli anni immediatamente seguiti al Concilio Vaticano si è scritto e parlato molto della povertà della e nella Chiesa, magari confondendo a volte la povertà con il pauperismo e identificandosi con posizioni ideologiche. Ma ormai da parecchi anni non se ne parla quasi più. Eppure il problema del potere e del denaro si presenta ancora identico alla Chiesa all’inizio del terzo millennio.
La povertà della e nella Chiesa non è un aspetto accessorio,ma è un tratto qualificante la sua stessa identità, ne tocca l’essenza, dovrebbe essere il segno distintivo. Non è questione della sua generosità ma appunto della sua identità.
In queste pagine, con un approccio corale e rigoroso ma altrettanto franco, si parla della povertà della Chiesa nel suo insieme: nelle strutture che si dà, nel modo di porsi tra gli uomini, nell’immagine di sé che coltiva, nelle scelte pastorali, nei mezzi che predilige e nel modo con cui li usa. È in gioco la coerenza con se stessa, con quello che dice di rappresentare, con il messaggio di Gesù che assume come progetto di vita. Troppo forte, infatti, è lo scarto tra come appare e l’amore e la speranza che dovrebbe comunicare: non solo a parole, ma attraverso segni di rifiuto della “gloria della terra” e della tentazione idolatrica di identificare la propria gloria con quella di Dio. Non è una condanna delle intenzioni, ma la constatazione che le persone cui si rivolge sempre più la percepiscono così.


 

Angelo Reginato:
Parole delle fedi: lavoro

Oggi le religioni sono tornate sulla scena pubblica e siamo immersi nel pluralismo religioso A fronte di simili cambiamentI spesso ci mancano il linguaggio e le informazioni per poter affrontare il dialogo e per capire quanto sta accadendo intorno a noi, anche se cominciamo ad intuirne l’importanza. Così nel confronto quotidiano con l’altro, anche le parole stanno cambiando di significato: e in primo luogo le parole religiose…
Su tale sfondo, la collana “Parole delle fedi” si propone di fornire qualche iniziale chiave di lettura del mutamento religioso in atto, redigendo le voci di un sempre più necessario vocabolario interreligioso, scegliendo fra le parole-chiave del tradizionale universo del sacro. Perché l’odierno processo di interculturalità non può non fare i conti col caso serio delle religioni.
La prudenza consiglierebbe di attendere. Non tanto perché la voce in questione sia un neologismo, il cui inserimento in un “vocabolario” andrebbe vagliato con cautela. Tutt’altro! Se c’è una parola carica di storia, avendo sulle spalle secoli di discussioni e una presenza dì primo piano nel panorama culturale, questo vocabolo è proprio “lavoro”Semmai la cautela andrebbe usata per mettere in luce i molteplici significati di cui è stata rivestita: ogni parola ha una propria storia, e più lungo è il lasso di tempo in cui il lemma agisce, più sono le epoche tra le quali “slitta” (semanticamente!), tanto maggiore dev’essere lo scavo interpretativo.
La parola “lavoro” può essere intesa come voce religiosa? L’autore approfondisce l’uso di questo termine nelle diverse religioni del mondo, a partire dal “lavoro della creazione” scritto nella Genesi per approdare alle parole del profeta Muhammad: “Allah non concede grazie a chi, pur essendo capace e adatto, non fa nessun lavoro”.


 

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